Il ragazzo a cui passai il Giornale

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Su Facebook ogni dibattito viene a noia dopo poche ore, e questo mi libera; mi solleva dal peso di dover scrivere cosa penso, che ne so, di Montanelli. Due giorni fa forse, ma ormai non interesserebbe più ad alcuno; e comunque anche quell'alcuno avrebbe letto in questi giorni tre o quattro opinioni abbastanza simili. Che potrei aggiungere di interessante? Cosa è stato Montanelli per me... Una parte del paesaggio? Il nonno ex fascista che molti di noi non hanno realmente avuto, ma ci spettava comunque per contratto? Perché bene o male quello è stato. Mi viene in mente un mio amico, si fa per dire, non lo vedo da anni. Ecco, potrei raccontare questa cosa, e spero che nessuno ci si riconosca.


Risale all'anno in cui compravo almeno un giornale al giorno – ma a mia discolpa, era un anno in cui capitavano tantissime cose, il 1989? Più facilmente il 1990. E per quanto fossi un fanboy di Repubblica (merito meno di Scalfari che di Beniamino Placido) cercavo di comprarli un po' tutti. Anche quelli che non mi piacevano – del resto, lo imparai così che non mi piacevano (ricordo ancora il mio choc culturale davanti a un normalissimo fondo del Corriere: ma qui parlano bene di Craxi! E basta! Cioè non c'è nessuna notizia, stanno soltanto parlando bene di Bettino Craxi? Ma si può fare, voglio dire, è legale questa cosa?)

Compravo la Stampa, compravo l'Unità; un giorno, è naturale, mi ritrovai in mano il Giornale. Proprio quel giorno invece di farmi un giro in Cittadella, alla fine delle lezioni; invece di andare a sfogliare per l'ennesima volta i 33giri in offerta al Discoclub, me ne rimasi lì sulla panchina di granito del binario 5. Il destino, che è uno stronzo, volle che proprio quel giorno mi trovasse col Giornale in mano un mio amico del paese, in una fase della vita in cui lui era un ragazzino timido, e io un po' meno, e mi chiese: che giornale leggi? Mah niente dissi, sai, ogni giorno cerco di comprarne uno diverso...

"Questo proprio non l'ho mai visto".

"Ma sì, è un giornale di Milano, uno spinoff del Corriere". Questo di sicuro non lo dissi, non sapevo cosa volesse dire spinoff. Conoscevo a grandi linee le circostanze della scissione, e soprattutto conoscevo Montanelli sin da bambino, perché il Giornalino pubblicava a puntate la Storia dei Romani e dei Greci e di certe nozioni non credo di essermi mai liberato. Una parte del paesaggio, appunto. Ma se era il 1990 facevo il terzo anno, forse il quarto? Ormai lo avevo capito che reazionario fosse Montanelli, ci litigavo già volentieri. Ci avrei messo comunque anni a capire che uno a volte le cose le legge proprio per incazzarsi, e che il successo di alcuni giornalisti e scrittori dipende dalla felicità con cui assolvono precisamente a questa funzione. Ma in quel momento per me era vitale che il mio amico capisse che quel che leggevo non lo condividevo, insomma, m'avesse beccato con Corna Vissute mi sarei sentito un po' meno in imbarazzo.

"Quando hai finito me lo presti?"

Anche questa cosa non me la disse esattamente così – come si diceva a quei tempi passami-i-fogli-di-giornale-che-hai-già-letto? Perché è una cosa che si faceva. Comunque glielo passai tutto, che altro potevo fare? A quel tempo m'inteneriva. Al suo liceo era l'unico del paese, al paese era rimasto un po' fuori dai giri, lo vedevo aggirarsi per il binario 5, troppo piccolo per provarci con le ragazze; aveva un modo di fare che titillava il mio senso di responsabilità. È esattamente questo il problema: mi sento responsabile per quanto successo. Il che è assurdo, ma nondimeno vero. Gli feci conoscere il Giornale di Montanelli, e lui cominciò a leggerlo tutti i giorni. Poi Montanelli se ne andò, ma la corriera ormai era partita. Tempo quattro anni e lo ritrovai berlusconiano duro. Nel frattempo era diventato anche più alto di me di una buona spanna, e un pilastro della comunità, una fidanzata carina e tutto quanto, e questo malgrado ogni tanto io cercassi di incontrarlo con altri quotidiani in mano, lo vedi che non leggo solo il Giornale? L'ho comprato solo quel giorno, non mi puoi inchiodare a un giorno solo, no? Tutto questo succedeva in giorni lontani di un secolo scorso, ma non c'è una volta che non si riparli di Montanelli e in generale del Giornale che io non ripensi a lui, e non mi chieda se non è stata tutta colpa mia, e come sarebbe andata se quel giorno in stazione mi avesse trovato con in mano il Manifesto.

Ecco un motivo più originale di altri per odiare Montanelli. E invece no, per qualche oscuro motivo lo sento mio complice. Non abbiamo vigilato, non siamo stati attenti; certi mostri sapevamo che avrebbero bussato a certe porte che dovevamo custodire sprangate e invece abbiamo lasciato una fessura, per curiosità. E per voglia di litigare. Sicuri che dal litigio saremo emersi trionfatori. Della sposa abissina sentii parlare soltanto qualche anno dopo, ai tempi in cui fondò la Voce e diventò un astro dell'antiberlusconismo nascente. Non riesco a credere che si sia una coincidenza. Montanelli aveva rotto coi colleghi di destra, i colleghi di destra erano iene da archivio: pescarono la cosa che avrebbe reso Montanelli più inviso al suo nuovo pubblico di sinistra. Prendetelo come sospetto di uno che si sta rincoglionendo; ma fino a un certo punto, se qualcuno tirava fuori Montanelli, qualcun altro rispondeva sì, vabbe', Montanelli rappresenta un determinato milieu, vittima del brigatismo, ecc. ecc. Da un certo punto in poi la prima reazione diventò: Montanelli? Lo stupratore di una bambina abissina? In tutto questo riconosco lo stile della destra berlusconiana italiana, dei vari macchinisti del fango a cui mai nessuno scolpirà un monumento che pure mi piacerebbe personalmente profanare.

Ecco, alla fine sono riuscito lo stesso a spiegare cosa penso di Montanelli, e la ragione del mio fastidio per il dibattito di questi giorni – che non è il fastidio per un monumento imbrattato, peraltro con un rosa gentile e lavabile – ma l'imbrattamento arriva dopo vent'anni in cui un personaggio veramente molto interessante, e criticabile, e criticato, si è progressivamente ridotto a uno stupratore di bambina. E il fastidio per non riuscire a spiegare questa cosa senza passare per uno che minimizza l'episodio. È chiaro che l'episodio è grave, anche una volta inserito in un contesto (la guerra di Etiopia) da cui Montanelli non ha mai voluto davvero prendere le distanze, come dal primo amore; dal fascismo sì, dal conservatorismo liberale del dopoguerra sì, da Berlusconi quasi subito; ma dal mito degli italiani buona gente che liberano i barbari abissini da sé stessi, mai. Oggi però l'epiteto "pedofilo" chiude ogni discussione, e invece la discussione è interessante; significa "mostro", e Montanelli tutto era meno che un mostro che si aggirava per l'acrocoro etiopico a caccia di bambine. Era un ufficiale italiano impegnato in una guerra coloniale, che recepiva direttive dei superiori: il consiglio di trovarsi una "madam", una sposa a tempo, gli venne da un superiore che in questo modo sperava di prevenire i rapporti con le prostitute. Tutto questo più che sotto il capitolo "Pedofilia" non sarebbe il caso di inserirlo in quelle, altrettanto interessanti, "Crimini di guerra coloniale", "Sessualità in Italia nell'epoca fascista"? Ma tutto questo lo sappiamo anche grazie a Montanelli, che avrebbe avuto tutto il tempo e l'interesse per negare le circostanze e insabbiare le evidenze, e mai si è sognato di farlo; perché?

Probabilmente perché aveva voglia di litigare anche su questo, ed era abbastanza pieno di sé da immaginare che alla fine avrebbe vinto anche questo dibattito. "Pedofilo" oggi equivale a "tabù", ma Montanelli tabù non ne ha mai avuti (o forse l'uso di armi chimiche in Etiopia). Da scrittore di libri di storia, sapeva come certe pagine di storia si scrivono, e che i posteri hanno sempre ragione; ma che proprio per questo è inutile blandirli. Ai posteri servono anche i mostri, e forse a Montanelli non dispiaceva diventarne uno. Il suo monumento, lui per primo l'ha imbrattato. C'è qualcosa di notevole in questo; non voglio dire ammirabile, ma insomma Indro Montanelli ai posteri continua a dire: vaffanculo, io sono così. Sono un uomo del mio tempo, che ha fatto alcune cose che voi trovate orribili e ai miei tempi erano normali. Non vi chiedo scusa, non capisco nemmeno a cosa vi servano le scuse di un vecchio o di un morto. E neanche voi, non dovete scusarmi: dovete giudicarmi. Nella Storia d'Italia a Volumi a me forse spetta una mezza pagina: vedete voi cosa farci entrare e cosa no. Se alla fine ci sarà scritto "ha stuprato una bambina in Abissinia", amen. Il punto non è se raccontarla così mi renda o non mi renda onore: io sono morto, chi se ne frega del mio onore. Il punto è: farà onore a voi?
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La scuola pubblica combatte il razzismo; a parecchi la cosa non va

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[Questo pezzo è uscito giovedì su TheVision]. Qualche giorno fa una ragazzina ha chiamato una sua compagna di prima media per spiegarle che non sarebbe venuta a scuola, né quel giorno né mai più. È così che gli insegnanti di una scuola di Nichelino (TO) hanno scoperto che la Prefettura aveva disposto il trasferimento in un altro comune della sua famiglia: quattro bambini e due genitori armeni provenienti dalla Germania, richiedenti asilo in Italia. Come ha fatto notare la preside, in altri casi del genere si era almeno attesa la fine dell’anno scolastico. Ma come dicono al Viminale, “la pacchia è finita”: il Decreto Sicurezza prevede tra le altre cose la riorganizzazione dei Centri di accoglienza, il che a quanto pare significa anche che i Centri che hanno vinto i nuovi bandi devono cominciare a ospitare i migranti da subito.


