Le cavallette! (Non è stata colpa mia?)
18-10-2023, 18:04Bibbia, Israele-Palestina, medio oriente, santiPermalink19 ottobre: Gioele, profeta (IX secolo o IV secolo aC)
Sesso con gli ortotteri! |
Il profeta che andò a putt
17-10-2023, 11:07Bibbia, repliche, santiPermalinkDuccio di Buoninsegna |
[2012]. Essere profeta del Dio di Israele non è proprio il massimo della vita – esistono datori di lavoro più ragionevoli, diciamo. Giona quando prova a mollare si ritrova per tre giorni nelle profondità dell’oceano all’interno del ventre di una balena; Ezechiele a un certo punto deve sdraiarsi su un fianco per un numero di giorni (390+40) corrispondenti agli anni dell’esilio babilonese, e nutrirsi di cibo cotto sopra feci umane. Al che persino Ez, uno che per il suo Dio avrebbe fatto qualsiasi cosa, esprime una perplessità: Signore, la cacca umana è impura, io non ho mai mangiato niente di impuro. Va bene, risponde Dio, puoi usare feci bovine. Allora lo vedi che non è così duro come raccontano, lo vedi che ci sono margini di trattativa? Ma forse il caso più interessante è Osea, profeta minore ingiustamente negletto, col quale il Signore va subito al dunque:
Quando il Signore cominciò a parlare a Osea, gli disse:
«Va’, prenditi in moglie una prostituta
e abbi figli di prostituzione,
poiché il paese non fa che prostituirsi
allontanandosi dal Signore».
Il libro del profeta Osea comincia così – e potrebbe cominciare meglio? Siamo più o meno a metà Bibbia e ormai dovremmo avere imparato che da questa entità ci si può aspettare qualsiasi cosa: magari ti chiede di sgozzare tuo figlio su un altare, magari poi cambia idea all’ultimo momento, è fatto così. Ciononostante, bisogna riconoscerlo, riesce sempre a mantenere l’attenzione del lettore, riesce sempre a stupirlo con qualche espediente nuovo. Ciao Osea! Sono il tuo d-i-o, ora sposa una puttana, perché mi serve una metafora. Ah, e facci almeno tre figli, ma preparati a dar loro dei nomi ridicoli:
La donna concepì di nuovo e partorì una figlia e il Signore disse a Osea:
«Chiamala Non-amata,
perché non amerò più la casa d’Israele,
non ne avrò più compassione […]
Dopo aver divezzato Non-amata, Gomer concepì e partorì un figlio. E il Signore disse a Osea:
«Chiamalo Non-mio-popolo,
perché voi non siete mio popolo
e io non esisto per voi».
Insomma l’Entità è arrabbiata, molto, per via del solito problema, che il popolo di Israele non la ama. L’Entità lo ha chiamato dall’Egitto, ha fatto scaturire miele dalle rocce, quaglie dal cielo, per non parlare della manna e di tutti quei popoli che ha eliminato per far spazio, ma niente da fare: è un popolo poco serio, che tresca con gli altri dei, costruisce altarini e non si perita nemmeno più di nasconderli, ormai sono tresche dichiarate, all’aria aperta (sulle cime dei monti!), e l’Entità non ne può più. L’Entità è orribilmente gelosa, di una gelosia forse senza precedenti in letteratura. Un sentimento che prima della Bibbia non aveva nemmeno un nome, e che a partire dall’Esodo diventa attributo divino, ma che nel rotolo di Osea suona umano, terribilmente umano.
http://www.jaypinkerton.com/hosea.html
Chi lo ha scritto non necessariamente era ispirato da Dio, ma sicuramente era ispirato da una passione frustrata. Passa continuamente dalle maledizioni alle promesse, a volte fa come per accarezzarti, ma capisci che gli prudono le mani. Il Dio di Osea si esprime insomma come quel tipo di ex marito che sta per violare un’ordinanza restrittiva per portare un pacco infiocchettato al compleanno del figlio, ma in tasca comunque tiene il necessario qualora gli venisse l’ispirazione di tagliare la gola alla madre del bimbo. Come tanti libri profetici, non sappiamo se ci sia giunto in uno stato un po’ caotico o se il caos non sia caratteristico del modo di esprimersi dell’Oracolo del Signore. In ogni caso ovunque lo apri puoi imbatterti, alternativamente, in minacce di morte cruentissime e dichiarazioni d’amore appassionate, struggenti: c’è gente che si sposa, con letture del libro di Osea; se solo conoscessero la premessa…
Ad Efraim (una delle dodici tribù, ma anche tutto Israele per sineddoche)
io insegnavo a camminare tenendolo per mano,
ma essi non compresero che avevo cura di loro.
Io li traevo con legami di bontà,
con vincoli d’amore;
ero per loro come chi solleva
un bimbo alla sua guancia;
mi chinavo su di lui per dargli da mangiare.
