Ma noi continueremo a studiare i bricconi

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Nell'anno di Rodari, mamma perdonami, ma insomma è andata così.

[Lunedì 23 luglio 2018] 10 libri importanti per la mia vita, #2: Riguardo alle Avventure di Cipollino ho avuto di recente una discussione animata con mia madre. Io stavo notando che Cipollino mi sembrava un po' dimenticato, rispetto ad altri titoli di Rodari: come del resto era normale che succedesse, visto che il comunismo ha perso.
"Il comunismo? cosa c'entra adesso il c..."
"Eddai mamma, è l'unica fiaba dove i personaggi fanno la rivoluzione..."
"Ma io l'ho letto per vent'anni ai bambini".
"Certo mamma, ricordo benissimo, nella sezione dei cinque anni tu leggevi Cipollino perché..."
"Perché è una fiaba educativa".
"Perché è una fiaba educativa e comunista, mamma, tu lavoravi in una scuola materna comunale comunista, il prete non voleva entrarvi a benedire, eddai".
"Io non sono mai stata comunista".
"Magari non lo eri nel segreto nell'urna, ma insomma mamma, una fiaba in cui tutti gli ortaggi umili scacciano il duce pomodoro e i principi limoni..."
"Rodari forse un po' lo era..."
"Direi, scriveva sul Paese Sera".
"Ma io l'ho incontrato solo in ambito didattico, lo chiamarono nelle scuole..."
"Di Reggio Emilia".
"Comunque lo leggevano in tutto il mondo, si vede che era univers..."
"Mamma! Il mondo in cui lo leggevano era: Ungheria, Romania, Messico, Unione Sovietica, mi ricordo ancora la quarta di copertina con le edizioni in cirillico. Mamma!"
"Ma che c'entra l'Unione Sovietica, scusa, Pollicino è stato il primo personaggio che... me lo faceva leggere mio padre! sul giornalino illustrato che ci portava a casa da..."
"Quel giornalino era il Pioniere, era l'inserto dell'Unità, tuo padre comprava l'Unità, Cipollino era comunista, mio nonno era comunista, non siamo sempre stati tutti morotei in questa famiglia mamma dai".

Niente, se l'è presa.

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Questa scuola non ce la sta facendo (scusate)

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Sono un insegnante della scuola dell’obbligo. Quest’estate, dopo tre mesi e mezzo di lockdown – tre mesi e mezzo in cui abbiamo inventato una didattica a distanza che prima non esisteva – ho iniziato a preoccuparmi per la riapertura delle scuole. In un primo momento sentivo che si parlava di occupare le aule solo a metà della loro capienza, per garantire il distanziamento sociale. Sarebbe stato costoso, ma efficace. Si parlava anche di fare più turni, o di alternare didattica a distanza e didattica in presenza. Si parlava di tante cose, diciamo, fino a giugno. Avremmo potuto fare scuola nei cinema, o nei teatri. Al limite per un po’ all’aria aperta, insomma l’unica cosa chiara è che non avremmo potuto entrare nelle nostre scuole, a settembre, come se niente fosse successo.

E invece lo abbiamo fatto.

A un certo punto (giugno era già passato, mi pare), certi discorsi sono scomparsi all’orizzonte. Il ministero ci ha informato che bastava un metro di distanza tra labbra e labbra, ovvero ottanta centimetri da banco a banco, e che se non avevamo banchi singoli ce li avrebbe procurati. E un po’ di mascherine. E il nastro colorato per dividere tutti i corridoi in corsie. Il gel disinfettante, fondamentale. Ah, forse anche qualche insegnante in più, ma avrebbero dovuto promettere di restare nelle nostre scuole per più anni, e non molti hanno accettato. Tutto qui. Per il resto la scuola dell’obbligo avrebbe riaperto a pieno orario, come chiedevano i genitori. E per carità, i genitori avevano tutto il diritto di chiederlo.

Così abbiamo aperto.

E come sta andando?

Mi piacerebbe poter dire: bene.

Il Mattino

Noi non è che ci siamo tirati indietro. Abbiamo svuotato le aule dagli arredi per distanziare i banchi il più possibile. Abbiamo istituito turni per entrare, turni per uscire, turni per fare l’intervallo. Abbiamo separato i corridoi in corsie, le scale in corsie. Abbiamo comprato i termoscanner, prima che il ministero decidesse che provare le temperature al mattino non spettava a noi. Abbiamo disseminato dispenser di gel disinfettante in tutti gli ambienti, abbiamo sperato per il meglio. I primi giorni i ragazzi ci hanno stupito per la disciplina; che restassero seduti pazientemente per quattro o cinque ore dopo mesi di lockdown domestico non era per niente scontato. Specie quando quello che avevano davanti non era nemmeno un loro insegnante. Perché all’inizio non avevamo nemmeno tutti gli insegnanti. En passant: se c’era un anno in cui il ministero avrebbe dovuto impegnarsi a evitare i soliti disastri con le graduatorie di concorso, era questo. Invece completare gli organici è stato più difficile nel 2020 che nel 2019. Però in un qualche modo, stringendo i denti e accumulando straordinari che forse nessuno ci pagherà, siamo riusciti ad aprire la scuola nella data che il governo aveva promesso ai genitori. Un grande successo. Complimenti al governo.

Sì, ma insomma, come sta andando?

Ecco, appunto.

Non è che mi piaccia fare il pessimista. In queste settimane, piuttosto di scrivere cose pessimiste ho preferito non scrivere niente. D’altro canto non posso nemmeno fingere che stia andando tutto bene. Confesso che mi sarebbe piaciuto annunciare dal fronte della scuola dell’obbligo che la linea teneva, che i ragazzi rispettavano il distanziamento, che i casi sospetti venivano immediatamente segnalati e che i genitori venivano a prenderli con la mascherina. Il che tutto sommato è anche vero: i ragazzi in classe rispettano il distanziamento (ma appena fuori non riescono a evitare di ammucchiarsi), i casi sospetti vengono immediatamente segnalati ai genitori che in linea di massima vengono a prenderli con la mascherina. Tutto più o meno come è previsto dalle direttive ministeriali, talvolta ondivaghe ma in sostanza ragionevoli. E quindi insomma sta andando bene?

Secondo me no.

