La libertà di Onesimo

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15 febbraio – Sant’Onesimo (I secolo), schiavo forse affrancato da San Paolo. 

Il frammento conosciuto più antico del testo
della Lettera a Filemone risale circa al 200.
Quando lo incontra Paolo, probabilmente a Roma, Onesimo non è più nessuno, non è ancora nessuno. Vive di espedienti nella città più popolosa del mediterraneo occidentale, un’ombra tra gli uomini. Lavora probabilmente come uno schiavo, o peggio, perché Onesimo è peggio di uno schiavo: è un fuggitivo. Circostanze che non conosciamo lo hanno allontanato dal suo legittimo proprietario, il greco Filemone, residente a Colossi in Frigia. Onesimo non è più alla sua mercé, ma è comunque in una situazione pericolosa: chiunque scopra la sua condizione può denunciarlo o ricattarlo. Chissà quanti come lui campano alla giornata, mimetizzati tra i lavoratori della metropoli. Non danno nell’occhio, non vogliono grane, non hanno speranze. Solo qualche predicatore, ogni tanto, scende a spacciare vaghe parole di vita eterna. Paolo è uno di loro, ma soprattutto Paolo conosce Filemone. Ed è un uomo libero, addirittura un cittadino romano: quindi può intercedere per lui.

La Lettera a Filemone è la più breve tra le epistole di Paolo incluse nel Nuovo Testamento – appena un biglietto, magari incluso nell’appendice della lettera che lo stesso Onesimo avrebbe recapitato ai Colossesi. Per una volta l’apostolo non scrive per convincere o esortare o convertire, ma per uno scopo più circoscritto: deve riscattare una persona. Onesimo, riconsegnandosi al padrone, rischia la vita. Ma ora Onesimo è cristiano: Paolo che ha battezzato Filemone, ha battezzato anche lui. Perciò Paolo chiede che Filemone riaccolga Onesimo “non come schiavo, ma come fratello”. Paolo sa che Filemone esaudirà la richiesta, perché a Paolo, che lo ha battezzato, deve “la sua stessa vita”. Paolo del resto ritiene che Cristo gli dia piena autorità di ordinare a Filemone “ciò che è opportuno”, ma scrive di non aver voluto abusare di questo potere, “perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario”. Paolo del resto è sicuro che Filemone farà “anche di più” di quello che si contenta di chiedergli: ovvero lo affrancherà? Ma soprattutto, Paolo si offre di indennizzare Filemone del danno subito: “se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Io, Paolo, lo scrivo di mio pugno: pagherò io”. Questa disponibilità a far fronte agli aspetti più pratici della questione è così tipica di Paolo – un profeta molto pragmatico – che nessuno ha mai veramente dubitato che la lettera, pur atipica, non sia stata dettata da lui. Semmai sono i nomi di persona ad alimentare qualche sospetto: “Filemone” evoca immediatamente nel lettore un’idea di gentilezza e ospitalità che autorizza a pensare che la missiva sia andata a buon fine; “Onesimo” in greco significa “utile”, è il nome ideale per uno schiavo da commedia (persino Paolo gioca col doppio senso: “un giorno ti fu inutile”, scrive, “ma ora è utile a te e a me”).
D’altro canto, perché inventarsi una lettera così breve, così limitata? Se qualche falsario avesse avuto in mente di affibbiare all’apostolo qualche idea rivoluzionaria o almeno progressista sulla questione degli schiavi, avrebbe dovuto scrivere ben altro. Ma Paolo, ogni volta che si tratta di parlare di schiavi, ribadisce che si devono comportare bene e rispettare i loro padroni. Naturalmente anche i padroni devono essere gentili con gli schiavi, come Filemone sarà gentile con Onesimo. Tutto qui: fine della dottrina sociale di Paolo.


Paolo detta una lettera a Onesimo
“Il cristianesimo ha affrancato gli schiavi”. Prima ancora che comparisse nel Dizionario dei luoghi comuni, Flaubert aveva messo in bocca la banalità al farmacista Homais, che in Madame Bovary funge da erogatore di bêtises e fake news. Nell’Ottocento era un meme che circolava sia tra i difensori del cristianesimo (Chateaubriand) che tra i laicisti e gli anticlericali a cui premeva definire il cristianesimo antico come un movimento sociale che aveva cambiato la Storia, una specie di pre-socialismo tardoantico che comunque aveva fatto il suo tempo. La curiosa alleanza tra sostenitori e detrattori ha fatto sì che il luogo comune continui a prosperare anche sui manuali scolastici, il che poi alla fine spiega come mai siamo tutti abbastanza convinti che la schiavitù in Europa termini grosso modo nel IV secolo, in parte soppiantata dalla servitù della gleba (che poi non è che fosse una condizione così migliore), per riaffiorare all’improvviso nelle colonie americane mille anni dopo. Il fatto che le cosiddette repubbliche marinare (Genova, Venezia, Amalfi) fossero durante il Medioevo fiorenti mercati di schiavi, di solito ai ragazzini non lo insegniamo: preferiamo parlare di cose più raffinate, seta, pepe, cannella. Le autorità ecclesiastiche del resto non è che vedessero di buon occhio il traffico di carne umana: ma il fatto che ancora nel 1000 emanassero leggi per proibire almeno la vendita di schiavi cristiani ai signori musulmani ci fa capire che il commercio continuava eccome: nel Domesday Book, il preziosissimo censimento dell’Inghilterra normanna (1086), il 10% della popolazione inglese risulta composta di schiavi. Un inglese su dieci – evidentemente no, il cristianesimo non li aveva affrancati tutti.

"Prega il tuo Dio, Anassameno!"
Come tutti i luoghi comuni, anche il cristianesimo antischiavista contiene una sua frazione di verità: il periodo in cui il nuovo credo si impone nell’impero è lo stesso in cui grazie alla pax Romana la schiavitù effettivamente declina e milioni di persone in tutto l’impero conquistano la libertà – magari per scoprire che la vita fuori dalla schiavitù non è tutta rose e fiori: senza più padroni, chi si preoccuperà del loro (molto relativo) benessere? Della loro salute, del vitto; chi offrirà loro una rete di solidarietà e anche solo la possibilità di conoscere altre persone, magari di creare una famiglia? Più che aver causato la fine della schiavitù, la Chiesa nasce e si sviluppa come risposta a una serie di necessità che la fine della schiavitù stava creando. Dev’essere una nuova fede, perché gli vecchi Dei sono amici dei padroni. Il nuovo Dio deve arrivare da lontano, originare da qualche angolo remoto dell’impero, come i tanti liberti delle metropoli globalizzate che non sanno più nemmeno da che strada romana arrivava il nonno in catene. Deve predicare l’uguaglianza, se non davanti alle leggi degli uomini almeno davanti a Dio, perché si prega in assemblee trasversali, dove la matrona generosa s’inginocchia vicino all’ex schiava con la quale magari è rimasta in buoni rapporti. L’idea di usare come simbolo la Croce, il supplizio degli schiavi ribelli (la croce di Spartaco, prima ancora di Cristo): è molto tarda; all’inizio la croce è un’immagine fastidiosa, la prima volta che compare è un segno di scherno. Quando poi con le invasioni barbariche l’Europa torna a riempirsi di schiavi, il Cristianesimo ormai è un potere egemone che accetta la nuova situazione senza entusiasmo, ma sempre evitando lo scontro frontale. “Voi servi siate docili in tutto con i vostri padroni terreni; non servendo solo quando vi cedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore”: lo scrive Paolo, proprio nella lettera che Onesimo avrebbe recapitato a Colossi.

Non proprio le parole di un liberatore: né aveva senso aspettarsi qualcosa di più estremo da lui. Paolo non aveva nessuna intenzione di liberare il mondo dalla schiavitù: senz’altro gli interessava liberare una risorsa umana, Onesimo, che gli sarebbe stata molto utile come collegamento con tutta una serie di comunità di lingua greca e fede cristiana. Questo gli premeva, in vista del Giorno del Giudizio: quanto a ribaltare la società, senz’altro no; non ci pensava, non c’era tempo. Tutte le sue lettere, anche le più teologiche e sistematiche, sono sempre testi occasionali, studiati per determinate comunità in determinati momenti. Il vero fondatore della Chiesa non ha mai scritto un trattato per spiegare in generale come la vedeva, questa Chiesa. Niente libri: solo lettere, messaggi, comunicati, circolari. Forse non ha fatto in tempo; eppure la fine quando arrivò non fu esattamente imprevista. Forse non se ne riteneva capace, forse per lui i libri importanti erano quelli scritti dai colleghi, che portava con sé e magari stava ispirando, i Vangeli e gli Atti. E forse semplicemente Paolo di Tarso non pensava che ci fosse tutto questo tempo per dare ai suoi insegnamenti un impianto sistematico. Non era solo Paolo ad avere poco tempo: era il mondo a essere agli sgoccioli.

Per capire Paolo dobbiamo capire questa cosa: lui era realmente convinto di vivere nell’imminenza della fine, in un istante protratto in cui è senz’altro segno di saggezza continuare a comportarsi compostamente, rimanendo ai propri posti nella società (guai a chi smetteva di lavorare o lasciava la famiglia), ma senza darsi troppa pena di indagare sul perché quella società fosse fatta proprio così: dopotutto stava per finire. Ancora poco e non ci sarebbero più stati né padri né figli, né padroni, né schiavi, né lavoratori né lavori: quindi perché perdere tempo a protestare su queste sciocchezze? In una delle ultime pagine degli Atti, Luca lo descrive a bordo di barcone alla deriva nel Mediterraneo, proprio nei luoghi dove oggi Ong e Guardia costiera soccorrono i migranti. Il ritratto è così nitido che ci sembra impossibile che Luca non fosse a bordo con lui. Paolo non sa nulla di navigazione, ma a un certo punto decide che la nave si salverà e che l’equipaggio sarà risparmiato: e da quel momento prende il controllo. Esorta marinai e passeggeri a non mollare, a nutrirsi quando è il momento. Lui sa che ce la faranno, ha fatto un sogno. Alla fine il barcone arriva proprio Malta, isola di indigeni ospitali: Luca perlomeno li ricorda così. L’episodio è straordinariamente realistico, ma lo possiamo leggere anche come una riflessione sul ruolo dell’apostolo. Paolo non è un leader politico, non è un teorico, non spiega ai marinai il proprio mestiere né ha una rotta da consigliare. Paolo è un passeggero come gli altri che ha una sola cosa da dire: ci salveremo, tenete duro, non smettete di mangiare e ognuno resti al proprio posto. Lo schiavo faccia lo schiavo, il comandante faccia il comandante, quanto a me sono il tramite con Dio e Dio vi fa sapere che ci salverà, Gesù sta arrivando.