Hai letto quanto è tenero qui? Attenzione, ora salto un versetto:
La spada farà strage nelle loro città,
sterminerà i loro figli,
demolirà le loro fortezze.
Ne salto un altro:
Come potrei abbandonarti, Efraim,
come consegnarti ad altri, Israele?
Come potrei trattarti al pari di Admà,
ridurti allo stato di Zeboìm?
Il mio cuore si commuove dentro di me,
il mio intimo freme di compassione.
Non darò sfogo all’ardore della mia ira,
non tornerò a distruggere Efraim,
perché sono Dio e non uomo;
Perdona, ma a me pare proprio il contrario. Mi sembri veramente, decisamente un uomo, un uomo che a un certo punto della vita forse si è messo con la donna sbagliata, o forse tutte le donne sono sbagliate per certi uomini, in certi momenti della vita, in ogni caso mi sembri un uomo che su questa cosa che tua moglie ha altri interessi ci deve ancora lavorare. E andare in giro dicendo che tua moglie è una puttana, e che l’hai sposata solo perché te l’ha ordinato il tuo dio, no, non ha l’aria di un progresso nella giusta direzione.
Samaria espierà,
perché si è ribellata al suo Dio.
Periranno di spada,
saranno sfracellati i bambini;
le donne incinte sventrate.
Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,
poiché hai inciampato nella tua iniquità.
Ma perché si copre la tes |
D’altro canto chi sono io per giudicare. Se Osea fosse stato semplicemente un marito becco in cerca di sfogo, i suoi rotoli si sarebbero persi da un pezzo. Per sopravvivere all’oblio, per consegnare al lettore del XXI secolo un documento vibrante sulla gelosia umana, Osea doveva fare il profeta, trasformare la sua frustrazione in metafora. Come lo pseudoSalomone a cui piacevano le more, e per mille anni abbiamo fatto finta che la moretta ben tornita del Cantico dei Cantici fosse un’allegoria della Chiesa; magari Osea voleva solo raccontarci come ci si sente quando si è furiosi per un tradimento. Di sicuro la furia sa esprimerla bene.
Samaria espierà,
perché si è ribellata al suo Dio.
Periranno di spada,
saranno sfracellati i bambini;
le donne incinte sventrate.
Torna dunque, Israele, al Signore tuo Dio,
poiché hai inciampato nella tua iniquità.
Magari è come certi che questa furia insanabile provano a trasferirla nella politica, o nella religione, nella prima rivendicazione identitaria che trovano sul loro cammino. In ogni caso è un uomo, di quasi tremila anni fa, ma già un uomo con sentimenti che riesco quasi a riconoscere, e a me gli umani interessano (Dio molto meno, cioè su Dio non saprei veramente che dire. Ma se è davvero lo stalker adombrato nel libro di Osea, siamo fottuti).
Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell’amore,
ti fidanzerò con me nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore.
E avverrà in quel giorno
– oracolo del Signore –
io risponderò al cielo
ed esso risponderà alla terra;
la terra risponderà con il grano,
il vino nuovo e l’olio
e questi risponderanno a Izreèl.
Io li seminerò di nuovo per me nel paese
e amerò Non-amata;
e a Non-mio-popolo dirò: Popolo mio,
ed egli mi dirà: Mio Dio.
Farla finita con Gaza
09-10-2023, 00:58guerra, Israele-PalestinaPermalinkIl Messaggero |
Se scrivo qualcosa qui, non è che ce ne sia un motivo. Non ho informazioni da aggiungere, non ho previsioni da proporre, in sostanza non ho quasi idea di cosa stia succedendo e di perché succeda. Scrivo per abitudine – un'abitudine che sto perdendo, in realtà, e forse non è nemmeno un male. Scrivo per rendere a me stesso conto del fatto che mentre cominciavano ad arrivare le notizie dell'attacco di Hamas, ho scoperto covare da qualche parte in me un sentimento di speranza. Non certo di una vittoria di Hamas – credo che non ci contino nemmeno loro, la violenza che esprimono è proporzionale alla disperazione che li nutre; forse speravo anch'io in una rappresaglia massiccia delle forze militari israeliane. La quale rappresaglia porterebbe senz'altro al massacro di una popolazione in gran parte inerme, ma magari anche alla fine di quel laboratorio mostruoso che è diventata Gaza, e dello status quo che ha incancrenito la situazione a partire dal ritiro unilaterale degli israeliani dalla Striscia nel 2005.
Se scrivo qualcosa è perché su quel ritiro che apparentemente poteva sembrare una buona notizia, ho maturato col tempo e qualche lettura un'opinione che i fatti successivi hanno sembrato confermare; dopodiché non è da escludere che da un certo momento in poi io abbia messo di notare altri fatti che la smentivano. A chi aveva la pazienza di passare di qui ho cercato di spiegare, coi miei limiti, che quello che il mondo intero continuava a vedere come un problema, per Israele era una soluzione; che Gaza avrebbe fornito da quel momento agli israeliani quella modica quantità di minaccia esterna necessaria a mantenere la società coesa e bellicosa, in un warfare di bassa intensità che era la cosa più vicina alla pace che Sharon o Netanyahu potevano concepire.