Princeton University

Sono un insegnante. Tutte le mattine vado a scuola con la mascherina e faccio lezione, con la mascherina. Per fortuna le aule della mia scuola sono abbastanza ampie da consentire ai miei studenti di levarsi la mascherina, una volta seduti. Molti la tengono comunque. L’aula è periodicamente aerata; abbiamo gel dappertutto; facciamo l’intervallo separati dalle altre classi; entriamo e usciamo a un orario diverso dalle altre classi. Facciamo tutto quello che dobbiamo fare, nei limiti del possibile.

E ci stiamo ammalando.

Non di covid – per adesso. Ma è quel periodo dell’anno, avete presente? Ci sono almeno due virus in giro: uno gastrointestinale, l’altro è un raffreddore. Due banalissimi virus. Io tutti i giorni faccio lezione con la mascherina, in aule aerate, e i ragazzi mi seguono osservando il corretto distanziamento. Ogni tanto qualcuno si prende il virus del raffreddore. Ogni tanto qualcuno si prende quello della cacarella.

Io li ho presi tutti e due.

Quando arriverà il Covid, perché non dovrei prendere anche quello?

C’è qualche precauzione che non ho preso? Forse ho abbassato la guardia, forse ho toccato la maniglia sbagliata, forse non ho sanificato quella cattedra prima di sfiorarla, forse sono passato troppo vicino a un ragazzo mentre andavo al mio posto? È probabile, è quello che succede quando si vive nello stesso posto tutti i giorni. Io condivido il mio ambiente di lavoro con più di duecento ragazzi: che io possa davvero distanziarmi da tutti loro per cinque ore al giorno è un pio desiderio. Presto o tardi respiro la loro aria, e loro la mia. Tra un po’ arriverà anche l’influenza stagionale: negli ultimi anni mi sono sempre vaccinato, quest’anno non ho ancora capito se ci sarà vaccino anche per me. A meno che non mi convenga contrarla, restare a casa e proteggermi dal virus peggiore.

Sono un insegnante della scuola dell’obbligo. Mi hanno chiesto di aprire la scuola, era il mio mestiere, l’ho aperta. Poi mi hanno chiesto di proteggerla dal virus col distanziamento, il gel, le mascherine, e in coscienza penso di averci provato. Ma appunto, se parliamo di coscienza, io questa cosa a un certo punto la devo dire: non ce la stiamo facendo. Non così. Non è un discorso politico. Per la politica ci sarà tempo. È chiaro che ci sono delle responsabilità, è chiaro che fino a un certo punto si pensava di investire risorse e dopo un certo punto si è deciso che non ne valeva la pena. È chiaro e quando avremo più tempo ne parleremo. Ora si tratta di capire semplicemente se possiamo andare avanti così. Se lo chiedete a me, per quel poco che mi compete e ho potuto osservare: no, non possiamo andare avanti così. Magari a orario ridotto: ma così no.

Mi dispiace.
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Nell'immensità di un rebus

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È tutto un complesso di cose – l'autunno, spotify, gli incentivi turistici della regione Piemonte – che ha fatto sì che mi sia riaccostato a Paolo Conte, dopo anni di colpevole snobberia. E ora che grazie allo streaming posso riascoltarlo tutto in fila, mi capita quel che mi è già successo con altri maestri: lo spettacolo di un'intera carriera artistica è irresistibile, dopo un po' ci si innamora e basta. I primi album ascoltati anni fa su una cassettina mi erano sembrati acerbi, ora li trovo geniali e necessari. Gli ultimi che presi a nolo mi parevano ridondanti, ora invece mi suonano perfetti, insomma Paolo Conte è un genio, grazie tante, lo sapevate già, lo sapevo anch'io ma per molto tempo non mi è interessato saperlo. Ma non parlo di lui, io parlo d'altro. 


Parlo di me. Quel che mi lascia davvero incredulo, è il ricordo che ritrovo tra i solchi, del me stesso che cercava di farsi piacere Paolo Conte milioni di anni fa. No, sul serio: ero un ragazzino. Ho ricordi precisi della gita scolastica in Baviera, io che con un certo imbarazzo vado a chiedere in prestito a un ragazzo di quinta la cassettina di Aguaplano da ascoltare con un walkman, ma perché. Cosa poteva dirmi Aguaplano a sedici anni, siamo seri, con tutta la musica che c'era in giro come potevo davvero interessarmi alle vicissitudini di un avvocato di Asti rimasto bloccato in un mondo tutto suo, una specie di solaio pieno di buone cose di gusto tutt'altro che pessimo, tutta una poetica propedeutica a un dignitoso invecchiare in provincia – e dieci minuti prima stavo ascoltando, boh, Disintegration? Out of Time? Non ha senso. Non ha nessun senso. E almeno fossi stato il solo, ma no, eravamo un bel gruppetto – sui sedili posteriori, questi ragazzi di quinta si erano messi a intonare Genova per Noi, così, per il gusto di farlo, lo scrivo qua sopra perché faccio fatica a crederci. Te li immagini i giovani d'oggi ad ascoltare Paolo Conte? E forse dovrebbero, voglio dire, non è che in giro ci sia un granché di più interessante. Né suona più datato di quanto non suonasse già allora. Ma davvero, salvo un Best of in vinile tutto il mio Conte di liceale sta in cassette registrate, come i Pink Floyd e i RHCP. Non era roba che ascoltavo io. Era quello che ascoltavamo in giro. 

Ecco, questo a distanza d'anni mi lascia perplesso più di ogni altra cosa. Cioè io mentre facevo le versioncine o cercavo di capire gli integrali ascoltavo Gli impermeabili, e sul serio pensavo di apprezzarla? Come facevo a capire versi come "Sono venuto a suonare e di nascosto a ballare"? Come facevo a commuovermi per l'"ultima donna", o per quella che avrebbe potuto entrare nella mia vita con una valigia di perplessità? Chi era Duke Ellington per me? è possibile che lo credessi davvero un grande boxeur. Che ne sapevo del mondo adulto in cui si sbaglia da professionisti? Son tutte cose che forse comincio a capire adesso, e son trent'anni – un rebus.

Oppure appunto un rebus, intravisto su una Settimana Enigmistica che mio padre lasciava sul tavolo della cucina con gli spaghetti da riscaldare, ma arrivavo che erano le due e li mandavo giù freddi, e i rebus quasi mai li risolvevo, ma quella Settimana avrebbe potuto essere di dieci, venti, trent'anni prima, e i disegni sarebbero stati uguali, e nulla mi avrebbe mai fatto del male. E nella pagina delle barzellette, per rinfrancare lo spirito tra un enigma e l'altro, avrei trovato uomini di mezza età con velleità galanti, a volte naufraghi su isole deserte con palme e bambù, luoghi pieni di virtù: e nulla sarebbe mai cambiato (e nulla mi sarebbe mai costato). 