Qualche tempo dopo Paolo è morto, Gesù non è arrivato, e duemila anni dopo stiamo ancora usando le istruzioni sui biglietti che Paolo ci ha lasciato per la gestione provvisoria – come se uno lasciasse detto ai figli bagnatemi i fiori e ogni due giorni vuotate la cassetta del gatto, e dopo duemila anni ancora i pronipoti bagnano i fiori e vuotano la cassetta per timore che gli antenati si arrabbino, il gatto non c’è ovviamente più ma nel sacro biglietto c’era scritto così, il cristianesimo è un piano per un emergenza che non scatta mai.
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San Cirillo (non scriveva in cirillico)

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14 febbraio – Santi Cirillo (827-869) e Metodio (815-885), linguisti, missionari, disegnatori di alfabeti

Cirillo e Metodio reggono l'alfabeto
(sbagliato).
[2013]. Nel giorno di San Valentino, mentre tutto il mondo cattolico e no si preoccupa di scambiarsi sciocchi e futili pegni d’amore, i linguisti ricordano i loro Santi, i loro eroi. I fratelli Cirillo e Metodio non inventarono, come dicono in tanti (e l’ho detto tante volte anch’io) l’alfabeto cirillico, il più usato da Belgrado a Vladivostok, il primo a lasciare la Terra con gli Sputnik. Più probabilmente l’alfabeto da loro disegnato è il glagolitico, che nelle steli più antiche che ci sono rimaste è un bizzarro mosaico di aste e cerchiolini che avrebbe potuto inventarsi un Tolkien ubriaco di sidro. In ogni caso è stato il primo alfabeto slavo (prima forse c’erano delle rune di cui si è persa ogni traccia, scarabocchi da stregoni, niente che valesse veramente la pena). Se l’invenzione della scrittura è il discrimine tra Storia e preistoria, la Storia slava comincia tardissimo, con questi due fratelli linguisti che non erano nemmeno così slavi. Forse da parte di madre (si chiamava Maria). Il padre, Leo, era un graduato dell’esercito bizantino a Tessalonica, oggi Salonicco, Grecia. Non chiedetevi cosa ci facesse una slava a Salonicco. Già da qualche secolo gli slavi erano un po’ dappertutto tra steppe e Balcani. Lo stesso nome, “slavi”, era già un sinonimo per lavoratore di infimo grado, senza diritti, alla mercé del padrone (oggi si dice “precario”): allo stesso modo in cui chiamiamo “polacche” le badanti anche quando sono bielorusse, a quel tempo se la tua matrona si lamentava di non aver tempo per svuotare la fossa biologica le rispondevi “pigliati una sklava, una slava”, poi in italiano è diventata schiava e in inglese slave. Ora che lo sapete ogni volta che dite “slavo” vi sentirete in imbarazzo, e prima o poi bisognerà porsi il problema di quanto sia poco politically correct chiamarli così, invece di, boh, persone “diversamente europee”? No, ma pensiamoci.

Stella gialla sul Caucaso
Dei due il primo a far parlare di sé è il secondogenito, Cirillo. Pensate a lui come quel classico compagno di scuola che senza fatica prende tutti i dieci nelle lingue straniere, ogni volta che apre la bocca sembra che qualcuno abbia cambiato la lingua del film col telecomando, è un dono di natura. Cirillo parlava greco e slavo ma questo era il minimo, Cirillo parlava anche correntemente l’arabo e il samaritano. L’ebraico no perché ai suoi tempi era una lingua morta come oggi il latino, usata soltanto nei riti religiosi (nell’uso comune è risuscitata molto più tardi): sapeva comunque leggerlo. Il talento per le lingue gli consentì di viaggiare per una buona parte del mondo conosciuto. In un secolo in cui solo i militari mettevano il naso fuori dai confini del proprio feudo, Cirillo fu inviato dai bizantini presso il califfo al-Mutawakkil: scopo della missione, spiegare la trinità ai teologi islamici (e poi forse c’erano altre questioni diplomatiche che non sappiamo).

Possiamo dedurre che fu un buco dell’acqua, da un punto di vista teologico perlomeno: l’Islam continuò a contrapporre il suo monoteismo radicale alle strane derive triangolari degli infedeli. Forse prima di spiegare la trinità ai musulmani avrebbero fatto meglio i teologi del tempo a spiegarsela tra loro, visto che stavano ancora litigando sul cosiddetto "filioque", a grandi linee la posizione del Figlio rispetto allo Spirito Santo (diatriba non ancora del tutto risolta). In ogni caso Cirillo si difese bene, e qualche tempo dopo fu inviato presso i Khazari, quel popolo di cui nessuno vi ha mai parlato a scuola perché scappa da ridere anche agli insegnanti quando sarebbe ora di parlare dei Khazari; e dire che ci si potrebbe scrivere un post bellissimo solo sui Khazari, il cui khanato si estendeva dalla Crimea al Lago d’Aral: una potenza militare che i bizantini corteggiavano da più di un secolo. Poco tempo prima i clan della classe dirigente khazara avevano preso una decisione singolare: volendo abbandonare la vecchia religione del loro passato nomadico e passare a uno di quei monoteismi moderni che andavano così di moda, avevano optato per… l’ebraismo, il più sfigat diversamente fortunato dei tre. Cirillo era stato inviato forse per invitarli a desistere, a preferire il bel credo niceno-costantinopolitano: anche in questo caso niente da fare, tutti probabilmente lodarono il suo bell’accento khazaro, ma nessuno fece caso ai contenuti.

La conversione dell’ebraismo dei khazari è a tutt’oggi una questione molto controversa, perché anche se oggi sono una curiosità di eruditi, tra il settimo e il decimo secolo erano una nazione popolosa, o come si diceva nella zona, un’orda. Erano già il risultato di infinite mescolanze euroasiatiche, e tra loro vivevano ebrei sin dai tempi della diaspora e forse anche da prima. Ma è corretto affermare che a un certo punto l’ebraismo divenne la loro religione di Stato? Magari fu solo la mania passeggera della corte e di qualche ricca famiglia, come quando Madonna portava i braccialetti della kabbalah, chi lo sa. La questione è delicata perché dopo essere stati la potenza egemone dell’Europa orientale, a un certo punto i khazari scomparvero, sconfitti militarmente dai russi di Kiev e assorbiti dalle altre orde che si muovevano in zona. L’ipotesi che possano essere gli antenati degli ebrei aschenaziti dell’Europa orientale (popolarizzata da Arthur Koestler nella Tredicesima Tribù) è suggestiva, ma è stata smentita dagli studi sul DNA e sopravvive su internet sotto forma di bufala antisemita: svegliaaaAAAAAA! Dicono che i loro antenati vivevano in Israele ma invece erano khazzariiiii!!!!!111.

Stele di Bascanska (isola di Krk),
il più antico documento in glagolitico
La terza missione di Cirillo è quella che finalmente avrà qualche conseguenza. Si tratta di accogliere un invito di Rastislav, principe della Grande Moravia, che, pur essendosi fatto battezzare e investire vassallo del Sacro Romano Impero, non gradiva le ingerenze dei vescovi tedeschi inviati dall’imperatore. Rastislav avrebbe preferito che i suoi sudditi non imparassero il cristianesimo dai tedeschi: da chiunque ma da loro no. Aveva anche provato a rivolgersi al Papa, senza grossi risultati. Quando invece chiese a Costantinopoli, loro inviarono prontamente (863) Cirillo il linguista e suo fratello Metodio. Bisogna però spiegare cos’è questa Grande Moravia, visto che la Moravia attuale è solo una regione della Repubblica Ceca. Ma quasi tutte le regioni dell’Europa dell’est hanno avuto diritto ai loro 150 anni di gloria in cui erano grandi nazioni sulla cartina: per esempio la Moravia ai tempi di Cirillo si estendeva tra le odierne Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria. Una nazione enorme disposta a rinunciare al proprio paganesimo ma non alla lingua, che Cirillo trovava abbastanza simile al dialetto che parlavano gli operai e sua madre a Salonicco. Ci confermano i linguisti che nel secolo IX la lingua slava non si era ancora differenziata in slavo occidentale (ceco, polacco), slavo orientale (russo, ucraino) e slavo meridionale (bulgaro, serbocroato). Era ancora un brodo primordiale comune, il cosiddetto protoslavo. Cirillo lo considerava una lingua matura, degna di una cultura e di una letteratura, che a quei tempi poi significava soprattutto il diritto ad avere una traduzione del vangelo e un messale. Diritto tutt’altro che scontato, se pensate che nello stesso periodo il volgare italiano non era considerato degno di trascrizione: bisognerà aspettare un altro secolo perché un notaio capuano si rassegni a scrivere in mezzo a un lascito in latino la trascrizione di una dichiarazione giurata in una lingua diversa, Sao ko kelle terre per quelli fini que ki contene eccetera. Ma è solo un atto notarile, per la poesia ci vorrà ancora qualche centinaia d’anni, e di messe in volgare italiano non si parlerà seriamente fino al 1964.

Le lingue slave in Europa, oggi
I moravi invece, grazie a Cirillo e Metodio e ai loro studenti dell’accademia morava, verso l’880 avevano già un messale in una lingua che chiamiamo paleoslavo, o antico slavo ecclesiastico; scritto in un alfabeto che Cirillo aveva voluto radicalmente autonomo, diverso sia dal greco che dal latino.

Intanto l’arcivescovo di Salisburgo mormorava. In teoria la Grande Moravia rientrava nella sua giurisdizione, ma quelli pretendevano di pregare nei loro astrusi borborigmi invece che in latino. Alla fine il mormorio arrivò a Roma, e Cirillo dovette andare a spiegarsi presso Niccolò I. In quell’occasione fu davvero bravo: ebbe il colpo di genio di portare in dono le reliquie di San Clemente, ritrovate in Crimea dove l’ex vescovo di Roma, il primo successore di Pietro di cui si abbiano riferimenti storici, era stato esiliato e martirizzato nel 99 (tra parentesi: Clemente è il primo caso attestato di papa costretto, per ragioni di forza maggiore, a farsi sostituire). Non c’è nulla come qualche osso morto di martire per cementare un’amicizia tra chierici, ma Niccolò dovette anche ammirare l’erudizione di Cirillo e il fatto che, malgrado fosse un inviato di Costantinopoli, avesse preferito non imporre la lingua o l’alfabeto greco. Oggi noi associamo immediatamente il cirillico coi riti ortodossi, ma nel primo secolo il suo destino dipese da Roma: furono i vescovi di Roma a vietarlo perché anti-latino, o autorizzarlo perché diverso dal greco.