La storia si presta bene a un certo approccio lacrimevole: povera bambina, strappata una volta in più a un contesto in cui aveva appena cominciato ad ambientarsi. Povera famiglia, sballottata da un governo che non solo non ha interesse a favorire l’integrazione, ma in questi casi dà la chiara impressione di volerla sabotare. Non dico che questo approccio sia sempre sbagliato: non c’è niente di male nel farsi scendere una lacrima, ogni tanto. Vorrei comunque aggiungerne un altro, meno emotivo ma cruciale: l’approccio economico. Trasferire una famiglia con figli in età scolare, nel bel mezzo dell’anno scolastico, non è solo uno choc per bambini e genitori. Come ha fatto notare la dirigente è anche uno spreco per la scuola, che ha destinato a questi bambini risorse preziose. Da qualche parte i contribuenti hanno pagato un insegnante di italiano per stranieri che non serve più, o serve di meno; da qualche altra parte occorrerà un insegnante in più e bisognerà metterlo a contratto fino a giugno. Uno spreco di cui difficilmente sta tenendo conto l’autore dei tagli e delle riorganizzazioni dei centri di accoglienza regionale: certe spese nascoste affiorano soltanto quando i bilanci sono belli e stampati. Ma in un settore del pubblico servizio che malgrado qualche elargizione degli ultimi governi non si è mai rimesso del tutto dai tagli dell’epoca tremontiana, ogni ora di lezione di ogni insegnante è preziosa. Chi dall’oggi al domani decide di spostare una famiglia con due studenti da alfabetizzare non lo sa, o non gli interessa. Il bilancio della scuola non è la sua priorità. Anzi, tanto meglio se serve a dimostrare che la scuola pubblica spreca le sue risorse.

Niente è perfetto, e in particolare la scuola statale italiana è ben lontana da quel modello di laicità e inclusione auspicata dai padri costituenti. Ma in un’Italia quotidianamente irradiata dall’odio e dal razzismo veicolati da tv, radio e internet, la scuola statale resiste: non potrebbe fare diversamente, ne va del suo scopo e del suo futuro. Sei mattine alla settimana la scuola accoglie studenti di ogni provenienza e prova a farli studiare e vivere assieme. Non sempre ci riesce, ma ci prova ogni maledetta mattina. E qualche risultato, col tempo, lo porta a casa. Due anni fa l’Istat pubblicò i risultati di un’indagine sull’integrazione scolastica degli studenti di origine straniera. A sorpresa, i più ottimisti sull’integrazione risultavano proprio gli operatori in prima linea: i docenti. Ma nel frattempo più di uno studente di origine straniera su tre affermava di sentirsi italiano; soltanto il 20% degli studenti di origine straniera dichiarava di non frequentare nel tempo libero compagni italiani, mentre il 50% degli studenti affermava di frequentare indifferentemente compagni di origine italiana e straniera. Non sarebbero nemmeno dati eccezionali, se non si riferissero a una nazione guidata da un’alleanza di partiti xenofobi che propaganda sette giorni su sette via social e tv la cosiddetta emergenza invasione.



Senz’altro fa più rumore un hashtag del ministro degli interni che un enorme meccanismo scolastico che ogni giorno accoglie bambini di tutte le famiglie e li mette a sedere dietro agli stessi banchi. Ma l’unico motivo per cui Beppe Grillo può ostinarsi a credere che il razzismo in Italia sia un falso problema è proprio la resistenza silenziosa e quotidiana di un’istituzione che tutti i giorni continua ad applicare l’articolo 3 della Costituzione; non soltanto quel primo comma già fantascientifico (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), ma anche il secondo: quattro righe di pura follia in cui nel 1948 si affermava che il compito della Repubblica fosse “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che di fatto limitano “la libertà e l'eguaglianza dei cittadini”. Anche se rimuovere gli ostacoli economici e sociali a conti fatti sembra oggi una missione impossibile, e la scuola pubblica italiana ben lontana da avere le risorse per mirare a un risultato del genere. Ma così come i ponti continuano a permettere alle persone di passare da una sponda all’altra, anche mentre la loro struttura interna comincia a cedere; così la scuola italiana continua a fare quello per cui è stata progettata, e non smetterà che un attimo prima di crollare. Il che potrebbe anche succedere molto presto, e chi transita in quel momento non c’è dubbio che si farà male.

C’è intanto chi però quel crollo lo auspica, lo aspetta, lo prepara, e spera di guadagnarci qualcosa. Non è solo il caso della Lega di Salvini, di cui però non dobbiamo stancarci di notare il carattere paradossale: un partito che vince le elezioni promettendo sicurezza, e di fatto fa tutto quello che è in suo potere per aumentare la tensione sociale, la paura per il diverso e in definitiva proprio l’insicurezza. Questo paradosso la Lega lo persegue a tutti i livelli: a Bruxelles sabota una proposta per ridistribuire più equamente i rifugiati nei Paesi dell’Unione; a Roma promette meno sbarchi e più espulsioni (ma senza mantenere); e all’elettore terrorizzato suggerisce neanche tanto velatamente di tenere un’arma carica nel comodino. Che la Lega veda nella scuola pubblica un ostacolo, una complicazione, è abbastanza ovvio. Più complessa è la posizione dei cattolici... (continua su TheVision).



Negli ultimi giorni Papa Francesco ha ribadito che i migranti sono un dono da accogliere con gratitudine, ma il messaggio deve essere sfuggito alle scuole paritarie cattoliche, ben lontane dagli standard di accoglienza delle pubbliche. Le paritarie non hanno nessun obbligo di accoglienza, ma il problema si crea quando i genitori italiani iniziano a iscriverci in massa i loro figli nel timore che la presenza di alunni stranieri nelle pubbliche del loro quartiere possa abbassare la qualità didattica. Il che magari all’inizio non è vero, ma lo diventa quando molte famiglie italiane cominciano a evitare la scuola pubblica, e la percentuale di alunni di origine straniera per classe supera quel 30% che nel 2009 il ministro dell’Istruzione Gelmini aveva fissato come limite massimo.

La ghettizzazione delle scuole pubbliche di quartiere si potrebbe risolvere con una legge che imponga alle scuole paritarie di accettare nelle proprie classi la stessa quota di alunni di origine straniera. Nessun politico ha avanzato una proposta simile, neanche tra coloro che si professano cattolici. Invece è sempre sul tavolo la proposta di eliminare dalla Costituzione un passaggio dell’articolo 37 che non permette di conciliare le scuole paritarie con i fondi ricevuti dallo Stato: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Molti cattolici vorrebbero che l’Italia spendesse di più per sostenere le famiglie che scelgono le loro scuole. Se non lo Stato, almeno la regione, che in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna potrebbe assumere direttamente il controllo del settore istruzione nell’arco di pochi mesi, grazie alla riforma delle autonomie regionali.


È triste dover riconoscere che questo tipo di scuole, fondate e portate avanti con le migliori intenzioni, sono diventate un ostacolo all’integrazione. Ma quando in alcuni quartieri delle città italiane esistono classi di soli stranieri, i casi sono due: o l’invasione propagandata dalla Lega è reale, oppure negli stessi quartieri si trova una scuola paritaria finanziata anche con il denaro pubblico dove gli studenti di origine straniera sono una minoranza. Siamo liberi di indignarci e basta, ma vale la pena riflettere, anche in questo caso, sull’aspetto economico della questione: perché lo Stato, che spende già molto meno di quanto dovrebbe per finanziare una scuola pubblica che favorisca l’integrazione, deve destinare ulteriori risorse a un’istituzione concorrente che la ostacola? Le famiglie che vogliono mandare i figli in una scuola con pochi neri (e pochi poveri in generale) non potrebbero pagare tutta la retta di tasca loro? Forse si potrebbero risparmiare fondi per investirli dove servono davvero: nell’istruzione pubblica.
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Rinnega Cristo (e fatti un bagno caldo)

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9 marzo – Quaranta santi martiri di Sebastea (320 ca.)


È anche il nome di una porta monumentale
di Treviso (e di una casa editrice lì nei pressi).
[2014] Erano quaranta, giovani e forti (meno uno). Militavano tutti nella Legione XII, fondata da Giulio Cesare, detta anche “Fulminata” per la folgore che portava sui propri vessilli, duemila anni in anticipo su qualsiasi brigata di paracadutisti. La legione nel corso dei secoli si era coperta di gloria ma anche un po’ di guano: durante alcune guerre di successione aveva scommesso sul Cesare sbagliato, e così era finita tra le truppe di frontiera, dislocata sul fronte orientale. La tipica destinazione punitiva da usare nelle minacce in caserma: se non fate silenzio vi spedisco nella Fulminata. Verso il 320 si trovavano appunto dalle parti di Sebastea (oggi Sivas, in Turchia centrale, a quel tempo Armenia), una delle zone di incubazione del primo cristianesimo. Basilio Magno, vescovo di Cesarea, ci racconta di come quaranta legionari fulminati venissero tratti in arresto con l’accusa di professare questa religione empia e sgradita all’imperatore d’oriente Licinio. Basilio scrive mezzo secolo dopo e ci lascia perplessi, visto che nel 320 Licinio aveva già da qualche anno controfirmato col cognato Costantino quel famoso editto di Milano che garantiva ai cristiani la libertà religiosa.

C’è un accappatoio azzurro.
Fuori piove un mondo freddo.
Sia come sia, i Quaranta vengono messi di fronte a una scelta secca: rinnegare la loro fede o morire. La solita storia, insomma, riscattata però dall’originalità del supplizio: ai Quaranta viene proposto il martirio per ipotermia, mediante immersione fino al collo nelle acque gelide di uno stagno. È una morte orribile ma abbastanza lenta, che offre discreti margini di riflessione: a chi durante il supplizio manifesta il desiderio di rinnegare il proprio dio, viene promesso un bagno caldo. Lo stagno è effettivamente contiguo a uno stabilimento termale romano provvisto di tutti i comfort, un fumante invito a rinunciare Cristo e farsi una bella sauna tonificante.

Prima dell’esecuzione, i Quaranta hanno il tempo per dettare le ultime volontà al più letterato di loro, tale Melezio: un accorato invito ai confratelli cristiani a non rinnegare, a non disperdersi, a seguire il loro coraggioso esempio. La lettera contiene una richiesta di essere sepolti in una tomba collettiva, che fu prontamente disattesa: i loro resti furono bruciati e le ceneri sparse al vento, forse nel tentativo (vano) di sventare il merchandising delle reliquie. Una volta immersi nello stagno, i 40 si dimostrano compatti e disciplinati soldati di Cristo, morendo assiderati senza esitazione, tutti.