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Ci fece un cenno dai vetri e fu tutto

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Noi leggevamo un giorno per diletto,
noi leggevamo un giorno sul diretto,
soli eravamo e senza alcun sospetto,
sordi eravamo e senza alcun cornetto,
stolti eravamo e senza alcun concetto,
saliti a Teramo senza biglietto,
senza burro né strutto,
né pancetta né prosciutto.

Morti eravamo, senza alcun costrutto.
Sola, la morte, in sala d’aspetto,
era una morte di modesto aspetto,
povera morte senza doppiopetto,
ci fece un cenno dai vetri e fu tutto. 

(Nell'anno di Gianni Rodari, ricordarsi di questa pubblicata sul "Caffè" che comincia come una filastrocca scema da ginnasiali e poi sembra che diventi sempre più scema e invece all'improvviso si impenna e con quel "cenno dai vetri" sorpassa Montale sul filo).
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L'esercito delle 150 rose

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7 ottobre - Madonna del Rosario

[2011]. Quante Avemarie ci sono in un rosario? Ok, "questa la so": cinquanta. No, non proprio. Certo, nella collanina del rosario ci sono cinquanta chicchi piccoli, e a ogni chicco piccolo corrisponde un'Avemaria. Ma il rosario completo, quello da beghina seria, prevedeva tre giri di collana, per un totale di centocinquanta Ave, quindici Pater e quindici Gloria (ne parlo al passato perché con Wojtyla, sempre abbondante, siamo passati rispettivamente a 200 Ave, 20 Pater, 20 Gloria). E perché proprio 150? Siccome è l'esatto numero di Salmi della Bibbia, l'ipotesi è che il rosario sia nato nel Medioevo come rito sostitutivo, per devoti analfabeti che non avrebbero potuto leggere il salterio. E questo ci dice qualcosa sul cattolicesimo.

Prendiamo un musulmano, un protestante e un cattolico. Il primo ha un libro sacro, ma spesso non sa leggerlo: quindi lo impara a memoria. In arabo. Altrimenti non sarebbe un buon musulmano. Il secondo ha un libro sacro, ma non riesce a impararlo a memoria, in una lingua che oltretutto non parla più da secoli: quindi impara a leggere. Così può essere un buon protestante. E il cattolico? Anche lui ha un libro. Ma studiarlo a memoria è troppa fatica. Imparare a leggere? Non se ne parla. E quindi? E quindi invece di leggere guardi le figure - le chiese ne sono piene - e al posto di ogni salmo che non hai imparato a memoria, reciti la stessa preghierina. Breve. Semplice. Pratico.

Santa Vergine,
dacci l'Eurobond!
Resta da capire perché a ogni salmo si debba sostituire una preghiera proprio alla Madonna. Non è detto che sia stato sempre così. Nel medioevo la collana del rosario era conosciuta come “paternoster”, il che lascia pensare che a ogni chicco corrispondesse piuttosto la recitazione del Padre Nostro, preghiera fissata già nei Vangeli. L'Ave Maria, nella sua versione definitiva, è parecchio più tarda: così come la devozione alla Madonna, personaggio abbastanza in ombra nei primi secoli della Chiesa. Di recitazioni di Avemaria in batteria da 50 o 150 si comincia a parlare nel tredicesimo secolo, quando San Domenico, (terrore degli eretici, flagello degli albigesi) lo riceve in sogno dalle sante mani della Vergine, come arma finale contro la mala pianta delle eresie. Sin dall'inizio dunque il Rosario alla Madonna assume una valenza battagliera che oggi può sembrare curiosa: che c'entrano le vecchiette salmodianti con le guerre, ancorché sante? Ma all'indomani della storica vittoria di Lepanto – 7 ottobre 1571 – mentre genovesi e veneziani litigano su chi ne sia stato l'artefice, e se l'ammiraglio Gianandrea Doria ritirandosi dal centro dello schieramento abbia praticato una geniale strategia diversiva o più semplicemente cercato di tagliare la corda, Papa Pio V taglia la testa al toro decretando che a vincere era stata la Madonna del Rosario, con l'implicito ausilio dei milioni di vecchine recitanti avemaria a raffica.

In pratica il Papa aveva introdotto il televoto: un mantra che annulla la tua identità ma ti rende protagonista delle grandi svolte storiche. Altro che Gianandrea Doria! A sconfiggere i feroci turchi sei stata proprio tu, vecchietta analfabeta, li hai battuti tu gli infedeli saraceni, al ritmo impareggiabile di 6 avemarie al minuto (fanno 5 rosari all'ora, al netto di misteri e litanie) che nessun muezzin di Istanbul evidentemente poteva reggere. Da lì a poco la Madonna del Rosario si insedia a Pompei, diventando meta di pellegrinaggi di massa che continuano tuttora, specie in ottobre e in maggio.

Sempre a Pompei un allievo di Luca Giordano la ritrae coronata di dodici stelle, come la misteriosa donna che nell'Apocalisse compare "vestita di sole" in piedi sulla luna. Quelle dodici stelle in cerchio richiamano effettivamente un po' il rosario, ma in realtà nessuno sa esattamente cosa rappresentino: le dodici tribù di Israele? I dodici apostoli? Insomma, la donna misteriosa sarebbe la Chiesa che si espande nel mondo? Potrebbe darsi. La cosa curiosa è che quelle dodici stelle, dipinte a Pompei su uno sfondo blu, assomigliano terribilmente a...

...esatto. Vedi cosa succede ad andar per rosari. Siamo inciampati nelle famigerate radici cristiane dell'Unione europea!

Non è possibile, direte voi. Sarà solo una coincidenza. Tanto più che le dodici stelle della bandiera europea hanno una storia diversa, no? Già, a proposito, perché ci sono dodici stelle nella bandiera europea? Ecco, non è affatto chiaro.