Questo è un glagolitico quadrato che si sviluppa in Croazia,
già un po’ più simile al cirillico medievale
Cirillo aveva girato il mondo dal Medio Oriente ai Carpazi, ma a quanto pare fu la fatica del viaggio a Roma a ucciderlo: prima di morire decise di farsi monaco, e fu a quel punto che assunse il nome di Cirillo, fino a quel momento tutti lo chiamavano Costantino. Qualche mese dopo moriva anche il Papa. Il suo successore, Adriano II, concesse agli slavi della Grande Moravia di pregare e leggere la Bibbia nella loro lingua e nel loro alfabeto. Nel frattempo però la Grande Moravia non era più tale, il principe Rastislav era stato sconfitto dal nipote collaborazionista Svatopluk, che lo avrebbe consegnato ai tedeschi. Metodio trovò più prudente stabilirsi nel principato di Balaton, oggi in Ungheria – e non c’è bisogno di dirvi che l’ungherese non assomiglia allo slavo neanche da lontano, l’ungherese non assomiglia a nulla, non è nemmeno una lingua indeuropea. A quel tempo però la situazione intorno al lago Balaton era più fluida, c’erano molti slavi e Metodio si fermò là: molto più vicino al suo arcinemico, il vescovo di Salisburgo. Quando questi riuscì a farlo arrestare, nell’871, Metodio scrisse al papa (Giovanni VIII) che confermò di averlo ordinato vescovo di Moravia Pannonia e persino, crepi l’avarizia, Serbia. Gli proibì però di dir messa in paleoslavo, il che dovette risultare molto frustrante: un papa dice di sì, un altro no…

Metodio decise di non curarsene e continuare a pregare nella lingua messa in iscritto da suo fratello. Il filotedesco Svatopluk, che non poteva sopportarlo, mandò i suoi agenti a fare una soffiata a Roma: Metodio continua a usare quei simboletti pagani, e in più non dice “filioque” nel Credo! In teoria era un’accusa infamante, la necessità di inserire la parola “filioque” nel Credo stava lacerando definitivamente i rapporti tra Roma e Costantinopoli, tra rito romano e greco. Ma a quanto pare la spiata di Svatopluk fu un buco nell'acqua: ai tempi di Metodio persino a Roma non avevano ancora cominciato a dire “filioque”. Era una cosa più settentrionale, il Papa era d’accordo ma a Roma ancora non si usava, le abitudini sono sempre più forti delle teologie. Comunque Metodio in quell’occasione riuscì a dimostrare la sua fedeltà a Roma e a strappare un consenso informale per il rito paleoslavo. Finché Metodio fu vivo l’alfabeto continuò a circolare.

Il cirillico nel mondo. Le nazioni in verde chiaro
usano anche altri alfabeti, per esempio in Uzbekistan
stanno cercando di smettere, ma è più difficile
di quanto sembri.
Alla sua morte, nell’885, i suoi successori litigarono col nuovo papa e furono cacciati; i testi in paleoslavo glagolitico furono distrutti e sostituiti col latino. Anche l’ultima missione di Cirillo sembrava destinata al fallimento; senonché i suoi discepoli riuscirono a trovare un impiego molto più a sud, nel Primo Impero Bulgaro - esatto, è esistito un Impero Bulgaro, anzi più di uno. I bulgari in realtà erano di origine turca, o forse mongolica, ma già a quel tempo i geni delle steppe cominciavano a perdersi nel DNA slavo come gocce nel mare. Lo zar, Boris I, aveva da tempo accettato di convertirsi al cristianesimo, per il solito motivo che ai sovrani un monoteismo gerarchico dopotutto conviene. Però anche lui malsopportava l’idea di dover accettare vescovi greci, liturgia greca, santi in lingua greca. I reduci dell’esperimento glagolitico trovarono rifugio nelle accademie da lui fondata a Preslav e Ocrida; fu lì che nacque il vero alfabeto cirillico, molto meno arcano nell’aspetto, più simile ai parenti prossimi latini e greci. Di glagolitico nei caratteri ce n’è rimasto poco, giusto qualche ombra di runa qua e là; la dedica a Cirillo è ugualmente meritata, grazie a lui le lingue slave uscirono dalla preistoria e scoprirono di non avere nulla da invidiare alle lingue degli ex padroni. I due fratelli sono stati proclamati patroni d’Europa da Giovanni Paolo II, un altro studioso con l'orecchio assoluto per le lingue. Qui la pro-loco ucraina vi traslittera i nomi in cirillico, arrivederci alla prossima, vostro Лэонардо.
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La martire aveva mille denti

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9 febbraio – Santa Apollonia martire, invocabile contro il mal di denti


Apri grande, non ti faccio male
[2013]. A un certo punto – eravamo già nel Settecento – i denti di Sant’Apollonia in giro per la cristianità erano così tanti che persino il papa (Pio VI) decise di farla finita: se li fece consegnare, li chiuse in un baule che a detta degli osservatori pesava diversi chili, e li gettò nel Tevere. Erano probabilmente svariate centinaia. D’altro canto un dente è una reliquia perfetta: facile da trovare e da conservare. Commerciare denti è intuitivamente più semplice di trafficare clavicole. Mancava ancora più di un secolo alla messa in commercio dei primi analgesici.

E pensare che l’Apollonia vera di denti probabilmente ne aveva ben pochi. Se mai è realmente esistita; ma rispetto ad altre martiri del terzo secolo la sua storia appare più verosimile. Molto prima di diventare la giovane principessa standard insidiata dal re cattivo, nel primo resoconto di Dionigi di Alessandria, Apollonia era una vecchietta. Non fu vittima di una persecuzione imperiale, ma di un linciaggio durante uno di quei tumulti che opponevano comunità religiose diverse nella metropoli egiziana, milleottocento anni fa come oggi. I denti li avrebbe persi durante la colluttazione; le tenaglie vengono aggiunte dopo dalla fantasia popolare.

In virtù del doloroso incidente Apollonia si assume il patronato del mal di denti, che la renderà una delle sante più invocate per più di un millennio. Entra quindi a far parte dei quattordici ausiliatori, una specie di prontuario medico medievale che prescriveva Sant’Acacio contro l’emicrania, Santa Barbara contro la scossa, San Biagio contro il male alla gola, Santa Caterina d’Alessandria (che non tace mai) contro le laringofaringiti, San Ciriaco contro le ossessioni diaboliche, San Cristoforo contro la peste, San Dionigi contro i dolori alla testa, Sant’Egidio contro le crisi di panico, Sant’Erasmo contro i dolori addominali, Sant’Eustachio contro le scottature, San Giorgio contro le dermatiti, Santa Margherita per partorire senza problemi, San Pantaleone per morire senza troppe sofferenze, San Vito contro l’epilessia.

Il caso di Apollonia è particolare per un altro motivo: dopo averle fatto cadere i denti – e preparato già il falò – i suoi persecutori le proposero infatti di rinnegare la fede cristiana, bestemmiando un po’, la solita procedura. A quel punto Apollonia si fece slegare e si gettò da sola, volontariamente, tra le fiamme. Il che creava qualche perplessità anche negli antichi padri della Chiesa: un conto è desiderare il martirio, un conto è procurarselo da soli, la sfumatura è importante. Agostino in particolare si mostra un po’ scandalizzato dalla prospettiva che le martiri facciano tutto da sole senza chiedere aiuto ai maschi.

Apollonia è copatrona di Catania (la città delle tenaglie) e patrona di Cantù, di Ariccia e di tutti noi, ogni volta che sentiamo la testa vibrare in risonanza col trapano, e ci sembra di avere mille denti, e ce li faremmo togliere tutti.
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Stamattina ci siamo svegliati

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Giusto un attimo per ricordarvi che mentre il dibattito quotidiano politico in Italia è impigliato su una ripicca coi francesi, in parlamento si sta per sancire l'autonomia amministrativa di tre delle regioni più ricche d'Italia in materia di istruzione e sanità. Un provvedimento che renderà le scuole e gli ospedali di queste tre regioni decisamente più ricche, e quelle del resto d'Italia considerevolmente più povere.

Un risultato che dimostra la perfetta continuità della Lega di Salvini con quella di Umberto Bossi (che a questo punto rischia di finire nei libri di Storia come il leader politico più influente e importante della Seconda Repubblica); la colpevole cecità del Movimento Cinque Stelle, che come previsto va dove lo portano (dimostrando una volta in più che valeva la pena di portarlo da qualsiasi parte che non fosse la Lega); la connivenza dei dirigenti Pd che, malgrado siano in piena campagna per le Primarie, sull'argomento glissano: forse perché una delle tre regioni è l'Emilia-Romagna.

In mezzo a tutto questo, c'è una realtà che non ha smesso di parlare dell'argomento, nelle assemblee con gli iscritti e nella comunicazione sui quotidiani, e di lasciarlo bene in vista sul tavolo delle discussioni, ed è ovviamente il sindacato. Magari teniamocelo in mente per la prossima volta che a sinistra qualcuno si domanderà a cosa serve – domanda, per carità, legittima e che tutti dovremmo farci ogni tanto. (Tutti, però).

Nel caso del sindacato ho sentito dire che serve a rappresentare le istanze dei lavoratori, e a volte anche a darvi la maledetta sveglia, dormiglioni, qua stanno a smontare il welfare e per voi il problema è se Di Maio sbaglia un aggettivo. Il sindacato intanto oggi sfila a Roma, io non potrò esserci perché non è stato indetto lo sciopero, ma questo blog oggi si considera lì.
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Ad Agata (non voglio più pensare)

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5 febbraio – Sant’Agata (230-251), martire ignifuga.

Agata è stata la santa che più ha fatto per rendere accettabile
in chiesa il nudo femminile, ma per molto tempo i pittori non
hanno potuto fare a meno di corredarla di tenaglie.
Questo è Sebastiano del Piombo.
[2013. Dopo sei anni di attesa, il restauro della Pieve Matildica dovrebbe iniziare quest'anno]. 

Agata ha solo 15 anni, quando il proconsole di Sicilia Quinziano le mette gli occhi addosso: giovane, ricca, consacrata a Cristo. Poiché non cede né alle proposte né alle minacce, la consegna a una cortigiana, tale Afrodisia, acciocché la rieduchi ai costumi pagani: banchetti, orge, prostituzione sacra… niente da fare. “Ha la testa più dura della lava dell’Etna”, dice Afrodisia, rispedendola al mittente.

Si passa così alla tortura. Le stirano le membra, la lacerano con pettini di ferro, la scottano con lamine infuocate. Lei resiste; allora le strappano i seni con le tenaglie. Verrà nottetempo Pietro apostolo nella sua cella a fargliele ricrescere. Infine l’empio Quinziano decide di farla alla brace, ma il suo velo rosso (simbolo di verginità) resiste al fuoco. È il primo tessuto ignifugo della storia. I catanesi lo usano ancora per fermare le eruzioni di lava. Agata se la cava bene anche con le pestilenze e i terremoti, in generale con tutte le sfighe che possono capitare in una città mediterranea tra una faglia sismica e un vulcano.