Tutti tranne Melezio: Basilio ci informa che l’unico a tradire e chiedere a gran voce il bagno caldo fu proprio il letterato, che figura. Il suo posto fu immediatamente preso da un custode delle terme, commosso dal coraggio dei 39: gridando “sono cristiano anch’io!”, si tuffò nello stagno, permettendoci di ripristinare il numero tondo. Melezio invece si fece il bagno caldo e… morì immediatamente, ancora prima degli altri, proprio a causa dello sbalzo di temperatura. Ben gli sta. Ma perché doveva essere proprio il letterato a cedere? Perché a chi ha la pazienza di scrivere non deve essere concesso il coraggio di resistere sulle proprie posizioni?

Santiquaranta è anche il nome italiano di Sarandë, ridente località portuale albanese,
dal 1940 al 1944 nota anche come Porto Edda (sì, Edda Mussolini in Ciano).
Potrebbe trattarsi di un’antica manifestazione di diffidenza per scribi e intellettuali, comune non solo agli agiografi cristiani. Salvo che la leggenda ci è stata tramandata proprio da intellettuali scribacchini. Basilio Magno, Efrem il Siro, Gregorio di Nissa, Gaudenzio di Brescia, è come se ci dicessero: non fidatevi troppo di noi, noi siamo solo un medium, non il messaggio. Scrivere storie coraggiose non è necessariamente coraggioso. Un conto è scrivere, un conto è vivere, un conto è morire. Puoi scrivere di morte tutti i giorni della tua vita: il giorno che arriverà ti farà ugualmente paura, come se non l’avessi mai vista in vita tua. Non importa quanto tu ne abbia sentito parlare, fin da quando eri bambino: la morte è una sconosciuta che ti lascerà senza fiato e senza un discorso scritto. Sarebbe bello riuscire a prepararsi un’uscita dignitosa, qualche frase di circostanza: e invece chissà come ti comporterai in quel momento. Piangerai, scapperai, chiederai un bagno caldo; e dire che fino a un attimo fa sembravi un uomo.
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La felicità di Felicita (e Perpetua)

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7 marzo – Sante Perpetua e Felicita (III secolo), non le solite martiri

Quando l’arrestarono insieme con la sua padrona Perpetua e altri cristiani (Saturo e Saturno), Felicita era triste, perché aspettava un bambino. Era all’ottavo mese. Quando la padrona, nell’afa e nel buio della prigione cartaginese, cominciò ad avere visioni in cui saliva una scala di bronzo ignorando le armi di tortura appese a ogni piolo, Felicita si intristì ancora di più, perché capì che avrebbero ucciso tutti i suoi compagni in quanto cristiani, ma lei no: l’avrebbero risparmiata, perché la legge impediva di mettere a morte una donna gravida. I padroni se ne sarebbero andati in cielo, e la serva sarebbe rimasta giù a badare ai figli. Ma poi, due giorni prima di finire nell’arena tra le bestie, i suoi fedeli compagni si misero a pregare per la sua salvezza, e così intensamente pregarono che Felicita ebbe le doglie, e non senza soffrire partorì. Immaginatevi allora la felicità di Felicita, quando capì che non l’avrebbero lasciata sola, che avrebbero martirizzato anche lei (il figlio lo allevò una sua parente).

Contro Perpetua e Felicita, invece del solito leone o toro, aizzarono una vacca (non fu così efficace; dovettero mandare giù un gladiatore a finire Perpetua con la spada).

La Passione di Perpetua e Felicita non è la solita leggenda di santi. Come ha già scritto qualcuno (qualcuno che stasera ovviamente non riesco a ritrovare), la Passione assomiglia alle leggende come un manufatto originale ricorda le copie industriali. Ovvero: nel giro di qualche centinaio di anni il bacino del Mediterraneo si sarebbe riempito di storie di santi divorati dalle belve, santi sgozzati bruciati squartati e cotti alla brace; storie abbastanza ripetitive elaborate da copisti mediocri, costretti ad abusare di effettacci di scena per attirare l’attenzione; ma è abbastanza chiaro che al tempo in cui fu scritta la Passione tutto questo grandguignol immaginario ancora non esisteva. Chi scrive la Passione ci mette la freschezza, la sorpresa, di chi queste cose le scrive per la prima volta, per un pubblico che non deve controllare gli sbadigli a metà di una funzione religiosa; un pubblico che potrebbe ancora sgranare gli occhi e stupirsi per queste novità atroci e incredibili, questa giovane donna che sogna di combattere il demonio come un gladiatore in un anfiteatro gremito di spettatori: e che in quello stesso anfiteatro qualche giorno dopo muore davvero, non senza essersi raccolti i capelli dopo l’assalto di una vacca feroce; non prima di aver guidato il coltello nella mano del carnefice che alla fine tremava più di lei.

La Passione dovrebbe essere scritta all’inizio del terzo secolo, quando i cristiani erano ancora una minoranza soggetta a persecuzioni. I suoi protagonisti non sono supereroi inflessibili e senza paura: hanno caldo, soffrono la solitudine, si preoccupano per i genitori e i figli, temono i denti delle belve; sono esseri umani. La loro storia non serve a dimostrare la superiorità del cristianesimo sulla barbarie antica, ma a infondere coraggio a persone normali a cui sarebbe potuta toccare davvero una sorte come quella di Perpetua e di Felicita. Perpetua che descrive la sua prigione è stata anche accostata ad Anne Frank, con la sensibile differenza che nessuno leggendo il diario di Anne ha probabilmente concepito il desiderio di recludersi in una soffitta, mentre migliaia di lettori della Passio potrebbero davvero aver sognato di emulare l’eroismo suicida di Perpetua.


“Quanto a Perpetua, perché gustasse un po’ il dolore, penetrata la spada sino alle ossa lanciò un urlo e si portò essa stessa alla gola la mano esitante dell’inesperto gladiatore”.

Anche per questo preferiremmo crederla l’invenzione di qualche chierico morboso, qualcuno che magari voleva spiegare ai fedeli l’origine di un’iscrizione latina su una parete, un augurio di cui dopo qualche secolo si era smarrito il senso: PERPETVA FELICITAS, felicità per sempre. Preferiremmo pensare che Perpetua non sia mai scesa ventenne in un carcere; che non abbia mai fatto fronte al padre disperato che la supplicava di rinnegare Cristo e salvare la vita; e che anche Felicità non abbia mai partorito un bambino in cattività, assistita da amici fanatici che non vedevano l’ora di morire tutti assieme, e guardiani che le dicevano: soffri? Pensa quando sarai gettata in pasto alle belve. È pur vero che la Storia è piena di episodi del genere, una galleria di orrori e sopraffazioni, e chi rifugge il dolore e la violenza farebbe meglio a dedicarsi ad altre discipline (non biologia). (Neanche astrofisica). (Matematica, forse). Ma perché non sperare che almeno queste due ragazze non siano mai vissute, non siano mai morte?
Perché la Passione è un piccolo capolavoro. Se poi le pagine centrali le avesse scritte davvero, in prigione, la nobildonna Vibia Perpetua, si tratterebbe di un documento ancora più eccezionale: l’unico brano di letteratura latina femminile. No, in effetti abbiamo anche qualche distico elegiaco di una sodale di Tibullo; certe iscrizioni di Pompei che per quanto ne sappiamo potrebbero anche essere i testi di canzonacce da spogliatoio; e questo è tutto. Straordinariamente poco. Non esiste una Saffo latina di cui imparare a memoria i versi; nemmeno un’Ipazia di cui immaginare i manoscritti perduti; niente. Come se le donne non avessero mai scritto, per mille e più anni. Perpetua però qualche pagina l’avrebbe composta: c’è fior di studiosi che onestamente lo pensa. Certo, per crederci dobbiamo ipotizzare che abbia scritto la sua memoria nel carcere di cui pure si lamenta per via dell’afa, del buio e dell’affollamento: probabilmente in quel “meliorem locum carceris” in cui i suoi protettori avevano ottenuto che potesse passare qualche ora al giorno, magari corrompendo i carcerieri. Bisogna immaginare che in una situazione del genere Perpetua si metta a scribacchiare su un rotolo, o su una tavoletta di cera, concludendo con “Hoc usque in pridie muneris egi; ipsius autem muneris actum, si quis voluerit, scribat“: “Questo mi è successo fino alla vigilia del martirio: quel che succederà dopo lo racconti qualcun altro, se vuole”. E infatti le pagine scritte in prima persona da Perpetua sono integrate da un anonimo narratore che la tradizione identificava col grande teologo Tertulliano, vivo e attivo a Cartagine proprio nello stesso periodo. Tertulliano però è un avvocato di formazione, e la sua foga oratoria non ricorda molto lo stile dimesso ma a suo modo orgoglioso della Passio. Allo stesso tempo chi, se non lui, avrebbe potuto tentare un’operazione letteraria così complessa e sottile, dando la voce a una o più vittime di una persecuzione?


“Ragazza che scrive”, affresco pompeiano che trovate ristampato un po’ dappertutto e che ci fa sperare che qualche donna davvero scrivesse.

Il punto è che la Passio è un testo talmente sui generis da autorizzare qualsiasi speculazione. Sta tra la leggenda eroica e l’agiografia, senza assomigliare troppo a nessuna delle due: racconta una storia agghiacciante con gli accenti inconfondibili del realismo, e come certe superfici troppo lucidate dal tempo, ci restituisce più la nostra immagine che quella dei personaggi di cui vorremmo interessarci. Chi coltiva la psicanalisi non può che desiderare che Perpetua abbia davvero vissuto un rapporto complesso col padre e un martirio, e soprattutto che abbia sognato quelle immagini intriganti di cui ci restituisce una trascrizione tanto vivida: quella scala adorna di simboli fallici, quel gladiatore egiziano che simboleggia il maligno, davanti al quale Perpetua afferma di essere diventata all’improvviso un “masculum”, (sì, l’unica donna della letteratura latina sogna di trasformarsi in masculum e sconfiggere un gladiatore). Chi studia il cristianesimo come fenomeno sociale ha un bel da obiettare che i sogni di Perpetua sembrano elaborati da un ideologo religioso con idee molto chiare da veicolare: in particolare quella in cui Perpetua ricorda il fratellino morto per un tumore al volto, anche lui recluso in un luogo oscuro e afoso, incapace di attingere acqua da una fontana troppo alta. Perpetua prega per lui giorno e notte, finché non lo sogna di nuovo: dell’orribile ferita è rimasta solo una cicatrice, la fontana gli arriva all’ombelico; sul bordo c’è una coppa d’acqua che non si esaurisce mai. Qui non c’è dubbio che i due sogni siano un racconto a tema, composto da un teologo che sta mettendo a punto il concetto di purgatorio. Così alla fine la mia opinione (se vi interessa) è che la Passione sia l’opera di un presbitero che aveva assistito ai fatti: che aveva pianto per Perpetua, magari invidiandone il coraggio; e che aveva deciso di riscattarla dall’oblio cedendo a lei la parola – qualcosa di forse mai provato prima da uno scrittore di lingua latina. Senza riuscire a levare del tutto dal racconto una certa proiezione virile (il sogno del combattimento), e aggiungendo al racconto dei sogni e delle privazioni quei significati teologici che gli premeva veicolare. Missione compiuta: due secoli più tardi Agostino sentiva ancora la necessità di ricordare ai fedeli di Ippona che la Passio, per quanto importante, non era da considerare sullo stesso piano delle Sacre Scritture.
Questa è la mia ipotesi; ma in fondo che ne so. Dopotutto domani è l’otto marzo, forse avrei più successo presentando Perpetua e Felicita come campionesse dell’empowerment femminile: due giovani donne che scelgono in perfetta autonomia il loro destino, rifiutando il ruolo di figlie devote e di madri sollecite; no, loro preferivano morire, e sono morte. Ok. Probabilmente qualcuno prima o poi lo farà, (senz’altro qualcuno lo ha già fatto secoli fa). Io, scusate, per stavolta non me la sento. Buona giornata della donna e felicità perpetua a tutti.
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I santi hikikomori

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1° marzo – Santa Domnina, hikikomori del secondo secolo dC.