Quando i bombardamenti reciproci tra Gaza e Israele cominciarono ad assumere un ritmo stagionale, a chi periodicamente gridava che Israele era minacciata nella sua stessa esistenza obiettavo che no, Israele aveva di fatto già vinto, e come ogni vincitore aveva avuto la possibilità di scegliersi il suo nemico, selezionarlo, tagliargli gambe e/o testa ogni volta che ne intravedeva la necessità. Non volete sentirvi dire che Israele ha creato Hamas? Va bene, e del resto non ci sono le prove, ma dopo tanti anni non ha nemmeno più molta importanza chi l'abbia creato: qualcuno comunque ha consentito che prendesse il potere in una striscia di terreno sovrappopolata e recintata da ogni lato, e di certo non è stata l'ANP. Qualcuno ha pensato che piuttosto di cercare una pacificazione coi palestinesi, attraverso una strada che a nessuno è mai sembrata facile, si poteva invece dividerli e lasciare che in certe sacche i più radicalizzati e indifendibili prendessero il sopravvento. Questo non avrebbe mai garantito agli israeliani l'incolumità che si godono i cittadini di un Paese in tempo di pace, ma li avrebbe confortati nell'idea che la guerra che era necessario protrarre in eterno era una guerra giusta, combattuta dall'esercito più morale del mondo per difendere lo Stato che vince sempre ma che ogni razzo artigianale minaccia nella sua stessa esistenza. E poi dicevo un'altra cosa, che a distanza mi colpisce: che la Striscia era un esperimento, e che se avesse avuto successo – e stava avendo successo – non sarebbe passato molto tempo prima di ritrovarcelo in altre situazioni. Il che non significa che Kossovo e Donbass, per fare due esempi europei, non siano situazioni dove la guerra a bassa intensità può diventare lo status quo; ma che può succedere e in parte dipende da noi, dalla nostra attenzione, dalla nostra consapevolezza.
Ora, quello che sta succedendo è atroce, ed è difficile immaginare che non porti nei tempi brevi ad atrocità ancora peggiori. Ma se per la prima volta dal 2005 i miliziani di Hamas danno l'impressione di avere davvero fatto qualcosa che Israele non si aspettava, forse almeno tante vittime significano che l'esperimento Gaza è fallito. La violenza che ha prodotto, la crudeltà che ha partorito, è qualcosa che Israele non riesce più a contenere: per farlo dovrebbe superare il nemico in crudeltà e forse non può farlo, perché Hamas prende ostaggi e perché Israele, malgrado tutto, è ancora una democrazia. I falchi nel 2005 hanno avuto un'idea; per qualche tempo è sembrata funzionare, e chi ne parlava male un pericoloso antisemita. Dopo quasi vent'anni, l'idea si svela per il congegno aberrante che è: chi l'ha voluta è morto, chi l'ha portata avanti è vecchio è odioso; Israele è uno Stato di giovani, e i giovani se una cosa non funziona di solito la cambiano, non ci si intestardiscono fino a morirne. Forse sto sperando in questo.
Tre Pelagie intorno al cuore
08-10-2023, 03:10miti, prostituzione, santiPermalink8 ottobre: Sante Pelagie di Antiochia, di Gerusalemme, facciamo anche di Tarso
Per carità, non voglio insegnarvi il mestiere, ma io avrei inserito il condannato a morte prima di accendere il fuoco. |
A volte è tutta una questione di nomi. Qualcuno decide che ti chiami in un modo, ad esempio Pelagia, e tempo un paio di secoli finisci sul calendario in un tal giorno, un giorno che non dice nulla della tua vita, ma è il giorno in cui hanno ucciso un'altra Pelagia e chi scrive i calendari le ha confuse, o semplicemente ha deciso che quello è il giorno in cui si festeggiano tutte le Pelagie e amen. Oggi appunto è il giorno delle tre Pelagie, anche se i lettori più sgamati ci aspettano già al varco per ricordarci che no, Pelagia di Tarso non si festeggia l'otto ottobre, bensì il 4 maggio. In effetti in Occidente è così, ma nei sinassari bizantini era ricordata anche lei nella data di oggi, come la piacente fidanzata del figlio di Diocleziano che convertendosi repentinamente al cristianesimo ne causa il suicidio; al che l'imperatore, divorato dalla rabbia, avrebbe dichiarato guerra a tutti i cristiani. Come ben sappiamo ne fu infatti il principale sterminatore: e lo sterminio sarebbe cominciato dalla stessa Pelagia di Tarso, che Diocleziano avrebbe fatta chiudere in un toro di Falaride. Cosa sia il toro di Falaride non devo certo spiegarlo a voi, egregi lettori ed ex studenti dei licei che il mondo intero ci invidia – fermi lì, non googlate, stavo scherzando, ve lo racconto in breve: è un leggendario strumento di supplizio, una delle idee più orrorifiche che ci siano arrivate