Va detto che né il Consiglio d'Europa, che issò per primo il vessillo a dodici stelle, né l'Unione che lo copiò, erano composti da dodici membri quando lo adottarono come simbolo. All'inizio il Consiglio di membri ne aveva quindici, salvo che uno era il Saarland, una piccola regione della Germania che nell'immediato dopoguerra era amministrata dai francesi e di cui non era ancora chiaro il destino: raffigurarla con una stella su una bandiera internazionale poteva apparire come un passo ulteriore verso la definitiva separazione dalla Repubblica Federale Tedesca. Quindici no, insomma. Ma non è comunque chiaro perché non quattordici. Tredici men che meno (oltre alla sfortuna, è veramente difficile da disegnare, un circolo di tredici stelle), e quindi, insomma, dodici. Proprio come la Madonna, che coincidenza. Ma un cattolico non metterebbe mai "Madonna" e "coincidenza" nella stessa frase. Ed ecco l'autore del bozzetto della bandiera, Arsène Heitz, rivelare ai giornalisti cattolici di essere un devoto mariano, e di essersi ispirato a una medaglietta mariana che portava sul petto; ecco fiorire leggende intorno a Paul Lévy, politico belga di origine ebraiche, sopravvissuto a Dachau, convertitosi al cattolicesimo, che davanti a un'immagine della Vergine ha un'illuminazione: ma come stanno bene dodici stelle gialle in campo blu. E appena vede il bozzetto di Heitz fa di tutto affinché i colleghi lo approvino. Ma c'è di più: per la gioia di tutti i Teocon presenti e futuri il Consiglio decise ufficialmente di approvare il suo vessillo l'otto dicembre 1955, festa dell'Immacolata Concezione. Insomma, sarà anche una coincidenza, ma la donna misteriosa vestita di sole e in piedi sulla luna che sconfisse i turchi a Lepanto sembra aver posato la testolina anche a Bruxelles. A pensarci bene è un po' inquietante. 

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Forse Facebook mi vuole fuori

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La mia prima esperienza della nuova versione di Facebook fu più o meno all'inizio del lockdown. A quel tempo si poteva ancora tornare alla versione tradizionale ed è quello che feci dopo due o tre giorni: mi sembrava una specie di Twitter senza l'unico minimo pregio di Twitter, la brevità. Questo può anche darsi non significhi nulla: sono un vecchio ormai (almeno su internet) e i vecchi vivono come un'offesa qualsiasi restyling (anche l'interfaccia utente di Blogger ne ha appena fatto uno e indovinate: è uno schifo).  


Un mese fa sono stato poi costretto a passare a questa nuova versione, e nel frattempo si è verificato un fatto che magari è solo il risultato di una coincidenza, ovvero: ho iniziato a stare su Facebook molto meno, specie da desktop. Insomma la nuova interfaccia che a detta degli osservatori esperti dovrebbe rappresentare un ulteriore passo verso la mia profilazione di cliente/merce, per ora sta riuscendo soltanto dove i discorsi degli esperti e dei critici avevano fin qui fallito: mi ha fatto stancare di Facebook. Ripeto, può anche darsi che non sia vero: settembre è stato un mese molto difficile per me, a volte non c'era letteralmente tempo per mangiare o dormire, e quindi anche per necessità teoricamente meno impellenti come farsi un giro su Fb. Può anche darsi che si tratti solo di un periodo di stanca, e che tra qualche mese mi rimetterò a litigare coi renziani o a sfottere i milanesi o a irrompere in una conversazione di aspiranti costruttori del Ponte sullo Stretto per avvertire che tra Reggio e Messina ci stanno tre km (credo che sia in assoluto la cosa che ho fatto più volte, è una specie di gag ormai). Insomma può darsi che mi adatterò, anche perché sono piccolo ben oltre il limite dell'insignificanza, Fb è ormai il mio habitat, e se l'habitat cambia non ho molte scelte: o mi adatto o scompaio. D'altro canto.

D'altro canto tutto questo potrebbe anche essere voluto: dopo avermi tenuto a pastura per una decina di anni (che su internet equivale a un Triassico), il Grande Algoritmo potrebbe anche aver deciso che di uno come me non sa che farsene. Non compro, non vendo, non clicco sugli spot, mi faccio vivo solo ogni tanto per cercare di bloccarne uno che mi offende. Tutto quello che faccio è discutere (ciozzare, si diceva dalle mie parti) e questo magari per un po' gli è stato utile, ma da qui in poi molto meno. Tutto questo vale per me e per altri milioni di ciozzatori, pardon, conversatori, che insistono in questa cosa anacronistica di usare Fb come un forum, una chat scritta, una cosa che Fb non ha mai voluto essere e che sarà sempre meno. E in effetti devo dire che l'aspetto del vecchio Fb che mi manca di più è proprio quello più anacronistico, che più mi ricordava la vecchia internet 1.0: i caratteri piccoli. Una volta tutto era scritto così qui sopra, poi sono arrivati i webdesigners presbiti e gli analfabeti e oggi pure le riviste specializzate pubblicano tutto in corpo sedici. Tutto questo malgrado qualche studio, e l'esperienza dei lettori seri dica il contrario: i caratteri piccoli aiutano la concentrazione – e se sei prolisso come me sono l'unica speranza di far digerire a qualcuno un muro di testo. Forse Fb oggi mi cattura meno proprio perché è scritto più in grande, e forse è scritto più in grande proprio per allontanare i conversatori seriali e prolissi come me, che a parte ciozzare non fanno nulla di veramente utile per Zuck e soci. Può anche darsi che disorientiamo l'Algoritmo, con tutte le parole che usiamo quasi sempre fuori contesto: di questo Algoritmo sappiamo molto poco, ma essendo un'intelligenza artificiale di sicuro ha problemi con l'ironia e quindi non ci capisce, la frastorniamo, del resto parliamo di un'entità progettata per spaventarsi quando vede un capezzolo. 

Forse è semplicemente ora di andarsene, anche se non sono quel tipo di persona che se ne va. Di solito resto finché l'interfaccia non muore: vedi i vecchi aggregatori (voi eravate all'asilo), i feed rss, vedi Friendfeed, eccetera. Forse dovrei semplicemente cominciare a capire come funziona Reddit, e aver pazienza che tra un po' tutti quelli che mi piaceva seguire su Fb li troverò lì, tranne qualcuno invece morto e quindi assente, indifferente. Ormai si è capito che gente siamo, più o meno gente verso i cinquanta che ha più voglia di leggere che cliccare sui video, tranne ormai i video delle canzoni di Paolo Conte che una volta ci sembrava il nonno e adesso è il più aitante, la mascotte della comitiva. La prospettiva di essere l'ultima generazione di veri lettori è un po' deprimente, ma magari è viziata dal punto di vista. 