Non è Donnina, ma Rosa da Lima
Di Domnina si sa soltanto che era una ragazza cristiana di buona famiglia in una zona della Siria risparmiata dalle persecuzioni. Riuscì comunque a diventare santa il più presto possibile costruendosi una capanna nel cortile della casa materna da cui non uscì più: ivi pregò e digiunò fino a morirne, e questo è più o meno tutto quello che ci racconta di lei Teodoreto, vescovo di Ciro, tre secoli più tardi. Il che ci lascia sospettosi: nel secondo secolo i cristiani non praticavano ancora l’autoreclusione, ma nel quinto sì. Vuoi vedere che Domnina è una santa inventata? Anche il suo nome lascia perplessi: deriva evidentemente dal latino domus, “casa”, e malgrado in Siria si parlasse piuttosto greco o aramaico, Domnina sembra proprio il nome che un agiografo con poca fantasia darebbe a una ragazzina la cui santità consistesse nel chiudersi in casa a vita.

Il fatto che sia probabilmente una santa inventata non la rende meno interessante, anche perché a volte un santo immaginario è solo il preannuncio di un santo vero; forse il mendicante Alessio non è mai esistito, ma mille anni più tardi i popolani romani si affezionarono al mendicante San Benoit Labre perché un po’ gli assomigliava; San Pelagio non è mai stato fatto uccidere da un monarca vizioso, ma a San Kizito è successo davvero, poco più di un secolo fa; e se anche non c’è mai stata davvero una Santa Domnina, tante altre ragazze avrebbero in seguito scelto di autorecludersi in una dépendance della casa dei genitori. La più famosa è probabilmente Santa Rosa da Lima, che oltre a pregare e digiunare strimpellava la chitarra, e questo le bastava (a 15 anni, ve lo dico, sarebbe bastato anche a me). Per ottenere questo stato di grazia, aveva dovuto lottare non poco contro i famigliari, che avrebbero preferito vederla ammogliata, o almeno titolare di una cella di riguardo in un convento: ma niente da fare, Rosa preferiva restarsene chiusa in casa, come Domnina. Come gli hikikomori.
Avete mai sentito parlare degli hikikomori? Ultimamente hanno scoperto il fenomeno anche i Fratelli d’Italia – nel senso del partito di Giorgia Meloni. “HIKIKOMORI“, spiega fratel Massimo Ruspandini, “è un termine giapponese che significa “stare in disparte”. Hanno tra i 14 e i 25 anni e non studiano né lavorano. Non hanno amici e trascorrono gran parte della giornata nella loro camera. A stento parlano con genitori e parenti. Dormono durante il giorno e vivono di notte per evitare qualsiasi confronto con il mondo esterno. Si rifugiano tra i meandri della Rete e dei social network con profili fittizi, unico contatto con la società che hanno abbandonato. È QUESTO IL MONDO VERSO IL QUALE STIAMO ANDANDO?

Può anche darsi. Ma è anche il mondo dal quale provenivamo: un mondo in cui la scelta di appartarsi o autorecludersi è sempre stata un’opzione praticata da una minoranza non irrilevante di giovani, adulti e anziani. Abbiamo avuto l’ascetismo tardoantico, il monachesimo medievale; monache e suore di clausura; e poi certo, Diderot ci ha fatto scoprire che molte di queste persone venivano costrette dai genitori; Manzoni ci ha spiegato che questa costrizione prendeva molto spesso le forme di una coercizione psicologica così pressante da togliere alle vittime anche la consapevolezza di essere tali, convincendole di aver preso liberamente i voti di castità, obbedienza e clausura. Ma le testimonianze del passato ci dicono che nelle celle contigue c’è sempre stato chi ci entrava liberamente e volentieri: chi per entrarci doveva addirittura sfidare i genitori o scappare di casa. E c’era chi – come Rosa, come Domnina – dalla casa dei genitori non voleva semplicemente uscire.
Francesco Jodice, Yasuaki, Hikikomori, 2004
Stampa inkjet su carta cotone, 65×83 cm© Francesco Jodice.
Galleria Civica di Modena, Raccolta della Fotografia, StartFragment
Questo succedeva, nel mondo da cui provenivamo. Ma ce lo siamo dimenticati, e così ci preoccupiamo perché in Giappone oggi c’è gente che non esce di casa. Quello che ci spaventa del mondo del futuro è quello che non ricordiamo del mondo del passato. Si dice spesso che chi non studia il passato è condannato a riviverlo: si dice così spesso ché dopo un po’ viene a noia. Onestamente non sono convinto che studiare il passato sia sufficiente ad allontanarlo da noi: ma aiuta a non trovarsi impreparati. Abbiamo degli hikikomori? Facciamoli conoscere, creiamo una comunità, magari affittiamo loro un eremo in campagna, vediamo cosa ci salta fuori. Magari anche qualcosa di utile; per esempio mettiamo che crolli la civiltà occidentale (anche questa cosa non sarebbe la prima volta che succede) o peggio: mettiamo che internet si pianti all’improvviso con tutto lo scibile umano intrappolato dentro, compreso l’archivio del Post: non sarebbe una grande cosa se nel frattempo da qualche parte un ordine di hikikomori molto metodici e nerd si fosse stampato tutto l’Internet Archive? Poi mal che vada si ricopia a mano. Chissà se abbiamo abbastanza hikikomori, però (forse dovremmo produrne di più).
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JLB, pimpami la cattedra

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22 febbraio – Cattedra di San Pietro, panca medievale incastonata in un capolavoro visionario
È anche impossibile da fotografare,
non ci sta tutta e comunque non rende l’idea.

Un Papa può decidere che non è più in grado di fare il Papa? Certo che può (lo prevede anche il Diritto Canonico): è infallibile. Ma un Papa che dice di non essere più infallibile, ammette di potersi sbagliare; e quindi potrebbe anche sbagliare quando dice di non essere più in grado di essere il Papa, cioè infallibile… ma può essere infallibile anche quando annuncia di non poter esserlo più? Se non è più infallibile, forse si sbaglia anche quando dice che non è più infallibile… non se ne esce. Ma è solo un passatempo per sofisti. E poi: chi l’ha detto che il Papa è infallibile?

Siccome non si registrano rivelazioni divine al riguardo, non può che essere stato un altro Papa, per definizione (chiunque altro lo avesse detto poteva pur sempre sbagliarsi). Invece Pio IX preferì parlarne al Concilio Vaticano Primo nel 1870 – lui non è che nutrisse molti dubbi in riguardo, però preferiva che nessuno ne avesse. Il giorno prima del voto una sessantina di vescovi lasciò Roma in silenziosa protesta. Ci fu anche un piccolo scisma con alcune comunità sparse tra Svizzera Germania e Paesi Bassi – i “vecchi cattolici”. Di lì a poco la Prussia dichiarò la guerra alla Francia e il concilio fu sospeso; dalla guerra dipendeva anche il destino di quel che restava dello Stato della Chiesa, di cui Napoleone III era il migliore alleato. Infallibile in materia di fede, Pio IX evidentemente non lo era quando si trattava di alleanze, perché la guerra fu subito un disastro, Napoleone scappò, Parigi issò la bandiera rossa, e il 20 settembre a Roma arrivarono i bersaglieri italiani – si sa che gli italiani hanno una vocazione per attaccare chi ha già perso contro qualcun altro. Il concilio rimase sospeso a data indeterminata: solo nel 1962, quando Papa Giovanni (VOTA BERSANI) volle aprirne un altro, ci si ricordò che era rimasto aperto tutto il tempo, come un’imposta in solaio, e lo si chiuse ufficialmente. Insomma, il Papa ha governato la Chiesa e il suo Stato per un millennio e mezzo senza sostenersi infallibile; appena ci ha provato si è trovato i piemontesi in Vaticano, forse questo potrebbe significare qualcosa, forse.


Mi fa sempre venire in mente
l’Avvocato del Diavolo, il film,
lo so, non c’entra niente.
Comunque nemmeno Pio IX sosteneva di essere infallibile in qualsiasi cosa dicesse: il Papa lo è solo quando parla ex cathedra, dall’alto della sua autorità suprema di vicario di Cristo, a proposito dei dogmi della fede. Il problema è che il Papa di fede ne parla continuamente, ci mancherebbe, è il suo mestiere: è infallibile ogni volta? Secondo alcuni no, l’infallibilità “tecnica” sarebbe stata usata una volta sola, da Pio XII nel 1950 per proclamare l’Assunzione di Maria. Ma ci sono delle ambiguità, dei non detti, che permettono ad alcuni di considerare infallibile il Papa ogni volta che dice due cose dal balcone. L’ambiguità non è accidentale, bensì necessaria, tiene aperto alla Chiesa e ai suoi pastori lo spazio per eventuali retro-front: metti che a un certo punto si accorgono che si sono sbagliati ad es., sul Limbo: “ah sì, ma quelle erano soltanto ipotesi, mica parlavamo ex cathedra”. Per poter essere davvero infallibile, il Papa ha bisogno che la sua cattedra si veda un po’ sì e un po’ no, come certi insegnanti che un momento scherzano e il momento dopo ti stanno facendo il quinto grado – ma forse stanno scherzando ancora – no aspetta mi ha messo un quattro sul registro maledettobastardofigliodi – i Papi come tutti si riservano il diritto di cambiare idea, solo gli imbecilli non lo fanno mai, e quindi alla fine non si sa mai esattamente se stanno parlando ex cathedra o no. La cathedra del Papa non è come il martelletto del giudice, che trasforma le sue parole in sentenza dotata di valore reale, effettivo: la cathedra è come sospesa nell’aria, un po’ c’è, un po’ no, e la cosa incredibile è che molti secoli prima Gian Lorenzo Bernini già lo aveva capito.