Attribuito ad Andrea Vaccaro.
Il dettaglio del sangue sulle dita
Mille chilometri più a nord, Sant’Agata era l’unico dipinto a olio di un certo valore nella Pieve di Sorbara (MO), oggi è sagra anche lì. Per molti anni non ho neppure fatto caso al seno che portava sul vassoio; poi a un certo punto ho imparato la storia, e da quel momento non c’è stato più verso di passarci davanti senza pensare ad Agata, al seno, alle tenaglie, al seno, alle tenaglie, al seno, tutti pensieri che non si dovrebbero portare in chiesa, ma una volta fatti entrare non c’è modo di buttarle fuori, le tenaglie, e il seno, e un seno preso a tenaglie. Agata ma quanto doveva esser brutto quel Quinzano per voler più bene alle tenaglie, Agata; ci fossi stato io al tuo posto, quanto presto avrei tradito il mio padre e i miei compagni.

“Scambiamoci ora un segno della pace”.
“La pace sia con te”.

Agata scusa posso chiedertelo: quanti seni hai? Due sul vassoio ok, ma sul serio ne hai altre due al loro posto? Dalla posa non sono in grado di farmi un’idea, e tuttavia sarebbe molto più sano per me pensare che ce le hai, e tuttavia non posso fare a meno di domandarmi: che senso ha fartele ricrescere la notte prima che t’ammazzino?

“La messa è finita andate in pace”.

Come, è già finita? Vuoi dire che è da mezz’ora che sto solo pensando a tette e a tenaglie?


Giovanni Carlani, 1616 (Edimburgo).
Quando ero piccolo era diverso, ma c’è da dire che a quei tempi il vassoio probabilmente non si vedeva bene, il quadro era stato restaurato più volte da imbrattatele che non si accontentavano di togliere il fumo delle candele, no, erano artisti, loro, volevano lasciare il segno, loro. Oppure risentivano delle oscillazioni della committenza. Il seno su un vassoio magari a un arciprete non piaceva – in effetti è abbastanza ripugnante se ci rifletti – e lo toglievano; poi ne arrivava un altro che ci teneva – dopotutto è una tradizione millenaria – e lo rimettevano; qualcuno aveva pensato bene di aggiungere il campanile di Sorbara sullo sfondo; finché un altro arciprete si sarà chiesto: Agata è una siciliana del terzo secolo, che senso ha il campanile di Sorbara sullo sfondo? Niente, però sta bene. È un campanile ottocentesco, che somiglia a tutti i campanili ma è in un qualche modo diverso. Per capirlo però devi andartene, girare il mondo, dare un’occhiata a tutti i campanili che trovi, e poi tornare al tuo paese e dire: dai, mica male il campanile. Ha un suo stile. Forse è il tetto che fa la differenza, non ne trovi molti fatti a punta così: è stravagante senza dare nell’occhio, non ci tiene a essere diverso ma semplicemente lo è.

Sotto il campanile la pieve invece è un patchwork di cose messe assieme da generazioni di arcipreti dotati più di spirito di iniziativa che di senso estetico. È in piedi dall’anno Mille, quando però era più alta (pian piano si è interrata, poveretta, viviamo tutti su un budino) e a navata unica: adesso ne ha cinque, un tripudio di colonne che facevano imprecare i fotografi ai matrimoni, non si riesce a inquadrare mai niente, solo colonne colonne colonne. Io il prete l’avrò visto in faccia dopo tre anni di messa, all’inizio era solo un vocione che rombava dagli altoparlanti e rimbalzava sulle volte nel soffitto. Facciata cinquecentesca, stucchi settecenteschi, all’interno una madonna di Lourdes di quelle biancazzurre fatte con lo stampino – però ad altezza naturale. E un’altra Madonna in baldacchino, modello Carmelo, una bomboniera. Vetrate neocubiste anni Settanta. In mezzo a tutto questo l’olio di Sant’Agata sembrava un Tiziano. Crescendoci assieme perlomeno avevo questa sensazione, poi si cresce, si gira il mondo e le pinacoteche, e quando torni nemmeno Agata non ti sembra un granché, è naturale.

Siccome la vita non assomiglia, in generale, a una storia di Santi, devo dire che l’effigie di Agata non ha potuto un granché contro il terremoto dell’anno scorso. Cioè. Dipende. La chiesa è effettivamente ancora su, altre non ce l’hanno fatta, forse in altre epoche avremmo gridato al miracolo e portato Agata in processione. Ma la chiesa è comunque pericolante e i lavori di ristrutturazione sono fermi, i Beni Culturali non sanno dire quando sarà rimessa in sesto, se lo sarà. Da sei mesi la messa si celebra nella sala polivalente dell’Oratorio, che per fortuna era stata ristrutturata pochi anni fa, cioè, aspetta, pochi – venti. Hanno tolto le panche, le statue, immagino che anche Agata sia al sicuro, mi domando che effetto deve fare la Pieve adesso. Tutta vuota. Come casa tua nel momento in cui chiudi la chiave per l’ultima volta e la passi a uno sconosciuto.

Insomma stanno aspettando di vedere se casca. Dipende molto da come va lo sciame, se la faglia non si riattiva ecc. Sono quei momenti in cui mi dispiace di essere me e non una persona più interessante, più compiuta, più successful, perché magari basterebbe questo a sbloccare la situazione, a togliere la pieve matildica dal lato basso del foglio delle priorità. Se fossi famoso, magari anche morto, ti immagini? la chiesa in cui il famoso tizio visse i suoi primi vent’anni, nell’atmosfera rustica e mistica insieme in cui attecchirono i semi che avrebbero generato il suo magnum opus, La Rubrica Dei Santi Del Post, ecco, magari a quel punto la sovrintendenza potrebbe decidere di sgaggiarsi. Poi per carità, tutto deve cadere prima o poi, siamo cenere ed è cenere persino il marmo della nostra tomba; ci mette un po’ di più ma è cenere comunque. Io nella pieve di Sorbara suonavo spesso la chitarra. La suonavo forte e male, nel deliberato intento di scandalizzare i benpensanti e spiazzare i malpensanti; irridevo le composizioni fiorite del post-progressive cattolico e predicavo una specie di ritorno alle radici, agli inni primordiali, di cui in certe messe pomeridiane molto intime proponevo delle rivisitazioni piuttosto punk, che Agata immobile era costretta ad ascoltare, povera Agata, quante volte avrai rimpianto che Quinziano si fosse fissato sui seni, che non ti avesse voluto strappare le orecchie. Ma esagero, in realtà ero un musicista di servizio, abbastanza duttile, suonavo anche nelle situazioni in cui nessuno se lo sentiva: i matrimoni di gente sconosciuta in paese, e i funerali. Quanti funerali.

Per me sono stati importanti, lo dico anche a volte in classe: ma voi, fanciulli, ci andate mai ai funerali? Ci siete entrati almeno una volta in un cimitero? È una cosa importante, una cosa della vita, prima o poi succede a tutti e non vi augurate certamente che succeda per primi a voi: quindi vi dovete abituare all’idea di accompagnare i vostri parenti, i vostri amici, a me è successo, è una cosa naturale, e che c’è Nizzoli?

“Posso andare in bagno?”
Per essere un villaggio di 3000 anime ha una skyline interessante
– la costruzione monumentale grigia è un mangimificio,
i vicini di casa non captavano Videomusic.
Nizzoli ma è possibile che tu abbia un’autonomia di un quarto d’ora, ma il giorno che seppelliscono me e c’è da accompagnarmi al camposanto, centocinquanta metri in linea d’aria, ce la fai a stare nel corteo o ti tocca farti mettere un catetere? Vai, vai. Stavo dicendo?
“Che è importante andare ai funerali”.
Sì. L’ultima volta che ci sono andato Agata fu testimone di questa storia assurda, io ero nella prima panca, quella su cui nessuno vuole sedersi. Durante le letture, molto belle, le avevo scelte io, aveva squillato a lungo un cellulare. Tipico. Ma eravamo credo già alla predica quando una signora si fece avanti, una matta – non lo sapevo, me lo dissero poi, manco le matte del mio paese riconosco – si fece avanti fino alla mia panca e si scusò per essere in ritardo, e chiese se faceva in tempo a vedere il morto. Poi indicò la cassa, che stava davanti a noi, e mi chiese: “È lui il morto?”

È lui il morto.
Questa non so proprio di chi è, aiutatemi voi.
Certi quadri vagano per l’internet senza più attribuzione,
come gli inni sacri fotocopiati nei canzonieri.

E io nella prima fila, le lacrime strette in fondo agli occhi, che già mi domandavo come avrei fatto a uscir fuori da lì e farmela a piedi fino al cimitero, io la guardavo e non capivo cosa stesse dicendo, certo che è lui il morto non lo vede? Le sembra il momento di scherzare? È lui il morto? Posso avere nella vita un momento, uno solo, che non sia quello di scherzare? È una cassa chiusa con le viti, i bulloni, il sottocoperchio zincato sotto il coperchio di legno, certo che è lui il morto, cosa vuole da me? Vuole che portino via me invece? Ho domandato, sa: non si può.

M’avesse preso Quinzano in quel momento, con dieci tenaglie, con cento, non avrei detto una parola, tutto giustissimo, tutto appropriato, morì sotto Decio imperatore, di lui resta un ritratto a olio pregevole in una chiesa che tra un po’ viene giù. Invece sono vivo e non ci vado più ai funerali. Mi sono stancato, in quel preciso momento. Continuo a pensare alla matta, alla bara, ai bulloni, alla bara, alla matta, pensieri che una volta che ti sono entrati in chiesa, in testa, non c’è verso di farli saltar fuori; uscirà tutto il resto – le panche, l’altare, le chitarre – loro resteranno lì.

Agata aveva quindici anni; secondo altri ventuno.
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Nascondici o Geminiano

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31 gennaio – San Geminiano (312-397), patrono e difensore di Modena, Attila non passerà!

Sono Geminiano, e ogni 31 gennaio
mi scoperchiano la tomba
per traumatizzare i bambini
[2013]. È il 31 gennaio e dovrei parlare di Modena e del suo biancobarbuto patrono, ma non ci ho voglia. Se proprio devo dirla tutta, io ho sempre tifato Attila. Quante volte a un semaforo, o errando alla vana ricerca di un parcheggio, o nel fetore piccionesco del centro l’ho invocato: vieni Distruttore, fin troppo hai errato nella valle, salta fuori dalla nebbia e ràdici al suolo...

E invece no, Attila non s’è mai fatto vivo. Era atteso per il 452, aveva già devastato Aquileia – cos’è Aquileia? Niente, appunto, da quando ci passò Attila. Ma prima era la quarta città italiana per grandezza. E poi aveva saccheggiato Padova, Bergamo, e un sacco di altre città che terrorizzate gli aprivano le porte senza neanche provare a resistere. Ma Mutina (Modena) no, Mutina attivò lo schermo protettivo, ovvero invocò il patrono e questi benigno dall’aldilà fece scendere la nebbia.