dai cronisti antichi, tale da aver impressionato lo stesso Dante che lo menziona nell'Inferno. Ne parla per primo Diodoro Siculo: Falaride è il tiranno di Agrigento a cui l'inventore Perillo o Perileo sottopone il progetto di questo grande toro di bronzo in cui inserire i condannati a morte per arrostirli. Perileo ha pensato a tutto, compreso un sistema interno di amplificatori per trasformare le grida dei suppliziati nei versi di un toro, e un incensiere per evitare che l'odore di barbecue diventi eccessivamente acre. Falaride sembra intrigato dall'idea e dà a Perillo il via libera per costruirlo, ma quando il toro è pronto ordina che sia lo stesso Perillo a entrarci per il collaudo. Al termine del supplizio, disgustato da tanta crudeltà, fa gettare il toro in mare: ma ormai è troppo tardi, l'idea del toro ci è rimasta in testa e se ne resterà per sempre in qualche angolo, tra le storie d'orrore che non riusciamo dimenticare. Da quell'angolo la deve avere ripescata l'anonimo autore della passione di Pelagia di Tarso, per terminare una leggenda che sembra voler mettere assieme frammenti delle altre due Pelagie che si festeggiano oggi: una vergine suicida e una ballerina pentita.
Petronio, un patrono insoddisfacente
03-10-2023, 17:45Bologna, santiPermalinkOh ma vi sembra una roba da mostrare ai turisti, ma ripigliatevi. |
Si sa che alle ossa di un santo possono capitare le cose più strane, ad esempio quelle di San Petronio furono testate come parafulmine: siccome la Torre degli Asinelli sembrava particolarmente bersagliata dalle scariche elettriche del cielo – il che poteva riflettere una certa insofferenza di Nostro Signore per la città universitaria – i bolognesi provarono a mettere un po' di resti di Petronio in cima alla torre, sperando che Domineddio avrebbe usato da quel momento in poi un po' più di riguardo. Sì, se uno ci riflette non ha senso neanche dal punto di vista di un credente, cioè se Domineddio è arrabbiato con una città, mica gliela fate passare con le reliquie – però oh, ci hanno provato, i bolognesi con l'elettricità non lasciano nulla di intentato, le rane di Galvani ne sanno qualcosa.
Questo è un "videomapping" e forse ci fornisce una chiave: se i bolognesi la finissero, dovrebbero poi ammettere che non è la più bella, che in giro ce n'è di migliori. |
Qualche volenteroso scrittore senza troppe preoccupazioni per le fonti, a Bologna non ne mancano, ne scrive un'agiografia che lo rende il rifondatore della città: cognato dell'imperatore Teodosio, nominato vescovo di Bologna da papa Celestino, Petronio avrebbe trovato la città distrutta dalle invasioni barbariche e si sarebbe dedicato alla sua ricostruzione; non solo edificando Santo Stefano come "Santa Gerusalemme", sul modello del Santo Sepolcro, ma ampliando le mura e ottenendo dal cognato imperatore una larga autonomia amministrativa e addirittura il permesso per costituire uno Studium, cioè l'università – insomma non era ancora il Milleduecento e già i bolognesi smaniavano di sostenere che la loro università fosse la più antica del mondo.
Il modellino di Arriguzzi, ovvero come se l'immaginavano nel Cinquecento (quando comunque non avevano i soldi per finire il pezzo già costruito). |
Il giorno degli arcangeli
29-09-2023, 01:03repliche, santiPermalink[2013]. Neanche troppo tempo fa, il 29 settembre si festeggiava soltanto Michele Arcangelo, il primo vero supereroe, con le sue ali bianche e la sua lancia sempre conficcata in qualche drago: è l’anniversario della dedicazione del suo più famoso santuario, nel 493 (anche se più probabilmente è di epoca longobarda), a Monte Sant’Angelo in provincia di Foggia. I due colleghi, Gabriele e Raffaele, che nessun passo della Bibbia qualifica come “arcangeli”, avevano entrambi il loro giorno dedicato, rispettivamente 24 marzo e 24 ottobre. A riunire i festeggiamenti in un giorno solo ha provveduto il Concilio Vaticano II. Cordova, città particolarmente devota a Raffaele (dopo essere stata la capitale europea dell’Islam), continua a festeggiarlo in ottobre. Un accorpamento del genere, in mancanza di altre ragioni pratiche o economiche, tradisce un certo fastidio dei teologi. Chi sono questi angeli? Da dove vengono? Cosa pretendono? Le scritture ne parlano pochissimo. Meglio diffidare. Non è un atteggiamento particolarmente moderno: l’insofferenza dei cristiani per l’angelologia è antica quanto il cristianesimo, visto che già il suo fondatore, Paolo di Tarso, metteva in guardia i colossesi dal “compiacersi in pratiche di poco conto e nella venerazione di angeli”.