Zitto, muto, fermo, ci ho tante
di quelle idee in testa che
un’eternità non mi basta guarda.
Siete liberi di non credere in Dio, ma in Bernini ci dovete credere: è vissuto, ha camminato su questa nostra terra, se lui c’è stato qualunque cosa è possibile. Nuvole di pietra, orgasmi di marmo, raggi di sole di bronzo che si illuminano duecento anni prima che a qualcuno venga in mente di accendere una lampadina (il trucco sono le vetrate nascoste); ma d’altro canto Bernini girava già dei film straordinari molto prima dei fratelli Lumière, e in fondo alla Basilica di San Pietro c’è uno dei suoi migliori effetti speciali. Magari un giorno sul serio il cattolicesimo passerà di moda, non ne parlerà più nessuno, sic transit gloria coeli. Questo non significa che la Basilica smetterà di essere un luogo sacro, visto che in essa si è manifestato in tutta la sua gloria, la sua abilità, la sua versatilità e soprattutto la sua incomparabile tamarraggine, Gian Lorenzo Bernini. Ma in questo periodo la gente non ci fa caso, la gente preferisce inginocchiarsi o, al limite, guardare la Pietà di Michelangelo che è un po’ l’idea che passa dell’arte classica: una cosa dolce, che a guardarla ti intenerisci, la mamma che si espande per accogliersi un trentatreenne in grembo, e poi guarda com’è bravo coi muscoli, coi tendini, bravo bravo bravo – poi tornano a casa e si mettono vestiti Bernini, e vanno a vedere film Bernini, ma non è arte, è solo la vita in cui vivono, immaginata progettata arredata e illuminata da Bernini e dai suoi seguaci.


Una riproduzione della cattedra originale:
 dai temi delle formelle si deduce
che è quella donata da Carlo il Calvo.
La Cattedra di San Pietro di Bernini passa quasi inosservata, eppure è immensa ed è in primo piano; ma c’è il Baldacchino davanti e poi sembra parte dell’arredo, la gente fa una certa differenza tra “arredo” e “scultura”. Bernini no, Bernini era totale: scolpiva, arredava, montava i carri delle processioni, le quinte degli spettacoli, un sacco di roba sua non ci è arrivata perché non era progettata per durare. Bernini aveva già sessant’anni quando Alessandro VII gli disse, senti, abbiamo di nuovo bisogno di te a San Pietro, in quell’officina che gli aveva già dato tanta gloria e tanti dispiaceri (gli avevano buttato giù i campanili, per invidia o perché rischiavano di venir giù da soli). Per quanto già traboccante di decorazioni e opere importanti (tra cui il suo San Longino), la Basilica continuava a sembrare troppo vuota, e probabilmente in tutto quello spazio, sotto tutto quel Baldacchino, nessuna cattedra sembrava abbastanza monumentale. Quella originale, poi, quella su cui in teoria avrebbero dovuto sedersi i facenti-funzioni-di-Cristo da Pietro in giù, era veramente poca cosa, una panca medievale appena un po’ istoriata, e prima o poi qualche occhio attento si sarebbe accorto che non era del primo secolo dopo Cristo (più probabilmente è del nono).
“Non mi posso più sedere su una cosa del genere, che figura ci faccio coi patriarchi”, disse dunque Alessandro VII. “Non potresti pimpare la mia cathedra?”


Potrei sbagliarmi, eh? Ma non ci ho mai visto
seduto nessuno, secondo me non c’è neanche una scala dietro.
Forse non furono le sue esatte parole, ma in sostanza andò così. Nessuno poteva pimpare una cattedra meglio della Bernini Factory; se non lui chi? Borromini? bravissimo, per carità ma diciamocelo, soprattutto un architetto, sempre lì a ragionare con compassi e squadre. Bernini invece è uno stilista, Bernini è il panneggio, è tutto sbuffi e increspature, Bernini è l’effimero ma scolpito nella roccia, Bernini è l’eccesso. È il vero grande artista italiano, ma noi italiani fingiamo di non conoscerlo perché, a differenza di Michelangelo o Caravaggio, Bernini ci scorre nelle vene, Bernini è Versace – anche la Medusa è roba sua. Prese la cattedra e la montò su un tripudio di nuvole, di dottori della Chiesa, di angeli vorticanti intorno a un punto luce abbagliante, in cui nei giorni di sole a malapena si intravede la colomba stilizzata nelle vetrate. In fondo nessuno la guarda con attenzione perché come il sole è inguardabile, è impossibile, è una statua-che-abbaglia. Sai che da qualche parte lì in mezzo c’è ancora la panca medioevale, ma preferisci distogliere lo sguardo, al massimo noti il Trono che sta in cima: finalmente un vero Trono, salvo che nessun Papa credo ci sia fisicamente seduto sopra. Ma quanto era un genio Gian Lorenzo Bernini. Crollerà il cielo, verranno giù i santi infiammandosi come meteore, dovremo toglierli dal calendario, e il 22 febbraio non ci resterà che festeggiare la Cattedra di Gian Lorenzo Bernini.
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Pier Damiani e l'annoso problema della sodomia

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21 febbraio – San Pier Damiani (1007-1072), dottore della Chiesa decisamente omofobo.

Cosa fareste per recuperare quel documento?

Ma cos'è che avevo scritto quella volta
Un giorno (più probabilmente una notte) avete scritto qualcosa, una cosa che all’inizio non vi sembrava neanche granché. Un appunto su un’idea che vi frullava in testa. Una dissertazione in dieci capitoli. La prima pagina di un romanzo che avrebbe funzionato. Un foglio elettronico con tutte le formule al posto giusto. La ricostruzione della carriera. Una notte avete scritto qualcosa e non ci avete più pensato per mille altre notti; finché non avete capito che quella era la pagina giusta da cui ricominciare da capo. Ma, indovinate: quella pagina non si trova più.

Avete messo sottosopra gli scaffali, rivoltato i cassetti come calzini. Tutti i dischi rigidi, tutte le chiavette, avete portato dai cinesi quel laptop che si è spento per sempre cinque anni fa. E più cercavate, più quel documento diventava interessante, necessario, fondamentale, unico. Perché è l’unico che non si trova più. Il che non è possibile; voi non buttate mai nulla. Probabilmente è nel posto sbagliato, archiviato col nome sbagliato, dove lo ritroverete quando sarà troppo tardi. Oppure lo avete prestato a qualcuno, sì: qualcuno sembrava curioso e vi siete fidati senza tenervi una copia, pazzi! A nessuno bisogna prestare i propri documenti, di nessuno ci si può fidare. Neanche di un papa. Non è un modo di dire, per esempio San Pier Damiani si fidò di un papa, e lo sapete come andò a finire, no? In effetti forse no.

Pier Damiani il dottore della Chiesa, Pier Damiani l’inflessibile, l’incorruttibile, l’uomo che in teoria riusciva a vivere soltanto in un eremo appartato, circondato dall’algido affetto dei suoi confratelli, Pier Damiani che invece per un motivo o per un altro era sempre in giro per Sinodi o a Roma a lobbizzare con questo e quel pontefice; Pier Damiani un giorno scrisse una lettera stranissima a due cardinali, una lettera matta in cui si prendeva gioco del papa in carica, proprio lui! Pier Damiani, il riformatore: ce l’aveva con Alessandro II. Stia attento, scriveva: che un papa di nome Alessandro c’è già stato e fu frustato a sangue. Ma che aveva fatto il secondo Alessandro per meritare anche solo un vago riferimento al supplizio inflitto ai ladri? Cosa poteva aver mai fatto un pontefice per meritare un’accusa infamante e neanche tanto velata da parte di Pier Damiani? Indovinate: non gli restituiva un manoscritto.

Glielo aveva chiesto per farsene una copia: e doveva averglielo chiesto in termini piuttosto perentori, se Pier confessa che altrimenti non glielo avrebbe dato. Quando era tornato a riprenderlo, niente: il documento non c’era più. Ma che c’era mai scritto, in quell’unico fascicolo autografo tra mille che Pier non poteva più andarsi a rileggere? Magari niente d’importante. Lui stesso protesta che era poca roba, nulla per cui valesse la pena litigare o perdere il favore di un pontefice. E invece era proprio quello che stava facendo: aveva aperto un contenzioso col vicario di Pietro. Non riusciva a contenersi, Pier Damiani il continente. Ma perché Alessandro non rendeva il malloppo? L’ipotesi banale resta la più verosimile: magari aveva perso tutto. Basta appoggiare il quinterno sull’angolo sbagliato della tua Cattedra; magari qualcuno viene a mettere a posto, con le migliori intenzioni del mondo lo infila nello scaffale sbagliato delle biblioteche vaticane, e bye bye Inedito del Dottore della Chiesa, vallo a ritrovare se ci riesci. Possono passare anni. Secoli.

Mi era venuto così bene quella volta maledizione
Ma siccome le vite dei santi non sono necessariamente così simili alla mia, non posso omettere un’altra spiegazione, molto più affascinante: quel manoscritto che papa Alessandro aveva tolto dalla circolazione, quell’opuscolo da cui Pier Damiani con molta fatica si era staccato, non era un brogliaccio qualsiasi, bensì il fascicolo più scottante a cui aveva messo mano, quello che oggi è (ingiustamente) la sua opera più famosa: il Liber Gomorrhianus. Avete presente il Liber Gomorrhianus, no? In effetti forse no.
Beh, è una specie di pietra miliare. Mettiamola così: sapete che la Chiesa ha questo problema dei preti pedofili, no? Ogni tanto se ne parla. Ecco: da quand’è esattamente che se ne parla? Quando è cominciato lo scandalo, o almeno quando la Chiesa ha iniziato a percepirlo come scandalo? Sono stime difficili da fare per uno storico. Di solito. Ma in questo caso no, in questo caso si può mettere una data quasi precisa: il primo a denunciare il fenomeno, in un latino ecclesiastico semplice ed elegante, fu Pier Damiani, nel Liber Gomorrhianus, indirizzato a papa Leone IX più o meno nel 1051. Quando si dice che il tal problema è annoso, pensate che questo specifico problema sta per compiere mille anni.