Aggiungo che non c'è nulla di così strano e traumatico: sin da molto prima di Internet la mia esperienza di utente è sempre stata tangenziale e parassitaria. Molto prima di essere un utente di Fb che non cliccava sulle inserzioni ero un telespettatore che non guardava gli spot, un lettore che fotocopiava i giornali, un ascoltatore che si registrava i nastroni alla radio. Tornando a internet, quando entro in un ambiente di solito è perché ho un contenuto da promuovere, ovvero di solito questo blog. In sostanza mi metto lì a mò di buttadentro, un uomo sandwich che piazza link senza vergogna. È proprio questo atteggiamento che richiede che io poi mi fermi a far due chiacchiere con gli altri utenti e alla fine mi affeziono: questa cosa è successa soprattutto su Friendfeed e su Facebook (che di Friendfeed ha parassitato il codice). Meno su Twitter, che paradossalmente è un ambiente più adatto ai buttadentro, ma decisamente più bar della stazione che bar di quartiere. Quello che sto cercando di dire è che non sono mai stato semplicemente una merce: non mi sono mai illuso sul fatto che Zuck avesse priorità diverse dalle mie, e cercavo nel mio piccolo di sfruttare i suoi algoritmi per promuovere le mie. E continuerò a provarci, anche se ho la sensazione che di essere ormai stato scoperto e allontanato, non come individuo ma come categoria. 

Insomma quello che sto cercando di dire, in fondo al muro di testo, è che esisto. È l'unica cosa che sto cercando di dire da quasi vent'anni che son qui, evidentemente ci tengo molto, anche se a volte non mi ricordo più il perché. Forse lo sapranno gli algoritmi che processeranno questo blog in futuro, molto più intelligenti e comprensivi di quanto io non sarò mai. È a loro che chiedo adesso scusa per tutto quello che potrebbe offenderli, l'ironia, o le parolacce, o i capezzoli. 

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Siamo tutti Francesco? (No, ma ci piacerebbe)

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 4 ottobre - San Francesco d'Assisi (1182-1226)

Il culo era proprio un selling point.
[Anche questo è un pezzo molto antico 2011!, che ho sempre trovato insoddisfacente, ma per farlo meglio dovrei buttarmi sul serio sulle Fonti Francescane e non ho il tempo, probabilmente non l'avrò mai. Aggiungo solo che il ritratto di Cimabue non è esattamente il più antico, ce n'è credo un altro a Bologna].

Che dire di San Francesco, patrono degli italiani e (coincidenza inquietante) degli animali? Primo grandissimo poeta della letteratura italiana, con quel Cantico delle creature pieno di k che piacciono ai giovani? Ce ne sarebbe da scriverci un libro. Ma lo hanno già fatto in tanti. E anche a proposito dei libri su San Francesco si potrebbe scrivere un libro. Ma hanno già fatto anche questo. Quindi a questo punto che si fa?

In San Francesco al massimo ci si può specchiare. Nel senso che è uno di quei personaggi così popolari che ormai mille narrazioni diverse ne hanno levigato l'immagine fino a farla diventare una superficie specchiante. Per esempio io, se penso al mio San Francesco, lo vedo ormai un po' datato; ma non datato al dodicesimo secolo; piuttosto agli anni Settanta, che sono quelli in cui sono cresciuto leggendo anche la bio a fumetti di San Francesco sul Piccolo Missionario; guardando il film di Zeffirelli (la cosa più gay che si poteva proiettare in un cinema parrocchiale); cantando le canzoni di Forza Venite Gente, il più fortunato musical da oratorio della storia (brevissima) dei musical da oratorio.

Insomma che Francesco era il mio Francesco'70? Un fricchettone. Però di buona famiglia. Zeffirelli lo aveva capito benissimo, e la parte più interessante del suo film probabilmente è quella in cui la famiglia lo tratta un po' come si trattavano i figli da disintossicare, che fanno il gioco del silenzio e ti abbracciano, poi un mattino te li trovi sul tetto, “guarda mamma adesso volo”

E prima o poi – come tutti gli eroi medievali di Zeffirelli – ti mostra angelico il culo. Erano tempi così. La colonna sonora, tutti lo sanno, la canta Baglioni. Invece non tutti sanno che in originale era di Donovan, esatto, sì, Dolce Sentire è Baglioni che canta su Donovan, e finì nei canzonieri liturgici, avete presente, quelli posati sui banchi di chiesa, con Noi vogliam Dio e Symbolum '77 (Tu sei la mia vita / altro io non ho). Si cantava di regola durante la comunione. Non che nessuna autorità ecclesiastica l'abbia mai omologata, ma i preti facevano finta di niente, erano anni così. Pur di avere giovani in chiesa avrebbero aperto le porte anche ai Black Sabbath.

Questo insomma era il mio Francesco '70-80: l'unico Santo che ci fosse vicino in quel periodo in cui volevamo stare in parrocchia ma anche farci crescere la barba, azzuffarci nei fienili e magari farci le canne. E i soldi di papà ci pesavano un po' in tasca. Fossi nato giusto qualche anno prima probabilmente sarebbe stato un tizio più tosto, come quello che fa la morale a Totò e Ninetto in Uccellacci: un estremista intransigente che rifiuta il concetto di proprietà privata (perché in fondo il pauperismo medievale consisteva in questo), occupa chiese diroccate e insieme ad altri giovani disadattati fonda comuni maoiste sul filo dell'eresia. Ma ormai gli anni Ottanta incalzavano. I tempi erano maturi per un Francesco diverso, un Francesco rockstar. In realtà in questo blog io vorrei trattarli un po' tutti da popstar, i Santi; ma nel caso di Francesco l'approccio è perfino banale, voglio dire, la Cavani per il suo film francescano a colori scelse Mickey Rourke. Mickey Rourke! Che abbraccia un crocefisso di Cimabue buttato lì per caso e ci si struscia sensuale! Mickey Rourke nudo coi tatuaggi che si masturba nella neve! Ma vediamo il filmato.

Cioè, capite, Mickey Rourke. Agli altri santi, quando va bene, affibbiano Castellitto (quando va male Beppe Fiorello).