Le generazioni seguenti dovettero probabilmente scegliere tra due categorie di personaggi venerabili: i martiri o gli angeli. Scegliere gli angeli significava immancabilmente offrirsi alle derive gnostiche che circolavano liberamente in quei secolo, un tripudio sincretico e new age di personaggi alati associati ovviamente al giorno della settimana, al segno zodiacale, al punto cardinale, al tuo umore, e domani incontrerai qualcuno e dovrai fare una scelta importante. Venerare i martiri significava la guerra a tutti i paganesimi: c’è un solo Dio e vale la pena di morire per testimoniarlo. Vinsero evidentemente i più estremisti, ma gli angeli non scomparirono del tutto. Ogni tanto ritornano, sembra che i fedeli non ne possano fare a meno. Certo, nei quadri le ali fanno la differenza. I santi non ce le hanno, anche quando volano sembrano semplicemente sospesi in aria: vuoi mettere con un Michele che svolazza?
Ma chi è poi questo Michele? Il suo nome è a sua volta una domanda, dato che in ebraico suona più o meno “Chi come Dio?” La sua prima apparizione è in un testo biblico abbastanza tardo (II sec. aC), il Libro di Daniele, che gli ebrei non hanno nemmeno incluso nel canone della loro Bibbia – i cattolici sì, ma son di bocca buona. Qui è presentato come il luogotenente del Dio degli eserciti, il suo condottiero più fidato. Nello stesso testo esordisce anche Gabriele, “Dio è potente”. A lui la voce del Signore ordina di spiegare una visione al profeta. Sembra il classico intermediario tra la divinità e l’uomo, e la redazione in greco usa per definirlo il termine classico, ánghelos. Con la stessa funzione lo ritroviamo nel vangelo di Luca, nell’apparizione angelica più celebre: è lui a informare Maria della sua gravidanza. Michele torna invece in un passo dell’Apocalisse (un testo che ha molti debiti col libro di Daniele), sempre con funzioni di alto ufficiale dell’esercito divino: i quadri che lo raffigurano nell’atto di sconfiggere un drago-serpente traggono spunto da lì. E Raffaele? Di lui parla soltanto il libro di Tobia, un altro testo dell’Antico Testamento rigettato dal canone ebraico e recuperato in quello cristiano. Nel libro Raffaele (“Dio Guarisce”) fa da mezzano tra il giovane Tobia e la tenera Sara, una brava ebrea deportata con un piccolo problema: è posseduta da un demone, Asmodeo, che ammazza tutti i suoi mariti la prima notte di nozze. Raffaele sconfigge Asmodeo e cura la cecità del padre di Tobia, un novello Giobbe, tanto pio quanto sventurato. Di storie a lieto fine nella Bibbia non è che ce ne siano tantissime, d’amore poi; sicché la favoletta di Tobia e Raffaele diventa piuttosto popolare nel medioevo: ai giovani sposi viene proposto di praticare l’astinenza per le prime tre notti di nozze, dette le “notti di Tobia”. Raffaele viene invocato come guaritore, anche se in questo campo la concorrenza è presto agguerritissima. Questo è più o meno tutto quello che la Bibbia ci dice su Michele, Gabriele e Raffaele.