E prima non esisteva? Pier ne parla già come di una malattia morale ben nidificata. Più che i peccatori gli preme denunciare chi li copre: tutta una spaventosa rete di complicità sulla quale intende fare luce. In effetti chi voglia affrontare il Liber come se si tratti davvero del primo trattato di sessualità del medioevo rischia di restare deluso. Pier parla pochissimo dei peccati che denuncia; si capisce che ne prova un ribrezzo genuino. La sua casistica è limitata all’essenziale: secondo Pier ci sono quattro tipi di atti esplicitamente denunciati dalla Bibbia come contro natura. In ordine crescente di gravità: masturbazione solitaria, masturbazione reciproca, coito interfemorale e rapporto anale. Sono comunque tutti peccati mortali: chi li commette, secondo Pier, deve essere sollevato dall’incarico ecclesiastico. E la pedofilia? Pier ci arriva per gradi, esprimendo una riprovazione particolare per i presuli che iniziano al peccato i giovani che sono loro affidati. Oltre alla sodomia, in questo caso Pier intravede l’incesto, dal momento che il maestro è un padre spirituale, e il vincolo spirituale è più importante di quello carnale. In ogni caso, la soluzione è la stessa: chi pecca contro la natura e contro il vincolo famigliare deve perdere il suo incarico; gli deve essere impedito di confessarsi e ricevere l’assoluzione da un complice nel peccato (Pier aveva la sensazione che la cosa succedesse spesso). Ne va della salute morale della Chiesa, il papa deve assolutamente recepire la gravità del fenomeno e intervenire con severità. Il papa ringraziò, recepì, e qualche anno dopo fece sparire il manoscritto del Liber. Il primo caso di dossier sugli abusi del clero insabbiato dal clero. Notevole. Fin troppo.

Ma dove l’ho scritto accidenti, qui non c’è
E infatti le cose non andarono esattamente così. Innanzitutto giova ribadire che non siamo sicuri che il Liber sia davvero stato sequestrato da un papa: Pier Damiani si riferisce semplicemente a un documento scritto da lui, che ne scriveva tantissimi, su tantissimi argomenti sui quali un pontefice poteva essere altrettanto sensibile. Il motivo per cui pensiamo subito al Liber è il motivo per cui nelle librerie oggi si può trovare, con un poco di sforzo, un’edizione del Liber, mentre per tutti gli altri testi di Pier bisogna frequentare biblioteche molto specialistiche, ed è il solito banalissimo motivo, ovvero: pensiamo solo al sesso. Argomento che, sublime ironia, a Pier interessava pochissimo: noi invece non vorremmo parlare d’altro o studiare d’altro, e quindi se a un certo punto in una lettera si parla di un documento trafugato per oscuri motivi, dev’essere senz’altro una questione di sesso. Ovviamente si dice che il papa in questione aveva avuto esperienze sodomitiche in collegio e considerava il dossier un atto d’accusa. Quante cose si dicono, senza bisogno di provarle. Ma anche se fosse tutto vero, il papa che fece sparire il dossier non fu Leone IX (morto nel 1054), ma Alessando II, salito al Soglio nel 1061.


Quanto a Leone, sappiamo che il Liber gli era sostanzialmente piaciuto: che aveva definito la foga inquisitoria di Pier come “santa indignazione”, benché non intendesse recepire al 100% le proposte di Pier. “Noi agiremo più umanamente”, aveva scritto (“nos humanius agentes“). Leone in effetti intendeva degradare soltanto gli ecclesiastici non coinvolti in attività sodomitiche “da lunga abitudine o con molti uomini”. Ma la disponibilità papale a chiudere un occhio sulle scappatelle occasionali o sugli errori di gioventù non sconfessava affatto l’impianto accusatorio di Pier Damiani – si trattava anche di un gioco delle parti, tra due intellettuali consapevoli: a Pier toccava la parte del poliziotto cattivo, del magistrato inquisitore che chiede una pena di vent’anni per ottenerne cinque con la condizionale. Era una parte che doveva riuscirgli particolarmente congeniale: siamo tutti particolarmente spietati con i vizi che non condividiamo, e a Pier, tra tanti vizi che possono capitare a un povero cristiano, questo proprio non lo aveva. È sempre difficile parlare di sesso senza tradire una minima curiosità, una minima partecipazione: Pier non si tradisce perché davvero l’argomento non lo appassiona. Che si tratti di una pratica solitaria o di un rapporto anale con un minore, per lui la questione è molto semplice: la Bibbia dice che è male, Onan morì sul colpo, Sodoma e Gomorra furono incenerite, amen. È vero che la Chiesa non prese il suo Liber alla lettera, ma cominciò a porsi un problema dove prima non c’era nemmeno il problema. Per trovare un documento che proibisse agli stupratores puerorum di ricevere la comunione in punto di morte, Pier nel 1050 era dovuto risalire a un concilio del 305. In mezzo, settecento anni di silenzio. Dopo Pier invece qualcosa si mise in moto, anche se con la tipica prudenza dell’istituzione ecclesiastica, che vista da vicino sembra immobilismo. I sodomiti sarebbero stati esplicitamente espulsi dal clero e scomunicati solo nel secolo seguente, col Concilio Laterano III. Quanto al problema della pedofilia, c’è voluto qualche altro secolo, ma adesso se ne parla. Diciamo.

Il cast di Spotlight, un film del 2016 sul problema denunciato nel 1051 da Pier Damiani.

Un giorno – più facilmente una notte – avete perso un documento. All’inizio non vi sembrava una grande perdita, ma ora che non lo trovate più vi rendete conto che era perfetto. A dire il vero queste cose ormai succedono sempre meno, ora che tutto è sulla nuvola. Per dire, a me capita di ritrovare cose che credevo perdute e bellissime, articoli che avevo scritto per magazine on line che un giorno sono andati offline senza preavviso e figurati se l’Internet Archive si è fatta una copia: poi un bel giorno mi viene in mente una data o una stringa e bingo! Li trovo proprio sull’Internet Archive.

E fanno schifo.

Non riesco nemmeno a leggerli, buon dio, bisognerebbe chiedere all’Internet Archive di cancellarli. Chissà che schifezza aveva scritto Pier Damiani, che papa Alessandro non gli voleva restituire, e che gli sembrava un capolavoro soltanto perché non poteva più rileggerla. Io per dire qualche ora fa ho cancellato senza volere le dieci righe che servivano a finire questo pezzo e ora mi dispero, sono convinto che non troverò mai più un finale altrettanto bello e necessario, e intanto prendo tempo raccontando inezie al lettore. Era tutta una digressione finale sulla Chiesa Cattolica come prodigiosa macchina celibe, ma proprio per questo condannata ad avanzare nei secoli guidata da un’esplosiva miscela di uomini (selezionati e svezzati nei collegi): omosessuali e asessuali (ancora oggi secondo il New York Times i sacerdoti USA di inclinazione omosessuale potrebbero essere il 40% – qualche ecclesiastico col gay radar particolarmente sensibile parla del 70%). Con questa fondamentale controindicazione, che gli asessuali proprio non capiscono gli omo, e quindi questi ultimi devono in tutti i modi nascondersi ai primi attraverso tutta una serie di ipocrisie e codici di comportamento e regole che ti spiegano perché devi metterti le scarpine porpora anche se a te francamente basterebbero due sandali e via che si va. E che comunque la macchina, con qualche strappo e qualche panne ogni tanto sarebbe potuta andare avanti ancora per molto, non avessimo chiuso quasi tutti i collegi. Ecco, il pezzo diceva più o meno questo, ma lo diceva molto meglio di così. Magari se facessi control+Z per mezz’ora ritroverei quelle righe, ma quante altre ne perderei che immediatamente dopo troverei più necessarie. Quindi niente, stanotte il pezzo finisce così, chiedo scusa.

(Per scrivere un pezzo su Pier Damiani ho letto diverse cose, non tutte capendole e molte dimenticandone; in particolare lo spunto del manoscritto sottratto da papa Alessandro l'ho trovato in un articolo di Irene Zavattero, "Il Liber Gomorrhianus di Pier Damiani").
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Renzi, la trattativa, il retroscena, la polpetta

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"Questa è la storia di un governo mai nato, dell’altra strada che poteva prendere questa legislatura, dei protagonisti che hanno fatto nascere e morire, nel giro di una settimana, il governo Fico sostenuto da una maggioranza Cinque Stelle-Pd. È una storia di dominio (quasi) pubblico nei palazzi romani, ma che si tace appena si varca l’uscio e si cammina nel Paese reale, tra gli elettori e i militanti. Un po’ per il rimpianto di quel che avrebbe potuto essere la storia di questi ultimi dodici mesi, se non ci fosse stato il governo gialloverde. Un po’ perché nel frattempo il solco già enorme tra Pd e Cinque Stelle è diventato una voragine. Un po’ perché non tutti i protagonisti di questa vicenda l’hanno raccontata giusta, in quei giorni. Ecco perché questa è una storia senza nomi e cognomi, né virgolettati".
Questo è un retroscena di Linkiesta e io non credo a una parola. Niente di personale, non credo mai a nessun retroscena, per principio. È un voto che ho fatto qualche anno fa ed è già impressionante il numero di puttanate da cui mi ha protetto. Per cui se prima potevo avere la vaga impressione che ci fosse stato, verso le idi del marzo scorso, una specie di abboccamento tra dirigenti del Pd e del M5S, ora ci credo già un po' meno. I retroscena sono post-verità fabbricati a posteriori e l'ultima preoccupazione di chi li fabbrica è spiegare davvero cos'è successo ieri. Allora a cosa servono? A far succedere qualcos'altro domani.

Posso sbagliarmi, non sono un esperto, ma l'unico senso di questo retroscena è la campagna delle Primarie PD, che sta entrando nel vivo. Voi magari non ve ne eravate accorti, ma i  "protagonisti" che all'improvviso decidono di vuotare il sacco a un giornalista di Linkiesta probabilmente sì. Per una curiosa coincidenza, Renzi non è più il villain che mette i bastoni fra le ruote. Scopriamo oggi che almeno in un primo momento sarebbe stato tentato dal miraggio di approdare alla Farnesina in un eventuale governo Fico: girare il mondo, parlare in inglese a tutti. È un depistaggio verosimile, come tutti i depistaggi professionali. Il punto in cui la verosimiglianza cede è probabilmente quello che sta a cuore del depistatore, ovvero il cancelletto. In un momento tanto critico, Renzi avrebbe avuto paura del giudizio dei suoi stessi sostenitori più fedeli, che alle prime avvisaglie di un accordo col M5S avevano già messo in giro l'hashtag #SenzaDiMe. Insomma, Renzi che si fa dettare la linea da un cancelletto. La beviamo?