La leggenda tradisce il pregiudizio che Attila fosse un coglione, un subumano, uno che attraversa la Valpadana come una steppa senza fare neanche caso alle strade romane, che pure son lì, sono comode, tu prendi la Aemilia (oggi SS9) a Mediolanum (Milano) in direzione Ariminum (Rimini), e nebbia o non nebbia ci arrivi a Mutina, semmai il grosso rischio è passare oltre e non farci caso perché non è questo granché di città, diciamo, con tutta quella rete fognaria che resterà a cielo aperto fino al Novecento. Ma Attila non era quel buzzurro che si pensa in giro. Sì, era Unno, aveva imparato a cavalcare prima di camminare eccetera. Ma era cresciuto a Ravenna, ostaggio degli imperatori di occidente; parlava correntemente latino; è difficile pensare che non riuscisse a orientarsi su un piano padano che è quasi cartesiano.

I tratti forse mongolici di Attila
lo rendevano agli occhi degli occidentali
una specie di mostro, con tanto di orecchie
a punta.
La triste verità è che Attila, Modena, l’ha snobbata: non gli interessava. Incredibile a dirsi, ma è così. Tra Aquileia e Milano aveva già saccheggiato il saccheggiabile e no, non era affatto un coglione. Gli era già successo ai Campi Catalunici di spingersi troppo in là seguendo il miraggio di un bottino infinito, e di restare insaccato in mezzo alle legioni nemiche. Cominciava ad avere un’età, magari pensava a ritirarsi invitto. Mise le tende da qualche parte sul Mincio e attese l’ambasciata di papa Leone. Per uno come lui, che aveva devastato Belgrado e Strasburgo e Treviri, che differenza vuoi che facesse una Modena in più o in meno.

A me piace comunque pensarlo da qualche parte nella nebbia che gira e si rigira e non si raccapezza, magari è a un passo dalla città, per dire magari è a Cognento, o a Vaciglio, ogni tanto chiede indicazioni ai passanti e non vuole far vedere di essere il Flagello di Dio, cerca di essere educato – ma l’accento uralo-altaico lo tradisce, il passante scappa, al Flagello non resta che trafiggerlo con una lancia prima che possa dare l’allarme, ogni tanto effettivamente al Resto del Carlino arrivano foto di coltivatori diretti trafitti da lance, ma tutto viene messo a tacere per non seminare il panico. È una banda di immigrati dell’Est, dicono. Si fanno chiamare “orda”.

Ritratto ufficiale (leziosissimo).
La nebbia della leggenda non è un semplice fenomeno atmosferico, assomiglia a quella cosa che si vedeva sui televisori analogici quando l’antenna era guasta, il segnale interrotto; è la mancata sintonia tra Modena e il mondo. La sola idea che Modena sia nello stesso mondo in cui ci sono le altre città, l’idea che sia raggiungibile mediante strade romane o ferrovie ad Alta Velocità, è una cosa che disturba il modenese. Il quale conserva una specie di mentalità isolana al centro di una pianura popolata, in un luogo dove ogni tanto la Storia ha pur da passare, a cavallo o sui carri armati (della Wehrmacht). Ecco, la Storia quando passa da Modena trova molto spesso gli scuri sprangati, non se la fila nessuno. È roba da forestieri, una cosa che dovrebbe succedere altrove, da noi no perché noi abbiamo cose più importanti da fare, l’apcaria, la torta Barozzi, l’aceto balsamico, un nuovo piano del traffico.

E anche la Natura, ma cosa vuole da noialtri, si può sapere? La reazione standard del modenese al terremoto è l’incazzatura, be’ ma oh! un terremoto da noi? Sol che non scherzi. I terremoti devono stare a casa sua. San Geminiano, nascondici.

Comunque una città unica.
Oggi è San Geminiano e a Modena non si va a scuola, chissà se i ragazzini vanno ancora in piazza a schiumarsi con le bombolette. Io non ci ho voglia di fare il bozzetto sugli usi e i costumi, Modena per me è come quelle ex che ti fanno vergognare sia se le chiami sia se non le chiami, eppure siete stati felici assieme ma il tempo ha dissolto ogni bel ricordo, come il vento, come il vento ha portato polvere, la polvere si è addensata agli angoli, ha fatto i gatti solo intorno alle antiche figure di merda. Preferirei parlare di città misteriose che non ho mai conosciuto, per esempio di Timbuctù, sono molto preoccupato per la biblioteca di Timbuctù e in generale per quella lontana città che è un posto straordinario.

Pensate che due secoli fa gli europei avevano colonizzato gli antipodi, ma non avevano ancora trovato Timbuctù. Sapevano che era da qualche parte al centro del Sahara, su un’ansa del misterioso fiume Niger, lastricata ovviamente d’oro e d’ebano e d’ogni ben di Dio, ma nessun cristiano poteva arrivarvi, era off limits. Mungo Park, lo scopritore scozzese della sorgente del fiume, era morto nel 1806 mentre cercava di arrivarci su una zattera nel fiume, costantemente esposto agli attacchi degli indigeni.

Caillié l'africano
Fu però un francese figlio di nessuno, René Caillié, a capire vent’anni dopo che bisognava cambiare strategia: se si voleva penetrare nella capitale dei beduini, bisognava essere beduini. Si trasferì da qualche parte sul fiume Senegal, mimetizzandosi con un turbante; lasciò che il sole gli arrostisse la pelle, perse otto mesi a perfezionare la lingua del posto, e poi si aggregò a una carovana di mercanti raccontando di essere un egiziano rapito dai francesi che voleva tornare a casa. Ci credettero e lo portarono a Timbuctù, dove tutta la poesia ebbe fine. La favolosa capitale del deserto, scoprì Caillié, era una città di fango. Oggi la troviamo mirabile anche in questo, in effetti ci vuole abilità a costruire col fango, e la biblioteca ospita(va) manoscritti inestrimabili; ma a inizio Ottocento questo tipo di condiscendenza verso le altre culture era ancora in embrione: ci rimise male, e lo scrisse. Senza scorta armata, senza portatori, Caillié era riuscito dove gli emissari di due potenze coloniali avevano fallito: si intascò persino i diecimila franchi messi in palio dalla Société de géographie per il primo uomo bianco che fosse stato in grado di entrare a Timbuctù e soprattutto a uscirne vivo. Era il prezzo da pagare per farla finita coi miraggi del mondo antico, e accettare che non c’è nessun Eldorado al di fuori dei nostri.

Caillié l'europeo.
Oggi è San Geminiano che ha la barba bianca. Potrebbe in effetti nevicare, state attenti modenesi. Quel signore tutto bianco, di neve o schiuma da barba, magari è Attila in incognito, che ha studiato il dialetto gli usi e i costumi e finalmente è riuscito a entrare, e ora si sta chiedendo: tutto qui? No ma sul serio mi avete tenuto milleseicento anni nella nebbia per non farmi entrare in un posto così?

Ma soprattutto: se entro con l’orda, dove la parcheggio?

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Giornata della memoria, appunti sulla

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La Giornata della Memoria sta per compiere vent’anni, almeno in Italia (fu istituita nel 2000), e la sensazione è che qualcosa non abbia del tutto funzionato. Eppure non si può negare l’impegno, sia sui media che a scuola. Prendiamo un ragazzo nato nel 2000: quest’anno si diploma. Probabilmente ha sentito parlare di campi di sterminio già alle scuole primarie. Di film sull’argomento potrebbe averne visti più di un paio (alcuni già due volte: La vita è bella, Schindler’s List). E poi visite d’istruzione; incontri coi testimoni; libri consigliati, libri imposti dagli insegnanti… un ragazzo che si diploma quest’estate dovrebbe aver avuto molte più di un’occasione per meditare “che questo è stato”, come scriveva Primo Levi. Un ragazzo del genere dovrebbe anche aver sviluppato una certa refrattarietà al negazionismo e al nazismo. 

Un ragazzo, appunto, dovrebbe.


In occasione della Giornata 2019 un istituto demoscopico ha scoperto che solo il 2% tra i ragazzi italiani tra i 16 e i 18 anni hanno letto un libro sulla Shoah. È un dato sconcertante, soprattutto per chi in questi giorni sia passato in una libreria e abbia dato un’occhiata all’angolo dei ragazzi (o young adult, l’industria editoriale adesso li chiama così). Ogni anno escono titoli nuovi sull’argomento: memoriali o fiction, romanzi o testi illustrati per i più giovani. Il fenomeno è talmente percepibile che se su amazon.it, se scrivo “libri shoah”, il navigatore completa con “libri shoah per bambini”. Insomma l’editoria ci crede molto, nella Giornata. Forse, viene il sospetto, ci crede troppo; al punto da generare nei giovani lettori una reazione di rigetto?

La Shoah-spiegata-ai-ragazzi ormai è diventata un genere letterario (non necessariamente gradito ai ragazzi, come del resto tutto ciò che viene imposto a scuola). Prendiamo un testo di classe terza secondaria di primo grado, Storie senza confini della Zanichelli. È un’antologia pensata per i lettori di 13-14 anni. Alla Shoah dedica un intero capitolo, intitolato “Il coraggio di ricordare”. Quasi un decimo di tutto il volume. La prima lettura è presentata così: “Alex ha undici anni e da alcuni mesi vive da solo nel ghetto ebraico di Varsavia”. Il secondo è tratto dalla novelization di Arrivederci ragazzi di Louis Malle: i protagonisti sono collegiali, hanno più o meno la stessa età dei lettori. Seguono due lettere di Anna Frank, praticamente il minimo sindacale. Un brano tratto da La valigia di Hana, la storia (vera) di una coetanea di Anna deportata e uccisa nel campo di Theresienstadt; e poi all’improvviso Primo Levi: la fulminante poesia che introduce Se questo è un uomo. Dopo venti pagine, è il primo testo in cui non si parla di ragazzini; il primo in cui un adulto si rivolge ad adulti.

Ma è solo un breve intermezzo. Segue un testo intitolato Quando Hitler rubò il coniglio rosa, tratto dall’omonimo libro autobiografico di Judith Kerr. Il coniglio del titolo è ovviamente un giocattolo dei protagonisti, che hanno 9 e 12 anni e devono sacrificarlo durante la fuga e la deportazione. Insomma, più che una Shoah-spiegata-ai-ragazzi, fin qui è una Shoah vissuta dai ragazzi. I brani successivi confermano il sospetto: ce n’è uno di Enzo Biagi su David Rubinowicz. “un ragazzino di dodici anni, figlio di un lattaio scomparso nell’autunno del 1942”; poi il brano più impegnativo della sezione: di nuovo Primo Levi con una delle pagine più intense della Tregua, quella dedicata al piccolo Hurbinek, “un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome”. Levi è di gran lunga il miglior prosatore contenuto in questa sezione dell’antologia; ma non sembra un caso che di tanti passi suoi sia stato scelto uno dei pochi in cui al centro della scena c’è un bambino.