E la guerra con gli angeli ribelli? Lo scontro con Lucifero? I testi canonici non ne parlano: a far luce sulla vicenda è un libro apocrifo, attribuito al patriarca Enoch, considerato da quasi la totalità di ebrei e cristiani una patacca già nel primo secolo dC. Gli unici ad averlo incluso nella loro Bibbia sono gli etiopi, ed è nella lingua etiope che il testo ci è arrivato nella sua interezza. Se l’avesse veramente scritto Enoch, settimo discendente di Adamo, bisnonno di Noè, sarebbe il libro più antico della storia: invece è probabilmente stato redatto nel primo secolo avanti Cristo. Il libro contiene i nomi di ben sette arcangeli (Uriele, Raffaele, Raguele, Michele, Sarcaele, Gabriele, Remiele); e del resto Raffaele a Tobia si era presentato come “uno dei sette angeli ammessi alla presenza della maestà del Signore”. A questo punto ogni giorno della settimana e ogni pianeta conosciuto poteva avere il suo arcangelo di riferimento – e tuttavia i vescovi diffidano. Non è che mettano in dubbio l’idea di uno scontro preistorico tra demoni e angeli, ma rigettano il racconto di Enoch e decidono di omologare soltanto i tre nomi attestati nella tradizione biblica. Nel 380 il concilio di Laodicea censura l’invocazione degli angeli come “segreta idolatria”. I barbari però vanno matti per Michele (i longobardi specialmente), un angelo guerriero nel quale è forse più facile per loro riconoscersi. Nel 745 papa Zaccaria scopre che a Magdeburgo un vescovo invoca nomi angelici non consentiti: getta l’anatema e mette per iscritto il divieto di invocare angeli o arcangeli che non siano Michele, Gabriele e Raffaele. Ma poi passano i secoli e nel 1516, alla vigilia della riforma protestante, avviene un ritrovamento straordinario. Due canonici della cattedrale di Palermo, Antonio Lo Duca e Tommaso Belloroso, notano nella piccola chiesetta di Sant’Angelo le tracce di un affresco antichissimo. Tra gli episodi biblici, c’è anche una foto di gruppo del pool angelico:
È un vecchio affresco di epoca bizantina, segno che la venerazione dei Sette Arcangeli aveva resistito a qualche divieto. A sette secoli di distanza, invece, Lo Duca non sa nemmeno che nominarli è proibito. Anzi, il ritrovamento di questi nomi misteriosi getta i semi di una renaissance angelologica, proprio nel momento storico meno adatto: Lutero sta per mettere in questione la venerazione dei santi, figurarsi quella degli angeli. A Palermo però nasce una “confraternita dei sette angeli” a cui si affretta a iscriversi pure Carlo V imperatore; Lo Duca si mette a girare in lungo e in largo per diffondere i nomi angelici e raccogliere i fondi necessari all’erezione di una cattedrale angelica. A Roma, dove è passato a servizio di un cardinale, scartabella finché non trova in qualche antico libro una conferma: i quattro arcangeli misteriosi si chiamano Uriele (“Dio infiamma”), Barachiele (“benedizione di Dio”), Geudiele (“lode di Dio”), Sealtiele o Salatiele (“Dio comunica”). In effetti ne parlava anche lo Pseudodionigi, non esattamente un manoscritto perduto. E tuttavia i soldi per la cattedrale non si trovano; i papi hanno già il loro daffare a finire quella enorme in Vaticano. Vendere indulgenze non è bastato, anzi ha fatto protestare i tedeschi e ha lacerato per sempre la cristianità. A un certo punto Lo Duca (che a Roma chiamano Del Duca) ha un’illuminazione, non in senso figurato: una visione luminosa che gli ordina di dedicare agli arcangeli i ruderi delle terme di Diocleziano, dove i Sette avrebbero assistito sette martiri. È un’ottima idea, anche abbastanza economica, perché le Terme sono ancora in piedi e prima o poi si sarebbe dovuto decidere cosa farne, restaurarle o buttarle giù. Farne una chiesa è il modo migliore per conservarle, vedi quel che successe al Colosseo che finché non fu dedicato ai martiri rimase una rovina. Del Duca però dovrà aspettare parecchio prima di trovare un papa interessato al progetto: Paolo III era scettico, Giulio III addirittura adibì le vecchie terme a maneggio per i cavalli dei nipoti. Alla fine Pio IV diede il beneplacito, e Paolo IV assegnò il restauro all’archistar per eccellenza, Michelangelo Buonarroti.
La basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri sta in piazza della Repubblica, se siete mai venuti a Roma per un corteo ci siete passati davanti di sicuro. Si era ormai in piena Controriforma: riscoprire i nomi degli angeli e degli arcangeli e di altre misteriose entità intermediarie era un modo di reagire alle teologie protestanti che negavano la necessità di qualsiasi intermediario tra Dio e il fedele, sacerdoti compresi. Eppure i sette arcangeli, malgrado gli sforzi di Del Duca e degli altri devoti, non diventeranno mai mainstream. Uriele, il portatore di fuoco, avrà una certa fortuna letteraria: Milton lo adopererà nel Paradiso Perduto. Gli altri tre ricadranno immediatamente nel dimenticatoio, anche per via di quei nomi così brutti. Dal Seicento in poi la venerazione per gli arcangeli sarà progressivamente assorbita da quella, più ortodossa, per l’angelo custode: i tre più famosi continueranno a essere venerati nelle città a loro dedicate, e a conservare un giorno tutto loro sul calendario, fino alla stretta del Vaticano II. In seguito Giovanni Paolo II ha gelato ulteriormente gli angelologi, facendo sapere via decreto che “è illecito insegnare e utilizzare nozioni sugli angeli e sugli arcangeli, sui loro nomi personali e sulle loro funzioni particolari, al di fuori di ciò che trova diretto riscontro nella Sacra Scrittura; conseguentemente è proibita ogni forma di consacrazione agli angeli ed ogni altra pratica diversa dalle consuetudini del culto ufficiale”. Erano già gli anni Novanta, l’esigenza di smarcarsi dallo stucchevole immaginario new age era molto sentita. L’avverto io stesso, nel giorno in cui mi decido a scrivere un pezzo sugli angeli e mi rendo conto che proprio non è cosa, cioè ci sono santi simpatici e santi antipatici, ma gli angeli io proprio non li soffro. Quel che è affascinante del cristianesimo è l’essere una religione di uomini e donne, vergini e martiri, peccatori che inciampano e a volte per miracolo sembra s’alzino in volo. Invece questi tizi, questi primi della classe creati senza peccato originale e con le ali di serie, sembrano usciti da un romanzo fantasy, nel quale peraltro recitavano la parte dei bacchettoni: nel libro di Enoch gli angeli ribelli intendevano fornicare con le femmine umane, in ciò consisteva la ribellione. Gli angeli invece non fornicano, perché dovrebbero? Non ne hanno bisogno, sono eterni. Ma simpatici, no. A me almeno.