Però è finita anche quella fase – e pensando a Mickey, oserei dire che non è finita bene. A questo punto mi domando con che Francesco stiano crescendo i ragazzini di oggi. Esce ancora il Piccolo Missionario? Ok, il Francesco ambientalista funzionerà sempre, ma è plausibile, mi chiedo, un Francesco teocon? Perché no, dopotutto aveva la fissa per le crociate (a proposito, una delle molle per la conversione potrebbe essere stato un attacco di panico: partiva per la guerra, ma c'era già stato e non gli era piaciuta affatto, soprattutto l'esperienza della prigionia: mettersi addosso un sacco e fare il mendicante poteva essere un'exit strategy, ma il senso di colpa per essersi ritirato dalla lotta alla fine potrebbe avere prevalso e averlo portato in Terrasanta; è un'ipotesi come un'altra, ma Francesco ormai uno specchio, per cui l'ipotesi probabilmente somiglia meno a Francesco che a me).

Che altro potrebbe essere tornato di moda in questo momento? Di sicuro non il pauperismo, uno stile di vita che in fin dei conti consiste nell'elemosina: è un fenomeno tipico dei periodi di boom economico, ma quando il ciclo finisce la gente sbarra le case e comincia ad aver paura dei lebbrosi e degli zingari. Invece dovrebbero andare forte le stimmate: per molti secoli ne è stato l'unico portatore ufficiale. E in generale la sua sensibilità nazionalpopolare (ha inventato il Presepe vivente).

Sotto la superficie dello specchio, Francesco resta lì, aspetta le generazioni che verranno e lo vedranno in un modo diverso. Inutile ormai domandarsi chi fosse veramente - nel suo ritratto più antico e verosimile (quello di Cimabue nella Basilica inferiore di Assisi) è semplicemente un uomo che conosce il dolore e la povertà, e che da otto secoli, senza abbassare lo sguardo, sembra fissare proprio noi.

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Teresina, pallina di Gesù

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1 ottobre - Santa Teresa di Lisieux, AKA Teresa del Bambin Gesù AKA Teresa del Sacro volto, vergine e dottore della Chiesa (1873-1897)

[Questo è in assoluto il primo pezzo sui Santi comparso sul post, il primo ottobre del 2011]. Può anche darsi che a un certo punto, dopo cinquant'anni di roselline, bacini, bambini Gesù e altri bamboleggiamenti, anche gli uomini di Chiesa non ne potessero più, di Santa Teresa del Sacro Volto e del suo cattolicesimo così irrimediabilmente pucci che nella prima metà del Novecento aveva scatenato una vera e propria Thérèse-mania nella profonda provincia francese. Però a quel punto forse si è un po' esagerato sull'altro versante, volendo per forza vedere in lei uno spessore intellettuale che l'ha esposta alla furia di esegeti intransigenti come Simone Weil e fior di analisti lacaniani. Al punto che vien da dire: lasciatela stare! in fondo era solo una ragazzina.

Certo, nei suoi nove anni di reclusione volontaria in convento le era capitato anche di desiderare un futuro da Dottore della Chiesa (ma anche da Guerriero, da Apostolo, da Martire: tante strade tutte troncate dalla tbc). Sono quelle cose che si dicono da ragazzini, appunto. E invece ce l'ha fatta: nel 1997 Wojtyla l'ha nominata Dottore, proprio lei! terza donna a entrare nel club dopo Teresa d'Avila e Caterina di Siena. Per intenderci, Agostino da Ippona per ottenere lo stesso titolo ha scritto le Confessioni e la Città di Dio. Tommaso d'Aquino ha messo giù la Summa Theologica, dimostrando l'esistenza di Dio tipo in cinque modi diversi. Teresina, dal canto suo, non lascia visioni particolarmente mistiche né edifici teologici o meditazioni metafisiche. Cosa v'aspettavate, del resto, da una ragazza morta a 24 anni? Poco più di un best seller del primo Novecento, Histoire d'une âme, l'autobiografia sgarzolina di una ragazza sveglia che perde giovanissima la mamma, vede le sorelle maggiori entrare in convento, vorrebbe seguirle subito ma il prete severo le dice di no, allora fa un viaggio lungo lungo fino a Roma per chiedere al Papa se la fa entrare subito in convento e il Papa le dice: vediamo. Suo più grande desiderio, spiega al lettore, era diventare una pallina, un giochino nelle mani del Bambin Gesù. Tutti ci vedono subito il desiderio di umiltà, ma la pallina ha pur sempre qualcosa di sfuggente e capriccioso, che ti colpisce nei fotoritratti (fu una delle prime sante di cui circolassero immagini fotografiche, e questo può spiegare parte del suo successo).

Le consorelle fotografate da Thérèse.

È davvero ingiusto ridurla a Shirley Temple del cattolicesimo: Teresa studiò e scrisse molto, conobbe la sofferenza e il dubbio, che la tormentò negli anni della malattia. Però a noi piace ricordarla un po' così, più ragazzina che intellettuale, in posa da Giovanna d'Arco mentre prova il suo nuovo dramma con la filodrammatica del convento (i testi li scriveva lei); fanciullina vezzosa tutta contenta perché il suo ragazzo Gesù è il più figo del Creato mentre il fidanzato della sorella Giovanna, per quanto sia “una creatura molto perfetta”, è “pur sempre una creatura”. Quando le arriva la partecipazione delle nozze, lei risponde scrivendone una tutta per sé, traboccante come si vede di cristianissima umiltà:

“Iddio Onnipotente, Creatore del cielo e della terra, Sovrano Dominatore del mondo, e la gloriosissima Vergine Maria, Regina della Corte celeste, partecipano il Matrimonio del loro Augusto Figlio, Gesù, Re dei re e Signore dei signori, con la Signorina Teresa Martin, attualmente Dama e Principessa dei regni portati in dote dal suo Sposo Divino, cioè: l'Infanzia di Gesù e la sua Passione [...] Non avendo potuto invitarvi alla benedizione nuziale che è stata data loro sulla montagna del Carmelo, l'8 settembre 1890 (essendo stata ammessa soltanto la Corte Celeste), la S. V. è comunque pregata al Ritorno dalle Nozze che avrà luogo Domani, Giorno della Eternità, nel quale giorno Gesù, Figlio di Dio, verrà sulle nubi del Cielo nello splendore della sua Maestà, per giudicare i Vivi e i Morti. L'ora essendo ancora incerta, siete invitati a tenervi pronti, e a vegliare”.