La Shoah di cui si parla in questo libro di testo assomiglia a una moderna crociata dei fanciulli; sembra che nei campi siano finiti soltanto bambini o preadolescenti. Gli unici adulti degni di rilievo sono genitori o fratelli.

La strategia dei curatori è chiara, e rivela in controluce una concezione abbastanza pessimistica della sensibilità di un tredicenne contemporaneo: l’unico modo che avrebbe per comprendere l’orrore della Shoah è l’empatia nei confronti delle vittime, ed esclusivamente le vittime che gli somigliano, meglio ancora se coetanee o un po’ più giovani. Anche lui avrebbe potuto essere Alex, Anna Frank, Hana, David Rubinowicz: anche a lui i nazisti avrebbero potuto rubare il coniglio rosa. Che poi a tredici anni i ragazzi siano ancora così attaccati alle esperienze dell’infanzia, così poco interessati alle storie degli adulti, è una nozione smentita da altre sezioni della stessa antologia, per esempio quella dedicata alla narrativa di genere avventuroso o alla fantascienza (i protagonisti preadolescenti, viceversa, sembrano una caratteristica tipica del genere fantasy). Per quel che mi capita di vedere dalla cattedra, il preadolescente di oggi è ancora un ragazzo ansioso di crescere ed essere ammesso finalmente nel mondo degli adulti: i bamboleggiamenti di certi autori li allontanano. E allo stesso tempo, i conigli rosa funzionano: inserire bambini sulla scena dello sterminio è garanzia di riuscita. Uno dei film sulla Shoah di maggior successo negli ultimi anni (e più richiesti dai ragazzi con cui lavoro) è Il bambino dal pigiama a righe. Raccontando la storia di un bambino ad Auschwitz, Benigni vinse un Oscar. Ma l’esempio più famoso resta probabilmente la bambina di Schindler’s List. Nel bel mezzo di un monumentale film sulla Shoah in un rigoroso bianco e nero, Stephen Spielberg inserisce un cappuccetto rosso, un elemento di fiaba. È quasi una strizzata d’occhio allo spettatore adulto: le scene che hai visto fin qui non ti hanno commosso perché sono troppo affollate, troppo drammatiche, troppo vere. Per farti scendere una lacrima ti serve qualcosa di intimo: hai bisogno di fissarti su un solo personaggio, anche soltanto per pochi secondi. Va bene, ecco qui una bambina in un cappottino rosso, ora puoi commuoverti. Si commuove anche il protagonista, un nazista sulla via della redenzione. Mi domando se quello che abbiamo fatto, nelle scuole, dopo Schindler’s list non sia una infinita ripetizione del trucco di Spielberg: ecco un bambino che non aveva fatto niente ed è finito ad Auschwitz, eccone un altro, eccone un altro ancora. Sempre con le migliori intenzioni – del resto sono così pochi i trucchi che funzionano, era destino che ne abusassimo.

Ma a proposito di Schindler’s list, c’è un’altra bambina che mi torna spesso in mente, un’apparizione ancora più fugace del cappottino rosso: è la biondina col foulard, che mentre gli ebrei di Cracovia si incolonnano a piedi per entrare nel ghetto, grida “Andate via, giudei”, lanciando palle di fango. Tutto qui, di lei non sappiamo nient’altro. È forse l’unica volta in tutto il film che l’antisemitismo non è impersonificato da burocrati o ufficiali nazisti. Proprio per questo è quella che più mi spaventa, e mi torna in mente anche a mesi di distanza dalla Giornata, quando tv o social mi mettono davanti la deriva razzista degli italiani e dei loro governanti. Capisco che a Spielberg interessasse di più raffigurare le vittime del popolo ebraico, e i nazisti loro carnefici, ma è un peccato che non ci siano film altrettanto potenti che parlino di quella bambina: di cosa l’ha portata a comportarsi così, di cosa l’ha trasformata in una piccola aguzzina occasionale. Avremmo molto bisogno di film del genere a scuola. La Giornata della Memoria che troviamo sui libri di testo o in film dall’approccio volutamente ingenuo come La vita e bella è consolatoria: ci spinge a riconoscerci nelle vittime e a trovare assurda la violenza dei carnefici. Ma la Giornata non è stata istituita per farci sentire buoni, ingenui e oppressi. La Giornata serve a ricordarci che dentro di noi c’è anche la possibilità di diventare oppressori, torturatori, assassini. Come sono stati i nostri avi – anche i loro crimini dobbiamo ricordare, e non soltanto l’angoscia delle vittime. Altrimenti c’è il rischio che la Giornata diventi un momento di rimozione, il momento in cui tutti noi diventiamo Alex, Anna Frank, Hana, David Rubinowicz, e ci dimentichiamo di far parte di un popolo (di un'umanità) che quei bambini li consegnava ai carnefici.

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Il poliziotto buono di Cristo

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24 gennaio – Francesco di Sales (1567-1622), vescovo di Ginevra in esilio, poliziotto buono di Gesù Cristo

Voi l’avete mai preso un treno solo per andare a litigare? Io almeno una volta il biglietto l’ho fatto. Ufficialmente andavo a fare la pace, perché andiamo, on line è normale trascendere, ma basta vedersi in faccia per capire che quel che ci divide non è in realtà così importante. In realtà per tutto il tempo non smettevo di ripassare i miei argomenti, nel tentativo di schierarli nel modo più tagliente possibile, oh sì, io a Roma ci stavo andando a fare il culo a un tizio, avevo intenzione di entrare nella sua tana e prenderlo alle spalle. L’effetto sorpresa è tutto in queste cose, si sa.

Dai è solo un pezzo di legno, venite a toccare, non fa male...

Lo sapeva bene anche Francesco di Sales, vescovo di Ginevra che a Ginevra non poteva entrare, perché era la città di Calvino e i sacerdoti cattolici rischiavano la galera o peggio. Ma Francesco non era tipo da abbattersi, anzi Ginevra l’aveva scelta proprio come il cavaliere sceglie la dama più inaccessibile. Quando si era reso conto che ai ginevrini era fatto divieto anche soltanto di ascoltare le sue prediche domenicali, aveva iniziato a stamparle su volantini e a infilarle sotto le porte: un espediente inedito nel Cinquecento, che gli è valso il titolo di patrono dei giornalisti. Ginevra restava off limits, ma nella provincia circostante (il Chiablese), Francesco poteva contare sulla protezione del duca di Savoia, che era determinato a recuperare la sua popolazione al cattolicesimo con le buone o con le cattive.

Francesco era, essenzialmente, il poliziotto buono, quello che racconta le storielle argute e che si intristisce quando vede che non vuoi collaborare. Era anche un intellettuale raffinato, una penna gradevole, e insomma farsi convertire da lui era molto più elegante che farsi confiscare le proprietà dal duca, sicché verso il 1597 qualche notabile del Chiablese cominciò a farsi battezzare.

A Ginevra ci rimasero male. Calvino era morto da un pezzo, senza lasciare eredi all’altezza. L’intellettuale di spicco era Antoine de La Faye, il quale quando seppe che il signore di Avully si era convertito grazie alla predicazione di Francesco, sbottò: io prima o poi gliela faccio vedere, a quello lì. Lo vado ad aspettare a casa sua. Il guaio è che sbottò proprio davanti ad Avully, che benché si fosse convertito manteneva una posizione di riguardo in città e da lì in poi cominciò a tormentare La Faye: e allora, quando ci andate dal vescovo? Ho scritto a Francesco, lui vi aspetta, non vede l’ora di conversare con voi a proposito della predestinazione e del libero arbitrio. Ma ecco, risulta che La Faye, di andare ad Annecy non avesse tutta questa voglia dopotutto.

Francesco invece di voglia bruciava. Ci fosse stato un treno l’avrebbe preso all’istante. Arrivò invece a cavallo, vestito in borghese per non farsi fermare alla frontiera. Arrivò coi suoi collaboratori, un cugino, e quel giuda di Avully. Ma insomma, senza preavviso, un bel giorno il suo servo bussò alla porta di Antoine de La Faye: è arrivato Francesco di Sales, vorrebbe discutere con voi. Un'imboscata in stile Iene, a fine Cinquecento. Del resto l’effetto sorpresa è tutto, in queste cose.

La Faye e Sales si conoscevano già, nel modo astratto in cui si incontravano i polemisti nella rete sociale di allora, tutta fatta di carta e inchiostro ma già straordinariamente faconda e litigiosa. Quando il vescovado aveva innalzato una croce sulla costa del Lago, per rammentare a quegli iconoclasti dei ginevrini il simbolo della divinità, La Faye aveva scritto un libro intero per rifiutare l’idolatria della croce: il che aveva consentito a de Sales, trentenne, di reagire scrivendo il suo primo libro, la Difesa dello stendardo della Santa Croce. A quei tempi si faceva così. Per esempio Lutero scriveva un libro, Tommaso Moro ne scriveva un altro per confutarlo, un protestante inglese ne scriveva un altro ancora per confutare la confutazione, Tommaso Moro lo identificava e gli faceva tagliare la testa, nel frattempo re Enrico VIII litigava col papa e faceva tagliare la testa a Tommaso Moro, il fatto che fossero dispute scritte non le rendeva meno pericolose, anzi.

Guarda come dorme placido, ad Annecy.

Anche Sales, quel giorno a Ginevra, rischiava qualcosa. Ma era sicuro che La Faye non si sarebbe ritirato senza tentare di difendersi con le armi regolamentari della retorica e della teologia; e così fu. Arrestare il vescovo non sarebbe servito a niente, anzi: nel momento in cui il duca di Savoia e il Cantone di Berna trescavano contro i ginevrini, rischiava di essere controproducente. Ma sconfiggerlo nel suo campo, quella sì che sarebbe stata una vittoria. Purtroppo La Faye non riuscì a procurarsi un testimone che la certificasse.

Sales, per contro, aveva lasciato a casa la tonaca ma non si era scordato la claque, e non è un caso che tutti i resoconti che sono riuscito a trovare attestino il trionfo del vescovo cattolico su un calvinista ottuso e ringhiante. Verso la fine, ormai consapevole della batosta, La Faye sarebbe addirittura passato al turpiloquio e alle insolenze, l’equivalente dialettico di portarsi a casa il pallone e farsi assegnare uno 0:3 a tavolino. Sono tutte versioni cattoliche, ovviamente: ma il fatto che non esistano resoconti di parte calvinista lascia sospettare che per La Faye sia stata davvero una batosta. Quanto al turpiloquio, c’è da dire che Sales è quel tipo di polemista che davvero ti cava gli schiaffoni dalle mani: sempre sereno, sempre sorridente, con l'aria di chi ha una verità ben cacciata in fondo alla tasca e magari un giorno te la farà vedere, ma perché proprio oggi? Un bluffatore incallito, come tanti apologeti cattolici dalla Controriforma in poi. Davanti agli ingenui calvinisti, persuasi di avere semplicemente ragione, anzi, che la ragione sia stata creata da Dio proprio per darla in dono a loro, Sales è il controriformista dal volto umano, quello che nemmeno ci prova ad aver ragione invece che torto: la sua strategia è attirarti nella zona grigia, mimetizzarsi tra i chiaroscuri, anestetizzarti con storielle da canonica, evocare il Terribile Dubbio e trasformarlo in una simpatica Scommessa pascaliana, dai, su, convertiti e credi al Vangelo, che ti costa? Viene da insultarlo anche a me, figuriamoci a un ginevrino riformato.