Due chirurghi in paradiso
26-09-2023, 01:16finché c'è salute, santiPermalink26 settembre: Santi Cosma e Damiano (III secolo), guaritori gratis
Pio, l'uomo che sanguina
23-09-2023, 17:20repliche, santiPermalinkCattelan, non sei nessuno |
"Motivo di tranquillità spirituale per me, e grazia e privilegio inestimabile è il sentirmi personalmente puro da questa contaminazione che da ben 40 anni circa ha intaccato centinaia di migliaia di anime istupidite e sconvolte in proporzioni inverosimili".Quella bobina fu una nuova fonte di guai per padre Pio di Pietrelcina, al secolo Francesco Forgione, che aveva già passato i suoi brutti momenti durante i pontificati di Benedetto XV e Pio XI - quest'ultimo, in particolare, era stato a un passo dal sospenderlo dal sacerdozio e deportarlo in qualche convento lontano dalla sua claque. Ma questo avveniva nel Ventennio, quando l'umile servo di Dio si limitava ad amministrare i sacramenti e guarire qualche pellegrino (o gerarca) di passaggio, e non possedeva ancora la totalità delle azioni dell'ospedale più grande del meridione, una deroga generosamente concessa da Pio XII al suo voto di povertà. Il Padre Pio su cui indagherà nel 1960 il Sant'Uffizio è già un fenomeno mediatico, tenuto vivo dall'attenzione costante dei rotocalchi, che il Vaticano non riesce più a manovrare.
L'ispezione sollecitata da Giovanni XXIII farà luce su molti aspetti discutibili dell'organizzazione che si era stretta intorno al frate, ma non svelerà nessun "immenso inganno", come pure il Papa si era augurato. Del resto a quel punto il cappuccino andava per i 75, sanguinava ininterrottamente da quaranta, e per immaginarlo mentre si intratteneva carnalmente con le sue beghine preferite ci voleva la fantasia morbosa ma un po' astratta di un alto prelato. Qualche mese dopo, un colloquio con l'arcivescovo di Manfredonia (la diocesi di cui fa parte San Giovanni Rotondo) avrebbe rasserenato l'animo del pontefice:
“Don Andrea, sono i suoi fratelli che l’accusano. E poi… quelle donne, quelle registrazioni… Hanno perfino inciso i baci”. Poi il Santo Padre tacque per l’angustia e il turbamento. Monsignor Cesarano, con un fremito che gli attraversava l’anima e il corpo, tentò di spiegare: “Per carità, non si tratta di baci peccaminosi. Posso spiegarti cosa succede quando accompagno mia sorella da Padre Pio?” “Dimmi”. E monsignor Cesarano raccontò al Santo Padre che quando sua sorella incontrava Padre Pio e riusciva a prendergli la mano, gliela baciava e ribaciava, tenendola ben stretta, malgrado le vive rimostranze nel timore di sentire un ulteriore male per via delle stigmate. Il buon Papa Giovanni alzò lo sguardo al cielo ed esclamò: “Sia lodato Dio! Che conforto che mi hai dato. Che sollievo!Questo episodio, raccontato da un confratello di Padre Pio, ha il profumo e la consistenza di una storiella nata tra la canonica e la sacrestia, gli unici ambienti dove suona ancora un po' credibile scambiare il rumore di un baciamano per quello di un rapporto sessuale completo. D'altro canto qualcuno doveva pure raccontarla: qualcuno prima o poi doveva trovare un lieto fine per quella storia inquietante che metteva il Papa Buono contro il più venerato santo italiano del Novecento. Più probabilmente Roncalli si portò i suoi dubbi nella tomba monumentale che lo aspettava di lì a tre anni; il suo successore, Paolo VI, aveva di Padre Pio un ben diverso concetto. Non solo lo aveva conosciuto, ma era stato uno degli artefici della fortuna di San Giovanni Rotondo, quando al termine della guerra era riuscito a dirottare sull'erigenda Casa sollievo della sofferenza una somma ingente stanziata dagli USA per le emergenze sanitarie del dopoguerra. Con lui in Vaticano, Pio da Petrelcina poté vivere i suoi ultimi anni sulla terra in relativa serenità. Verso la fine le stimmate sembrarono progressivamente sparire, tanto che in punto di morte non se ne vedevano nemmeno le cicatrici. Cionondimeno il cadavere fu esposto coi guanti, per evitare malintesi o speculazioni.