Che Renzi sembri in difficoltà, dal quattro dicembre e anche prima, è pacifico. Ma non al punto da confondere una cassa di risonanza, come Twitter, con un luogo reale di elaborazione e condivisione politica. Renzi non ha mai aspettato un cancelletto per prendere decisioni, anche e soprattutto quando erano decisioni che potevano disorientare la sua stessa base (ad esempio la scelta di succedere a Letta a Palazzo Chigi). I cancelletti arrivano dopo: li spingono i suoi sostenitori e riflettono il suo pensiero. E quando un pensiero non c'è, di sicuro non lo producono loro. Mi sembra impossibile che i renziani si siano messi a cinguettare #SenzaDiMe senza che Renzi gliel'abbia chiesto. Ma è esattamente quello che vuole dirci la talpa che ha raccontato questa storiella a Linkiesta: il renzismo come un mostro di Frankenstein che a un certo punto prende il controllo sul suo creatore; un Mr Hyde che a un certo punto lo soggioga e gli impedisce di prendere le decisioni più razionali.

Questo non è un retroscena contro Renzi, ma contro i renziani. Più nello specifico: mi sembra una polpetta sotterranea contro la mozione Giachetti. Io ovviamente non nutro per il personaggio nessuna simpatia; lo trovo anche un po' inquietante, mi sembra il tizio che viene sempre mandato avanti quando c'è da perdere una battaglia, e Renzi ha questa cosa che per tutta una serie di motivi di battaglie ha deciso di perderne parecchie. Invece chi detta questa roba a Linkiesta sembra quasi aver paura che vinca: ecco, questo è piuttosto strano.
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Faustino e Giovita, la strana coppia

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15 febbraio – San Faustino, patrono di Brescia e dei single; San Giovita, patrono soltanto di Brescia (II sec.)

Faustino e Giovita nella Pala della mercanzia
di Vincenzo Foppo. Giovita è il biondo ricciolino.
[2014]. Insomma, come siano davvero andate le cose con San Valentino e la festa degli innamorati non lo sapremo mai. Ogni tentativo di capire dove nasca il popolare abbinamento si scontra con un muro di omertà e una cascata di storielle messe in giro secoli dopo per giustificare una festa che esisteva già. Colpa dei secoli bui? No. Pensate che succede la stessa cosa con la “festa dei single”, una celebrazione postmoderna nata negli anni ’00, e quindi più giovane di voi che leggete e di me che scrivo. A inventarsi un San Faustino patrono dei single potrebbe essere stata nel 2001 la redazione di un sito internet che si chiama vitadasingle punto net: purtroppo la fonte di questa affermazione è vitadasingle punto net, per cui qualche dubbio rimane.

E dire che abbiamo Google – ma cosa può il più potente dei motori di ricerca contro una diceria popolar-commerciale? Troveremo centinaia di articoletti che copiano e incollano la stessa pubblicità di un ristorante che organizza una serata speciale tutto compreso a 69 euro con ricchi premi e cotillons e una sorpresa per lei. Appare abbastanza ovvio che la Chiesa cattolica almeno stavolta non c’entri: e tuttavia non mancano i tentativi di elaborare una mitologia che colleghi il martire patrono di Brescia con gli infelici in amore. Scopriamo così su sapere.it, che “Secondo la tradizione [quale?] San Faustino dava opportunità alle giovani fanciulle di incontrare il loro futuro ‘moroso'”. Lo stesso pettegolezzo, ricorderete, è stato messo in giro sul conto di Valentino; pare che il ruffiano sia il patrono ideale sia per chi ha il moroso sia per chi lo cerca. Un altro tentativo passa per quello che i tedeschi chiamano Volksetymologie, l’etimologia “del popolo”: quando il volgo non conosce la storia di una parola, se la inventa, improvvisando con le sillabe e i sinonimi. Faustino sarebbe diventato il protettore dei single in virtù della sua radice, Faustus: favorevole, prospero, fortunato.

L’intervento dei santi patroni Faustino e Giovita sulle mura di Brescia nel 1438, un pastrocchio del giovane Giandomenico Tiepolo, figlio del più noto Giambattista.

I single hanno senz’altro bisogno di fortuna, come tutti. Ma Faustino è semplicemente il primo nome che un tizio ha trovato sul calendario nella casella del 15 febbraio. Il primo. Non si è neanche sforzato di leggere un po’ più in là; sennò avrebbe scoperto che proprio il Faustino di Brescia è uno dei santi meno single di tutto il calendario: uno dei pochi che non resta da solo mai, né nelle apparizioni né nella giaculatorie. Ovunque ci sia Faustino, lì nei pressi c’è sempre anche Giovita, il suo partner di lavoro e di martirio. Il patrono dei single è un tizio che fa coppia fissa con un altro da… diciannove secoli, un commendevole esempio di fedeltà.

Ogni città ha i dioscuri che merita.
Non solo. Giovita è un personaggio un po’ ambiguo. Non siamo del tutto sicuri riguardo la sua sessualità. La tradizione ufficiale lo vuole soldato inquadrato nel corpo dei cavalieri, come il collega; probabilmente è più giovane, perché quando Faustino viene ordinato presbitero (=prete), Giovita deve accontentarsi del grado subordinato di diacono. Gran parte dell’ambiguità dipende dal nome, Iovita, che forse deriva da Iovis, Giove… ma è della prima declinazione, insomma, finisce in a. Siamo sicuri che sia un nome maschile? No, non ne siamo sicuri sicuri. Tant’è che c’è un doppione, Iovinus, quest’ultimo sicuramente maschile. In altre lingue Iovita diventa un nome femminile: Jowita in polacco, Jovita in spagnolo (ha anche una forma maschile, Jovito). In italiano Giovita è maschile, ma ogni tanto ci si imbatte in qualche curiosa eccezione: per dire, il sito santiebeati.org (che raccoglie acriticamente tutte le informazioni reperibili in rete e sulla pubblicistica cattolica) accanto alla scheda standard sui SS. Faustino e Giovita, ne ha anche una brevissima su una “Santa Giovita” che sarebbe stata “martirizzata con il fratello Faustino, durante l’impero di Adriano, coopatrona di Brescia”. Va da sé che una Santa Faustina non sarebbe potuta essere né cavaliere né diacono. Forse per tentare di conciliare le due versioni, i pittori rappresentano il partner di Faustino nel modo più androgino possibile: capelli lunghi, magari un po’ ricci, biondi, lineamenti dolci, ampie tuniche che vanno bene in tutti i casi. Quando al tramonto del medioevo i due protettori diventeranno i due eroi guerrieri e salvatori della città, Giovita indosserà un’armatura più aggraziata di quella del capo.

I Super Pietro e Paolo secondo Raffaello.
In effetti, l’ultima volta che li hanno visti assieme, Faustino e Giovina si trovavano sulle mura orientali della città, a difenderla armati contro l’ultimo assalto dei mercenari milanesi al soldo degli Sforza, il 13 dicembre del 1438. Un’apparizione nell’antico stile dei dioscuri, i due mitologici gemelli venerati dapprima a Sparta, che occasionalmente difendevano dagli aggressori apparendo sempre in coppia: anche a Roma erano molto adorati, dopo aver salvato il culo alla cavalleria nella battaglia del Lago Regillo. Trionfatore grazie a loro di una battaglia che aveva già visto persa, il dittatore Postumio aveva voluto sdebitarsi dedicando ai Gemelli un tempio nel Foro romano. Nell’Urbe i dioscuri si ibridano con altre coppie illustri: Romolo e Remo, e più tardi Pietro e Paolo. Sì, anche il pescatore e il confezionatore di tende potevano diventare due guerrieri all’occorrenza: due supereroi con ali di colomba, che brandiscono spadoni dall’alto e scortano, per esempio, papa Leone che va a incontrare Attila nell’affresco di Raffaello nella stanza di Eliodoro.

Di eculei c’erano tanti modelli diversi;
questo è quello che stirò Santa Restituta.
L’apparizione di Faustino e Giovita sulle mura di Brescia è di ottant’anni prima, ma ha un simile sapore classicista. Nella leggenda originale Faustino e Giovita non combattono mai: si permettono soltanto qualche atto di vandalismo ai danni di una statua pagana. L’imperatore Adriano, che passava giusto da Brescia in quei giorni, li avrebbe quindi condannati a essere sbranati dai leoni nell’anfiteatro, nella zona dove poi avrebbe preso forma piazza della Loggia (ma c’è chi preferisce localizzarlo intorno a corso Magenta). In ogni caso i leoni corrono ad accovacciarsi in grembo alla strana coppia, causando il solito boom di conversioni in città. Adriano, il principe più raffinato e pacifico del secolo d’argento, avrebbe ordinato allora di scorticarli e bruciarli vivi: ma i due risultano ignifughi. A questo punto i torturatori sembrano prenderci gusto più ancora dei cristiani, lanciando Faustino e Giovita in una vera e propria tournée: a Milano resistono gloriosamente all’orribile supplizio dell’eculeo; a Roma, nell’anfiteatro più grande del mondo, rifanno il numero dei leoni accovacciati. Nel golfo di Napoli li disperdono su una barchetta per ritrovarli sospinti a riva dagli angeli. Ricondotti a Brescia, Faustino e l’amico/a Giovita vengono finalmente decapitati fuori porta Matolfa. Il loro culto diventa importante in città nel periodo longobardo, per decadere nei secoli successivi, finché l’apparizione del 1438 non riporta in auge i due inseparabili eroi. Faustino e Giovita avrebbero qualche titolo per ambire al patronato delle unioni civili. Ma ormai è troppo tardi, Faustino ha vinto alla lotteria questo assurdo patronato dei single, e gli tocca far tardi tutte le sere mentre Giovita resta a casa a rammendare le tuniche. Nessuno ci pensa mai, a Giovita. Buon onomastico a tutti i Giovita, maschi o femmine o quel che vi pare.
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La libertà di Onesimo

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15 febbraio – Sant’Onesimo (I secolo), schiavo forse affrancato da San Paolo. 

Il frammento conosciuto più antico del testo
della Lettera a Filemone risale circa al 200.
Quando lo incontra Paolo, probabilmente a Roma, Onesimo non è più nessuno, non è ancora nessuno. Vive di espedienti nella città più popolosa del mediterraneo occidentale, un’ombra tra gli uomini. Lavora probabilmente come uno schiavo, o peggio, perché Onesimo è peggio di uno schiavo: è un fuggitivo. Circostanze che non conosciamo lo hanno allontanato dal suo legittimo proprietario, il greco Filemone, residente a Colossi in Frigia. Onesimo non è più alla sua mercé, ma è comunque in una situazione pericolosa: chiunque scopra la sua condizione può denunciarlo o ricattarlo. Chissà quanti come lui campano alla giornata, mimetizzati tra i lavoratori della metropoli. Non danno nell’occhio, non vogliono grane, non hanno speranze. Solo qualche predicatore, ogni tanto, scende a spacciare vaghe parole di vita eterna. Paolo è uno di loro, ma soprattutto Paolo conosce Filemone. Ed è un uomo libero, addirittura un cittadino romano: quindi può intercedere per lui.