Non è in castigo, è in posa da Giovanna d'Arco

Una cosa che mi fa impazzire dell'Ottocento è che tutto è già pronto per Freud, ma Freud non è ancora arrivato. Così nei diari e nelle lettere nessuno ha ancora alzato nessun schermo protettivo, e insomma tutti ti squadernano i loro complessi senza accorgersene, fanno una gran tenerezza. Una lettera del genere finisce dritta nell'autobiografia di un Dottore della Chiesa senza che nessuno abbia trovato niente da obiettare. Il libro è tutto pieno di perle così: per esempio, quando l'altra sorella prediletta che ancora vive nel mondo, Celine, riesce a farsi invitare a un ballo, Teresa non si vergogna a supplicare il Signore “d'impedirle di ballare”, con tanto di lacrimoni, finché “Gesù si degnò di esaudirmi”.

Tra le braccia del suo primo cavaliere, Celine si blocca, umiliando il povero ragazzo e costringendolo a una fuga ingloriosa. Quando lo viene a sapere, Teresina esulta senza vergogna e ringrazia Gesù di aver rovinato la serata alla sorella prediletta, che non a caso entrerà in convento poco dopo e l'aiuterà a scrivere quell'autobiografia che le porterà tanta gloria. Teresa è vicepatrona di Francia, patrona delle Missioni, dell'Australia e della Russia, tutti posti dove la pallina di Dio avrebbe rimbalzato volentieri. Se avesse avuto il tempo.

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Quino (Joaquín Salvador Lavado Tejón; Mendoza, 17 luglio 1932 – Buenos Aires, 30 settembre 2020).

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Un ciceroniano a Betlemme

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Lionello Spada, passi la penna d'oca
 e il tappeto ikea, ma GLI OCCHIALI?
30 settembre - San Girolamo (347-420), padre della Chiesa.

[2012]. Oggi quando una ragazza muore di digiuno la gente dice: è colpa delle riviste di moda, e le riviste di moda dicono: è colpa della famiglia - ma nell'antichità? A chi si attribuiva la colpa, in mancanza di foto patinate? 

Ai padri della Chiesa. A Girolamo, perlomeno, che su certe fanciulle della Roma-bene pare che facesse questo effetto: si appassionavano al suo eloquio, si lasciavano catturare dal suo personaggio un po' hobo  - quel tipo di snob figlio di patrizi che passa qualche anno in una comunità in Siria e poi torna con una certa aria di saggezza e i pidocchi nella barba - ne adottavano i costumi vegetariani, e dopo un po' rischiavano di lasciarci le penne. La giovane Blesilla  ci restò secca davvero, dopo qualche mese di dieta, e Girolamo cadde in disgrazia: dovette abbandonare la città. Non aveva ancora quarant'anni ed era già stato segretario particolare di un Papa, il padre Georg di Damaso I; alla morte di Damaso alcuni lo davano già per papabile, ma appunto: i romani possono sopportare molte cose, ma un papa convinto che nell'attesa del Regno dei Cieli imminente non sia più concesso mangiar carne, eh, grazie, anche no. Girolamo se ne tornò nei deserti della sua giovinezza tormentata, la cristianità ci perse un papa vegetariano e ci guadagnò la miglior Bibbia che poteva permettersi. Perché Girolamo, riparato a Betlemme, non ebbe più niente di meglio che riprendere le sue traduzioni del testo sacro in latino, rimaneggiarle ed espanderle. Ci mise altri quindici anni, ma alla fine la latinità aveva un testo leggibile, organico, comprensibile, alla portata di tutti (Vulgata, lo chiamarono), e a suo modo elegante, come doveva essere stato elegante quel patrizio romano sotto gli stracci da asceta che ostentava nei circoli romani.

L'influenza di Girolamo sulla lingua che parliamo milleseicento anni dopo è incalcolabile. Nel senso che davvero è impossibile calcolare quante parole gli dobbiamo. Un esempio qualsiasi, su milioni che si potrebbero fare: l'aggettivo "geloso". Deriva da "zelotes", un termine che compare due volte nell'Esodo tradotto da Girolamo; in entrambi i casi è riferito a Dio, e in entrambi i casi Dio sta chiedendo al suo popolo di non avere altro Dio. Insomma la prima gelosia della storia è la gelosia divina, di un Dio che si considera Unico ma evidentemente non ne è troppo sicuro - sennò tanta gelosia non avrebbe un senso. Prima della vulgata i latini non avevano una parola per "gelosia": ne avevano il concetto? A leggere Catullo pare proprio di sì, ma così come non marcavano una netta distinzione tra l'azzurro e il verde, gli autori classici non danno la sensazione di distinguere nettamente invidia e gelosia. Forse i concetti sono dei grumi di senso che prendono forma intorno alle parole: finché non esiste una parola, non c'è nemmeno il concetto. Forse non avremmo il concetto di gelosia, se Girolamo non avesse deciso di tradurre un certo termine ebraico in un certo modo.

È da un po' che scrivo storie di santi sul Post. All'inizio non sapevo bene dove sarei andato a parare, ho proceduto per tentativi. A distanza di qualche tempo mi sembra che il metodo sviluppato consista nella simpatia: si prende un uomo o una donna vissuti secoli o millenni fa, in contesti radicalmente diversi, e si tenta di trovarli simpatici. A volte la cosa è fattibile, altre volte è così disperata che diventa divertente. Come metodo, è il meno serio e il più anti-storico che si possa adottare. Le persone nate secoli fa, in contesti alieni, sono alieni. Non parlano come noi, non pensano come noi, non mangiano le cose che mangiamo noi (Girolamo era vegetariano in un mondo senza pomodoro e senza pastasciutta). Trasformarli in figurine simpatiche (o antipatiche) non serve probabilmente a nulla. E in certi casi è veramente impossibile. Come si fa a provare simpatia per Girolamo, un fanatico ossessionato dall'inferno, che si fece mantenere per tutta la vita dalla nobildonna (Santa Paola) a cui aveva fatto perdere la figlia (Santa Blesilla)? C'è che contrariamente a tutte le aspettative, questo fanatico ossessionato è un grande intellettuale, un bravo scrittore, un incredibile traduttore. E la sua Bibbia in latino è un dono, prezioso anche per quelli che a milleseicento anni di distanza non si considerano cristiani.