Io comunque una domenica lo presi davvero, un treno, per litigare. Avevo con me una borsa piena di argomenti e di compiti da correggere. C’era un centro sociale, a due passi dalla stazione Termini, sapevo che il tizio aveva una riunione proprio lì. Pensavo di cavarmela in un paio d’ore, in tempo per riprendere il treno e ritrovarmi in classe lunedì. Credevo che all’inizio, certo, si sarebbe molto incazzato, perché questo ti fa l’effetto sorpresa: tu non ti aspetti che il nemico ti venga in casa a spiegarti le sue ragioni. Mi avrebbe senz’altro preso a male parole. Ma non mi avrebbe cacciato, per il solito motivo che un nemico che caccia la testa nella tua tana è troppo allettante. Dovevo soltanto fingermi un agnellino, per qualche minuto: giusto il tempo di fargli alzare la coda, e poi zac! in quel posto gliel’avrei messo, a quello stronzo. Il piano era perfetto. Arrivai a Roma che imbruniva. Entrai nel centro, nessuno mi chiese chi ero.

Lui non c’era.

Giocava la Roma.

Non mi ricordo neanche più come si faceva chiamare – gestiva un sito che è stato sequestrato, no, non li ho neanche denunciati io. E d’altro canto, beh, il fatto che siano dispute scritte non le rende meno pericolose, cioè se spali merda per anni prima o poi te ne può anche arrivare addosso, sono i casi della vita. Dovunque egli sia, vorrei poterlo raggiungere per dirgli che non gli serbo rancore. Vorrei potergli dire che mi sono dimenticato chi dei due avesse ragione e chi torto, e che a distanza di tanti anni tutto alla fine sembra così assurdo e ridicolo. Vorrei potergli dire così.

Anzi adesso vado proprio a cercarlo negli archivi, e se riesco a capire come si chiamava davvero prendo un altro treno per andargli a dire in faccia, a quella maledetta testa di cazzo, che lo perdono, sì sì, vedrai come ti perdono brutta merda, ormai col Tav in quattro ore arrivi sei a Termini e in un certo senso è un peccato, vorrei che esistessero ancora certi interregionali scrausi e puzzolenti per poter passare mezza giornata in uno scompartimento a rimuginare certi vecchi screenshot di siti che mi sono stampato per ripassare alcuni punti che voglio poi appallottolare e ficcarti ben compatti nel [dissolvenza].
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I miei amici sono anemici, mi dici

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27 gennaio - Sant'Angela Merici, (1474-1540), mistica, fondatrice delle orsoline.
[2013]




“I miei amici sono anemici”, mi dici,
si sono messi ai margini
di foto con cornici.
Non pranzano con gli astici,
si adattano alle alici
che spacciano al convitto di Sant'Angela Merìci1.

I tuoi amici sono cinici, ci dici:
hanno scialato rendite, non certo in dentifrici.
Non serve essere aruspici per trarne infausti auspici:
staresti molto meglio chez Sant'Angela Merìci2.

I miei amici son quei tipici infelici
che han fatto studi classici e ne han tratto i benefici:
non san quadrare i circoli, né estrarne le radici,
proteggerli è un lavoro per Sant'Angela Merìci3.

Ex amici, han messo via i berretti frigi,
i riccioli li rasano per non mostrarli grigi.
Li trovi in ferie a Lerici più spesso che a Parigi,
ma è molto meglio perderli, da’ retta alla Merìci4.

Amici un dì magnifici; ma han chiuso i maglifici,
e senza più bonifici, da Etruschi o da Fenici,
han perso accesso agli attici, non flertan con le attrici,
non sanno a chi votarsi più (non certo alla Merìci)5.

I tuoi amici, inurbati in cupi uffici,
arcigni e tristi artefici di artritici artifici,
strillano strofe stridule a troiette traditrici;
ti prego, trasferisciti in Sant’Angela Merìci6.

Che accolga tra le accolite, le sue benefattrici,
la bimba a cui proselita, con mani protettrici,
la scala verso l'indaco indicava da pendici
che sono competenza di Sant’Angela Merìci7.


(1) Il poeta – un mediocre anonimo degli inizi del secolo XXI – ode forse in sogno la figlia primogenita lamentarsi della scarsa vitalità dei propri amici, che infallibilmente li condurrà a un destino oscuro e marginale ("si sono messi ai margini di foto con cornici"), e a una difficile situazione economica, qui descritta evocando una mensa dei poveri (un "convitto di Sant'Angela Merìci").

(2) La figlia continua a lamentarsi che gli amici abbiano delapidato i patrimoni accumulati dai genitori ("hanno scialato rendite") a causa di uno stile di vita non sano ("non certo in dentifrici"). Non è necessario essere pratici di un'arte divinatoria ("non serve essere aruspici") per rendersi conto del disastro, al quale il poeta propone di ovviare con l'immediato trasferimento della figlia in un istituto religioso ("Staresti molto meglio chez Sant'Angela Merìci". Sant'Angela, nata a Desenzano nel 1474 e morta a Brescia nel 1540, è la fondatrice della Compagnia delle Dimesse di Sant'Orsola, volgarmente conosciute come orsoline.

(3) In questa strofa il poeta inizia a rivolgere il pensiero ai propri amici, per i quali non intravede un destino migliore di quello paventato dalla figlia per i suoi: vi sono per esempio quelli che, avendo intrapreso studi classici, si sono rivelati inetti alle discipline scientifiche ("non san quadrare i circoli, né estrarne le radici": il fatto che l'operazione di estrarre una radice da un circolo sia totalmente insensata ci lascia supporre che anche il poeta si inserisca tra questa schiera di "amici", sui quali invoca la protezione di Sant'Angela Merici).

(4) Ad altri amici, che il poeta non considera più tali ("ex amici"), egli rimprovera il tradimento delle velleità rivoluzionarie espresse durante la giovinezza ("han messo via i berretti frigi": il berretto frigio è uno dei simboli della rivoluzione francese). Benché questi amici non accettino i segni dell'invecchiamento, e tentino di camuffarli con un look giovanile ("i riccioli li rasano per non mostrarli grigi") essi hanno ormai accettato le comodità di una vita borghese. Per questo è meno facile incontrarli a Parigi (la città rivoluzionaria per eccellenza, e in generale un punto di arrivo per gli ambiziosi di ogni generazione, cfr. Stendhal, Balzac) che a Lerici, placida località balneare sul Mar Ligure che si raggiunge più facilmente dalle province di Brescia, Mantova, Parma, Modena. La stessa Santa, secondo il poeta, consiglierebbe la figlia di perdere di vista amici del genere.

(5) Vi sono poi amici che in tempo godettero di un grande benessere grazie ai "maglifici", e qui forse il poeta si riferiva a un distretto industriale ormai in via di smantellamento, nella bassa modenese. Questi amici non fanno più affari con gli "Etruschi" (forse i toscani del distretto tessile di Prato) e coi "Fenici", un popolo di origine medio-orientale che nell'Antichità si era specializzato nel commercio, stabilendo basi in tutto il Mediterraneo. Per questo motivo hanno dovuto abbandonare lo stile di vita edonista e spensierato della loro giovinezza: anche loro dovrebbero invocare la protezione di un Santo, ma il poeta dubita che la Merici possa intercedere efficacemente per loro.

(6) Il poeta immagina altri amici prigionieri di una vita di ufficio che li rende sterili: anche ciò che producono è un artificio digitale che rende artritico chi vi si dedica. Costoro sfogherebbero la loro mediocrità intrecciando rapporti frustranti con colleghe fedifraghe (segretarie?) Il poeta ribadisce alla figlia che c'è un solo modo sicuro per sottrarsi a un destino tanto orribile, ed è trasferirsi presso le Dimesse di Sant'Orsola. 

(7) Finalmente il poeta ricorda come alla figlia piacesse, da piccola, durante le visite presso un pio istituto religioso bresciano, salire le scale che conducevano agli alloggi delle Dimesse; e associa il ricordo alla più famosa visione raccontata da Sant'Angela, quella di una scala protesa verso il cielo. Chiede perciò che la santa accolga finalmente tra "le sue benefattrici" (le Dimesse) la sua figlia come "proselita". È infatti la stessa bambina a cui la Santa indicava la scala verso l'"indaco", quando si trovava "alle pendici che sono competenza di Sant'Angela Merici", ovvero a Brescia, città a ridosso dei monti, di cui Sant'Angela è co-patrona.
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Le frecce di Sodoma

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22 gennaio – Santa Irene di Roma, la martire che curò le ferite a San Sebastiano martire

"So-do-ma!", "So-do-ma!", "So-do-ma!"

Questa storia ce la siamo già raccontata: comunque siamo a Firenze intorno al 1515, è un bel pomeriggio di giugno. Ma chi è che urla così? Sono i festeggiamenti per il palio di San Barnaba: i ragazzini stanno chiamando a gran voce il vincitore – che non è il fantino, ma il cavallo – anzi no, il proprietario del cavallo: Giovanni Antonio Bazzi, nato a Vercelli e residente perlopiù a Siena, soprannominato il Sodoma. Lui stesso ha detto alla folla festante di chiamarlo così!

Un San Sebastiano del Mantegna
(1456), con un buffo nodo al perizoma.
Onde, avendo i fanciulli a gridare come si costuma dietro al palio et alle trombe il nome o cognome del padrone del cavallo che ha vinto, fu dimandato Giovan Antonio che nome si aveva gridare, et avendo egli risposto Soddoma, Soddoma, i fanciulli così gridavano.

Che sfacciato, però. E infatti appena "certi vecchi da bene" se ne accorgono ("Che porca cosa, che ribalderia è questa, che si gridi per la nostra città così vituperoso nome?")  anche i "fanciulli" cambiano atteggiamento. Da festosi diventano violenti e intolleranti. Basta un attimo. Di maniera, che mancò poco, levandosi il rumore, che non fu dai fanciulli e dalla plebe lapidato il povero Soddoma, et il cavallo e la bertuccia che avea in groppa con esso lui. 