La Lettera a Filemone è la più breve tra le epistole di Paolo incluse nel Nuovo Testamento – appena un biglietto, magari incluso nell’appendice della lettera che lo stesso Onesimo avrebbe recapitato ai Colossesi. Per una volta l’apostolo non scrive per convincere o esortare o convertire, ma per uno scopo più circoscritto: deve riscattare una persona. Onesimo, riconsegnandosi al padrone, rischia la vita. Ma ora Onesimo è cristiano: Paolo che ha battezzato Filemone, ha battezzato anche lui. Perciò Paolo chiede che Filemone riaccolga Onesimo “non come schiavo, ma come fratello”. Paolo sa che Filemone esaudirà la richiesta, perché a Paolo, che lo ha battezzato, deve “la sua stessa vita”. Paolo del resto ritiene che Cristo gli dia piena autorità di ordinare a Filemone “ciò che è opportuno”, ma scrive di non aver voluto abusare di questo potere, “perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario”. Paolo del resto è sicuro che Filemone farà “anche di più” di quello che si contenta di chiedergli: ovvero lo affrancherà? Ma soprattutto, Paolo si offre di indennizzare Filemone del danno subito: “se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Io, Paolo, lo scrivo di mio pugno: pagherò io”. Questa disponibilità a far fronte agli aspetti più pratici della questione è così tipica di Paolo – un profeta molto pragmatico – che nessuno ha mai veramente dubitato che la lettera, pur atipica, non sia stata dettata da lui. Semmai sono i nomi di persona ad alimentare qualche sospetto: “Filemone” evoca immediatamente nel lettore un’idea di gentilezza e ospitalità che autorizza a pensare che la missiva sia andata a buon fine; “Onesimo” in greco significa “utile”, è il nome ideale per uno schiavo da commedia (persino Paolo gioca col doppio senso: “un giorno ti fu inutile”, scrive, “ma ora è utile a te e a me”).
D’altro canto, perché inventarsi una lettera così breve, così limitata? Se qualche falsario avesse avuto in mente di affibbiare all’apostolo qualche idea rivoluzionaria o almeno progressista sulla questione degli schiavi, avrebbe dovuto scrivere ben altro. Ma Paolo, ogni volta che si tratta di parlare di schiavi, ribadisce che si devono comportare bene e rispettare i loro padroni. Naturalmente anche i padroni devono essere gentili con gli schiavi, come Filemone sarà gentile con Onesimo. Tutto qui: fine della dottrina sociale di Paolo.


Paolo detta una lettera a Onesimo
“Il cristianesimo ha affrancato gli schiavi”. Prima ancora che comparisse nel Dizionario dei luoghi comuni, Flaubert aveva messo in bocca la banalità al farmacista Homais, che in Madame Bovary funge da erogatore di bêtises e fake news. Nell’Ottocento era un meme che circolava sia tra i difensori del cristianesimo (Chateaubriand) che tra i laicisti e gli anticlericali a cui premeva definire il cristianesimo antico come un movimento sociale che aveva cambiato la Storia, una specie di pre-socialismo tardoantico che comunque aveva fatto il suo tempo. La curiosa alleanza tra sostenitori e detrattori ha fatto sì che il luogo comune continui a prosperare anche sui manuali scolastici, il che poi alla fine spiega come mai siamo tutti abbastanza convinti che la schiavitù in Europa termini grosso modo nel IV secolo, in parte soppiantata dalla servitù della gleba (che poi non è che fosse una condizione così migliore), per riaffiorare all’improvviso nelle colonie americane mille anni dopo. Il fatto che le cosiddette repubbliche marinare (Genova, Venezia, Amalfi) fossero durante il Medioevo fiorenti mercati di schiavi, di solito ai ragazzini non lo insegniamo: preferiamo parlare di cose più raffinate, seta, pepe, cannella. Le autorità ecclesiastiche del resto non è che vedessero di buon occhio il traffico di carne umana: ma il fatto che ancora nel 1000 emanassero leggi per proibire almeno la vendita di schiavi cristiani ai signori musulmani ci fa capire che il commercio continuava eccome: nel Domesday Book, il preziosissimo censimento dell’Inghilterra normanna (1086), il 10% della popolazione inglese risulta composta di schiavi. Un inglese su dieci – evidentemente no, il cristianesimo non li aveva affrancati tutti.

"Prega il tuo Dio, Anassameno!"
Come tutti i luoghi comuni, anche il cristianesimo antischiavista contiene una sua frazione di verità: il periodo in cui il nuovo credo si impone nell’impero è lo stesso in cui grazie alla pax Romana la schiavitù effettivamente declina e milioni di persone in tutto l’impero conquistano la libertà – magari per scoprire che la vita fuori dalla schiavitù non è tutta rose e fiori: senza più padroni, chi si preoccuperà del loro (molto relativo) benessere? Della loro salute, del vitto; chi offrirà loro una rete di solidarietà e anche solo la possibilità di conoscere altre persone, magari di creare una famiglia? Più che aver causato la fine della schiavitù, la Chiesa nasce e si sviluppa come risposta a una serie di necessità che la fine della schiavitù stava creando. Dev’essere una nuova fede, perché gli vecchi Dei sono amici dei padroni. Il nuovo Dio deve arrivare da lontano, originare da qualche angolo remoto dell’impero, come i tanti liberti delle metropoli globalizzate che non sanno più nemmeno da che strada romana arrivava il nonno in catene. Deve predicare l’uguaglianza, se non davanti alle leggi degli uomini almeno davanti a Dio, perché si prega in assemblee trasversali, dove la matrona generosa s’inginocchia vicino all’ex schiava con la quale magari è rimasta in buoni rapporti. L’idea di usare come simbolo la Croce, il supplizio degli schiavi ribelli (la croce di Spartaco, prima ancora di Cristo): è molto tarda; all’inizio la croce è un’immagine fastidiosa, la prima volta che compare è un segno di scherno. Quando poi con le invasioni barbariche l’Europa torna a riempirsi di schiavi, il Cristianesimo ormai è un potere egemone che accetta la nuova situazione senza entusiasmo, ma sempre evitando lo scontro frontale. “Voi servi siate docili in tutto con i vostri padroni terreni; non servendo solo quando vi cedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore”: lo scrive Paolo, proprio nella lettera che Onesimo avrebbe recapitato a Colossi.

Non proprio le parole di un liberatore: né aveva senso aspettarsi qualcosa di più estremo da lui. Paolo non aveva nessuna intenzione di liberare il mondo dalla schiavitù: senz’altro gli interessava liberare una risorsa umana, Onesimo, che gli sarebbe stata molto utile come collegamento con tutta una serie di comunità di lingua greca e fede cristiana. Questo gli premeva, in vista del Giorno del Giudizio: quanto a ribaltare la società, senz’altro no; non ci pensava, non c’era tempo. Tutte le sue lettere, anche le più teologiche e sistematiche, sono sempre testi occasionali, studiati per determinate comunità in determinati momenti. Il vero fondatore della Chiesa non ha mai scritto un trattato per spiegare in generale come la vedeva, questa Chiesa. Niente libri: solo lettere, messaggi, comunicati, circolari. Forse non ha fatto in tempo; eppure la fine quando arrivò non fu esattamente imprevista. Forse non se ne riteneva capace, forse per lui i libri importanti erano quelli scritti dai colleghi, che portava con sé e magari stava ispirando, i Vangeli e gli Atti. E forse semplicemente Paolo di Tarso non pensava che ci fosse tutto questo tempo per dare ai suoi insegnamenti un impianto sistematico. Non era solo Paolo ad avere poco tempo: era il mondo a essere agli sgoccioli.

Per capire Paolo dobbiamo capire questa cosa: lui era realmente convinto di vivere nell’imminenza della fine, in un istante protratto in cui è senz’altro segno di saggezza continuare a comportarsi compostamente, rimanendo ai propri posti nella società (guai a chi smetteva di lavorare o lasciava la famiglia), ma senza darsi troppa pena di indagare sul perché quella società fosse fatta proprio così: dopotutto stava per finire. Ancora poco e non ci sarebbero più stati né padri né figli, né padroni, né schiavi, né lavoratori né lavori: quindi perché perdere tempo a protestare su queste sciocchezze? In una delle ultime pagine degli Atti, Luca lo descrive a bordo di barcone alla deriva nel Mediterraneo, proprio nei luoghi dove oggi Ong e Guardia costiera soccorrono i migranti. Il ritratto è così nitido che ci sembra impossibile che Luca non fosse a bordo con lui. Paolo non sa nulla di navigazione, ma a un certo punto decide che la nave si salverà e che l’equipaggio sarà risparmiato: e da quel momento prende il controllo. Esorta marinai e passeggeri a non mollare, a nutrirsi quando è il momento. Lui sa che ce la faranno, ha fatto un sogno. Alla fine il barcone arriva proprio Malta, isola di indigeni ospitali: Luca perlomeno li ricorda così. L’episodio è straordinariamente realistico, ma lo possiamo leggere anche come una riflessione sul ruolo dell’apostolo. Paolo non è un leader politico, non è un teorico, non spiega ai marinai il proprio mestiere né ha una rotta da consigliare. Paolo è un passeggero come gli altri che ha una sola cosa da dire: ci salveremo, tenete duro, non smettete di mangiare e ognuno resti al proprio posto. Lo schiavo faccia lo schiavo, il comandante faccia il comandante, quanto a me sono il tramite con Dio e Dio vi fa sapere che ci salverà, Gesù sta arrivando.

Qualche tempo dopo Paolo è morto, Gesù non è arrivato, e duemila anni dopo stiamo ancora usando le istruzioni sui biglietti che Paolo ci ha lasciato per la gestione provvisoria – come se uno lasciasse detto ai figli bagnatemi i fiori e ogni due giorni vuotate la cassetta del gatto, e dopo duemila anni ancora i pronipoti bagnano i fiori e vuotano la cassetta per timore che gli antenati si arrabbino, il gatto non c’è ovviamente più ma nel sacro biglietto c’era scritto così, il cristianesimo è un piano per un emergenza che non scatta mai.
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