Ai tempi del suo primo disperato pellegrinaggio nel deserto - durante il quale altri suoi amici erano morti di stenti - Girolamo aveva fatto un incubo, dopo una di quelle sere in cui prima di andare a letto si era messo a leggiucchiare un po' di Plauto, così, per prender sonno. Il sogno lo aveva catapultato alla corte di Cristo Re, che lo aveva interrogato: "sei forse tu cristiano?" "Mi sembra di sì", aveva risposto Girolamo, tremebondo. "Mi sembri piuttosto ciceroniano", aveva risposto il dio-magistrato, e ne aveva disposto l'immediata flagellazione. Girolamo, sanguinante, aveva promesso che non avrebbe toccato un autore pagano mai più, mai più: da lì in poi solo libri sacri. In pochi sogni come in questo vediamo un uomo tradirsi.

Perché il dio flagellatore aveva ragione: Girolamo era più di ogni altra cosa ciceroniano, e nessun digiuno, nessuna penitenza lo riuscirono a cambiare davvero. Sotto quella pelliccia puzzolente, il monaco traduttore era rimasto Eusebius Sophronius Hieronymus, una spia del classicismo greco-romano, infiltrata nel cuore più profondo del cristianesimo trionfante: la piccola cella di Betlemme dove stava prendendo forma la Vulgata. Nel giro di due secoli il testo avrebbe sbaragliato la concorrenza, diventando per un buon millennio l'unica Bibbia leggibile in Europa. Il libro di Dio, ma anche un po' di Cicerone. No, mettiamola così: il ciceronianesimo di Girolamo è un virus, rimasto in sonno per secoli prima di attivarsi. Finché il supporto rimase la pergamena, e i lettori poche migliaia in tutto il continente, quasi nessuno ci fece troppo caso. Ma quando arrivò Gutenberg, e la stampa a caratteri mobili, il virus dilagò. Era il virus del pensiero critico.

Come animale da compagnia, un leone vegetariano. Il problema coi leoni vegetariani è che mangiano chili di cespugli al giorno, e hanno continuamente una spina da farsi cavare, e tu intanto stai cercando di capire le unità di misura del Levitico

Ci sono stati nella Storia dell'uomo altri traduttori di libri sacri. Siccome i libri di questo tipo durano molto, e nel frattempo non cambia solo la lingua, ma anche la cultura, il modo di pensare... di solito tradurli è l'occasione per riammodernarli un po', magari per riscrivere intere parti da capo. Girolamo sapeva bene, per esempio, che quando i greci avevano tradotto la Bibbia ebraica, l'avevano un po' aggiornata, togliendo magari qualche riferimento messianico che loro non capivano e che invece a lui premeva molto. Girolamo crede, indiscutibilmente crede, che l'autore della Bibbia ebraica sia Dio, e che quindi sia necessario ripartire da là: ma l'ebraico è difficile, e Girolamo non si fida veramente di nessuna delle sue fonti: non degli ebrei suoi contemporanei, non dei Greci, non del saggio Origene che aveva fatto uno splendido lavoro accostando tutte le traduzioni conosciute, ma era anche lui in odore di eresia... Diffidando di tutti, Girolamo è costretto a metterli a confronto, e a inventare un metodo filologico che poi ci servirà a restaurare tutti i classici, Cicerone incluso.

Ma quel che forse è più importante, e che lo rende il Santo dei traduttori, è che Girolamo diffida anche di sé stesso. Altri, prima di lui, avevano risolto i dilemmi di interpretazione lasciandosi semplicemente ispirare dalla Divinità. Lui no, lui traduce a senso, anche quando il senso magari non gli piace. Non è un profeta, non cerca Dio nella sua testa: Dio sta fuori, Dio ha scritto un libro, Girolamo deve capire cosa c'è scritto senza lasciarsi tentare dal demone dell'interpretazione. Nelle sue mani, la Bibbia diventa latina, ma non si evolve. Non si adatta alla cultura della civiltà tardoantica. Rimane un ingombrante centone di miti ebraici totalmente sganciati dalla quotidianità dei cristiani: qualcosa di oggettivamente difficile da manovrare, che rimarrà per secoli incastonato nella liturgia come un meteorite piovuto dal cielo. Nella maggior parte del testo, il Dio di cui si parla non è quello dei cristiani: a volte è buono e misericordioso, altre volte è mandante di genocidi; il più delle volte non si capisce cosa pretenda e con chi ce l'abbia, tutti i popoli di cui si parla sono lontani nella Storia e nella geografia. Dopo un migliaio di pagine così (intervallate da qualche salmo commovente, qualche onesta riflessione sulla condizione umana, qualche poesiola d'amore, qualche proverbio abbastanza banale), arriva Gesù - ma persino le storie di Gesù non sono affatto raccontate in modo univoco e coerente. C'è un sacco di contraddizioni, e Girolamo le avrebbe potute risolvere: chi meglio di lui?

Un piccolo esempio, di cui abbiamo parlato altre volte: i fratelli di Gesù. Tutti quelli che nei secoli hanno difeso la verginità della Madonna, si sono scontrati contro quei versetti in cui si dice, chiaramente, che Gesù aveva dei fratelli. Non c'è niente da fare, il testo dice così: hai voglia a dire che magari gli evangelisti intendevano "cugini", "amici", "discepoli", no: c'è scritto fratelli, punto. Ma chi l'ha scritto? Girolamo era nella stanza dei bottoni (o meglio nella cella dei papiri), Girolamo avrebbe potuto cambiare. Certo, ci sarebbe stata qualche polemica, Agostino avrebbe storto il naso... ma nel giro di qualche secolo tutto sarebbe stato risolto, un testo meno contraddittorio avrebbe fatto comodo a tutti. Bastava convincersi che quel "fratelli" era un evidente sinonimo di cugini, le religioni sono piene di gente che si convince di cose così, ma Girolamo non era quel tipo di fanatico. Tradusse "fratelli", e "fratelli" rimase. Sotto quella pellaccia livida di tutte le frustate che si autoinfliggeva per aver esagerato a condire la lattughina, sotto tutto il suo cristianesimo furioso e militante, Girolamo Eusebio Sofronio era rimasto un filologo. Classico. Ciceroniano. Se oggi leggiamo la Bibbia, e ci troviamo i migliori argomenti per non dare retta ai preti, lo dobbiamo a lui, che poteva sostituirla con un bel catechismo edificante, ma non ne era in grado. Tra l'amore per la Chiesa e quello per la lettera del testo, Girolamo scelse il secondo, e lo sapeva: almeno nei sogni.

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