Forse la Storia ci piace perché ci fa sentire meno soli. In qualsiasi secolo ci capiti di dare un'occhiata, troviamo sempre persone che amano, odiano, combattono, si stancano, si ammalano: proprio come noi. Tutto quello che succede a noi, è già successo infinite volte e questo a volte ci dà la vertigine, ma più spesso ci è di conforto. Ci è tanto di conforto che conviene diffidare: non è vero, tutte queste persone non erano necessariamente così simili a noi. Leggiamo un aneddoto di Gian Battista Vasari su un collega che gli stava antipatico, e ci sembra di aver trovato un episodio di omofobia tale quale potremmo leggerlo domani sul giornale ("artista gay inseguito e malmenato"). Non solo, ma ci sembra anche di aver messo a fuoco il prototipo di artista queer del Cinquecento: il Sodoma è una pazza.

San Sebastiano in boxer attillati
(Antonello Da Messina)
Può anche darsi che il soprannome derivi da un intercalare piemontese,  ("su, 'nduma!", "su andiamo": persino il dizionario biografico Treccani riporta questa etimologia un po' tirata per i capelli), però lui preferiva davvero firmarsi così, e non era la più piccola delle sue stravaganze. Spendeva come un matto, si circondava di ragazzini che gli rubavano in casa, e aveva una specie di fetish per i piccoli animali (“tassi, scoiattoli, bertucce, gatti mammoni, asini nani, cavalli barbari da correre palii, cavallini piccoli dell’Elba, ghiandaie, galline nane, tortole indiane”, più un corvo canterino che gli faceva da segreteria telefonica). Il Sodoma è irriverente, non ha rispetto per nessuno. I benedettini di Monte Oliveto lo chiamano mattaccio, lui si vendica infilando un gruppo di donne nude nelle storie di San Benedetto, poi pur di farsi pagare le riveste. Certo, la Treccani nega tutto, lo definisce "irreprensibile", ma noi la sappiamo più lunga, noi e la nostra volontà di sapere, noi abbiamo il gay radar che sfida i secoli. Tanto più che ha dipinto un San Sebastiano abbastanza famoso. E nel Cinquecento, dipingere un bel San Sebastiano nudo e sagittato doveva equivalere più o meno a un coming out, no? Le frecce naturalmente alludono alla penetrazione, come nelle raffigurazioni postmoderne del secondo Novecento; nell'espressione vagamente estatica non ci resta che riconosce un orgasmo, come Lacan (e Odifreddi) lo individuano nel marmo dell'Estasi di Santa Teresa. Tutto chiarissimo; oppure invece no.

Il Sebastiano del Sodoma guarda in alto, verso un angelo che sta per deporre la sua testa l'agognata corona del martirio. È un errore curioso che molti critici e storici dell'arte non notano, appunto perché sono critici e storici dell'arte e non sono obbligati a sapere che Sebastiano non fu martirizzato con le frecce. Ovvero, la versione ufficiale (che nel Cinquecento era ancora quella di Iacopo da Varazze) stabilisce che Sebastiano fu attaccato a una colonna e sagittato "come un porcospino": è senz'altro l'episodio più famoso della sua vita... ma non è il martirio. La corona deve ancora aspettare.

Alle frecce, infatti, Sebastiano sopravvive grazie alle cure di Santa Irene di Roma e della sua domestica, Lucina. Queste due pie donne, venute a seppellirlo, si accorgono che respira ancora: nottetempo lo trasportano nella ricca casa di Irene (patrizia romana) e gli estraggono le frecce a una a una: lunga fatica clandestina che a noi lettori moderni sembra già accanimento terapeutico. Perché prolungare la vita a chi si è votato al martirio? E infatti appena guarito, Sebastiano corre a riconsegnarsi all'imperatore che lo ri-condanna, stavolta a morire flagellato: ed è la volta buona. Ad altri santi servono quattro o cinque supplizi prima di ottenere corona e paradiso.

Luigi Miradori (XVII sec.): Sebastiano curato dalla vedova Irene.
Le torture ridondanti dei santi della Leggenda Aurea ci sembrano un controsenso morboso: perché donare la propria vita a Dio deve essere così complesso e doloroso? Perché San Giorgio deve essere battuto, sospeso per i piedi, lacerato, tagliato in due con una ruota, risuscitato e poi di nuovo decapitato? In certi casi Iacopo si stava semplicemente sforzando di armonizzare storie divergenti in quella che oggi chiamiamo continuity: c'è chi dice che Sebastiano morì per le frecce, altri dicono che morì per le frustate, Iacopo non vuole rinunciare a nessuna storia. In controluce comincia ad apparire anche l'ambiguità del desiderio di morte del martire, che la Chiesa è molto attenta a non confondere con la pulsione suicida: è lecito agognare alla corona del martirio, ma non è concesso accelerarla; i feriti comunque si curano, come Sant'Irene curò Sebastiano.

Ancora il Mantegna: una freccia è orientata
diversamente dalle altre, ed è quella
che più lo fa sanguinare.
Il fatto che la stragrande maggioranza delle raffigurazioni di Sebastiano non si concentri sul martirio, ma su una tortura da cui Sebastiano guarì, è un dettaglio cruciale per comprendere la fortuna medievale del santo. Molto prima di diventare (ufficiosamente) il santo preferito dei sodomiti, Sebastiano era venerato da appestati e lebbrosi. L'icona tipica di Sebastiano è un'immagine di sofferenza e di violenza inaudita, ma non è un'immagine di martirio. È senz'altro una sofferenza da offrire a Dio: molto prima che lo dipingesse il Sodoma, in tanti quadri Sebastiano già guardava in alto. Ma è una sofferenza che può ancora essere curata. L'icona di Sebastiano è un'immagine di speranza. Lui fu curato da Sant'Irene: tu puoi essere curato da lui. Fino a tutto il Quattrocento, almeno, nelle pale e nei polittici italiani questo messaggio è abbastanza chiaro: Sebastiano, il soldato favorito dell'imperatore Diocleziano, è ritratto di solito in scala 1:1 con espedienti prospettici che lo rendono particolarmente vicino allo spettatore: le frecce che gli lacerano la carne potremmo toglierle noi. Forse le abbiamo scoccate noi. Forse anche lui soffre per i nostri peccati: le sue piaghe sono anche le nostre ("Le tue frecce, Sebastiano, sono conficcate in me", si legge sotto al Sebastiano più sensuale del Perugino, al Louvre). E però già nel corso del Quattrocento il messaggio è sempre meno limpido, più intorbidito da tensioni contrastanti. Sebastiano non è più il rude soldato barbuto del medioevo, ma un bel modello efebico o muscoloso, a seconda dei gusti del pittore (o del committente). Già da fine Trecento Sebastiano ha perso il monopolio della peste e delle epidemie: molti fedeli gli preferiscono San Rocco. Per sopravvivere nelle Sacre Conversazioni deve trovare un'altra specialità, e l'Umanesimo gliene fornisce una inaspettata: i miti greco-romani tornano di moda e questo santo soldato, a volte ritratto con una freccia in mano, viene rapidamente sovrapposto all'immagine di Apollo arciere.

Il Savonarola di Fra Bartolomeo. Il suo San Sebastiano
invece è talmente peccaminoso che hanno tolto
anche le foto da Internet, giuro, non riesco a trovarne.
Consolatevi col profilo di fra Girolamo.
Anche Apollo era associato alle epidemie: la freccia era per gli antichi il simbolo di qualsiasi azione a distanza, e tale sarebbe rimasta più o meno fino alla diffusione delle armi da fuoco. Anche quando smetterà di essere decifrata come simbolo di un contagio epidemico, la freccia resta sino ai giorni nostri il simbolo dell'altra azione a distanza che incuriosiva poeti artisti e filosofi sin dall'antichità: l'innamoramento. Apollo è il dio più bello: e tale diventa Sebastiano nel nuovo pantheon greco-romano-cattolico. Tale lo concepisce un amico e collega di Sodoma, il fra Bartolomeo autore del più celebre ritratto dell'arcigno Savonarola, che quasi per sfida decide di dipingerne uno così bello che i frati del convento si sentono "portati al peccato" e decidono di disfarsene. Da questo aneddoto, e dall'altro di Sodoma che dipinge donne nude dove i benedettini non le volevano (malgrado la leggenda le prevedesse), capiamo che committenti e pittori non parlano più la stessa lingua; i primi vogliono ancora immagini devozionali, i secondi si rassegnano a fornirle ma sono pur sempre artisti, hanno vite incasinate, interessi non sempre leciti e vivono dinamiche competitive: non è che perché ha dipinto un Sebastiano bellissimo, dobbiamo dedurre che fra Bartolomeo lo concupisse. A quel punto del Cinquecento, dipingere un Sebastiano era una sfida coi colleghi e con sé stessi: significava dipingere un ragazzo nudo e bellissimo, così come dipingere un Bartolomeo significava dipingere uno scorticato. Più bello era, più riuscito risultava – anche oltre le aspettative e le necessità di chi l'affresco lo pagava.

I pittori del Rinascimento sono anche anatomisti: la figura di Sebastiano consente loro di indagare su aspetti che altri soggetti non consentivano. È l'unico santo di cui è consentito abbozzare sulla tela il pene, anche se coperto (e a volte la copertura ha una consistenza fallica: vedi quel maliziosetto del Perugino). Un pene lo abbozza persino l'austero Piero della Francesca, nel polittico della Madonna della Consolazione; per notarlo dobbiamo confrontarlo con il Cristo dello stesso polittico, a cui il pittore non osa aggiungerlo. In più di un caso i pittori, non potendo aggiungerlo, vi alludono puntando una freccia proprio in quella direzione (ed è la ferita che produce più sangue). Il messaggio è ambiguo: la freccia è il peccato, o la punizione che Dio ci riserva per esso, o la sofferenza di amore che il soggetto (passivo) deve sopportare, oppure va' a sapere, spesso i pittori non sanno perché decidono di dipingere una cosa invece di un'altra. E dobbiamo presumere che anche i committenti non fossero tutti bacchettoni ipocriti come i frati o i benedettini: che ci fosse anche chi desiderava Sebastiani bellissimi e non troppo trafitti; non si spiega altrimenti la sopravvivenza del modello anche dopo la Controriforma, quando gli alti prelati già avevano messo nero su bianco che Sebastiano andava dipinto come nel medioevo, barbuto e magari vestito. Lo stesso Michelangelo nel Giudizio Universale non rinuncia a raffigurare un ragazzone aitante, che brandisce le frecce e sembra dire ai dannati sottostanti: io il Paradiso me lo sono sudato. Anche l'iconografia di Sant'Irene che cura il soldato ferito continua ad avere successo, e anche in questo caso Irene non è sempre una vedova in età avanzata.

All'Irene della Leggenda Aurea capita poi di scoprire in sogno che il cadavere di Sebastiano è stato gettato nella Cloaca Massima. Lo seppellisce lì nei pressi, in quelle che poi saranno chiamate Catacombe di Sebastiano.
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