Forse Padre Pio ha sofferto per tutta la vita. Le sue incredibili ipertermie (fino ai 48°), che facevano impazzire i termometri degli ospedali, dovevano plausibilmente causargli deliri e allucinazioni, che la fantasia di un ragazzo cresciuto tra la campagna e il convento non poteva che popolare con gli elementi del suo scarno paesaggio simbolico: madonne e chiodi, ferite e angeli. Forse davvero nell’agosto del 1918 il fraticello un po’ renitente alla leva vide un angelo che lo trafisse e lo trasverberò, colmandolo di vergogna. Le piaghe a mani, piedi e costato avrebbe potuto benissimo procurarsele in un delirio, questo lo ammettono anche i suoi più accaniti detrattori. In seguito il carrozzone miracolistico che gli era cresciuto spontaneo intorno, senza che lui avesse i mezzi intellettuali per ostacolarlo, lo avrebbe in un qualche modo costretto a mantenere aperte quelle ferite di cui lui stesso fraintendeva l’origine: da cui la necessità di approvvigionarsi di acido fenico o di veratrina, mediante biglietti clandestini che comunque il Vaticano aveva intercettato già nei primi anni Venti. E anche di questo inganno, ormai necessario per evitare non solo la propria rovina, ma uno scandalo mondiale per la Chiesa, forse Padre Pio ha intimamente sofferto per quarant’anni, mentre pellegrini da due continenti facevano la coda per baciare le sue piaghe.
Forse Padre Pio era un po’ ottuso. È la conclusione implicita di molti osservatori scesi apposta a San Giovanni per conoscerlo. Nessuno, nemmeno il più scettico, avanza dubbi seri sulla condotta irreprensibile del frate (ci sarebbero volute le cimici del 1960, un tentativo abbastanza patetico, vista l’età ormai avanzata). Ma quasi tutti lasciano intendere che egli si ritrovasse succube di qualcosa molto più grande di lui. Per padre Agostino Gemelli, il poliedrico intellettuale di lì a poco fondatore e rettore della Cattolica, si trattava di “un uomo a ristretto campo della coscienza, abbassamento della tensione psichica, ideazione monotona, abulia”, insomma un isterico da manuale (e Gemelli aveva appena scritto un manuale sui soldati che cercavano di evitare il fronte della Grande Guerra mediante fenomeni di autolesionismo). Anche i meglio disposti non possono non notare il ruvido accento, il latino zoppicante con cui continuò a dir messa anche dopo il Concilio (un’altra deroga, di Paolo VI), la sua incurante ignoranza delle cose del mondo. Forse davvero Padre Pio non era bene in grado di capire cosa gli stava succedendo intorno.
Ma c’è anche l’ipotesi inversa: che questo fraticello ignorante fosse molto più astuto di tutti i suoi ispettori. Abbastanza furbo da sopravvivere a due guerre mondiali e a cinque papi, tre dei quali indagarono su di lui decisi a spostarlo da San Giovanni (e non ci riuscirono); in grado di resistere per tutta la vita all’attenzione asfissiante di un entourage di maneggioni che lo trascinò in qualche affare sballato e fallimentare, senza scalfirne la reputazione; capace di uscire candido come una rosa dal disastro del fascismo, a cui benedì i gagliardetti finché gli convenne. In mezzo a tutto questo, Padre Pio riuscì a intestarsi uno degli ospedali più grandi del mezzogiorno, parecchi anni prima che anche la sua nemesi, Padre Gemelli, avesse il suo. Una bella rivincita sul vecchio positivista che era sceso nella sua tana pretendendo di misurarne il “campo della coscienza”. Se mai nei primi anni gli fosse sfuggita (come assicura il suo biografo più zelante e maneggione, Emanuele Brunatto) qualche parola critica nei confronti della Chiesa, Pio fu abbastanza astuto da nasconderla, anche prima che il Vaticano si comprasse l’intera tiratura del volume di Brunatto; di modo che non esiste oggi, in un infinito corpus di agiografie, più che un accenno al pensiero del Santo. Così che sembra quasi che Pio non avesse un pensiero, che non parlasse. Senz’altro non era per ascoltarlo che milioni di persone arrivavano lì. Pio, più che parlare, ascoltava. Il suo mestiere quotidiano era sedersi nel confessionale e ascoltare le suppliche di centinaia di persone al giorno. Il miracolo non sarebbe consistito tanto nel riuscire a esaudirne qualcuno, ma nel capirli tutti.
Non so perché, ma ci vedrei bene un monomarca Cavalli.
Padre Pio viene spesso accostato a Teresa di Calcutta, non solo in quanto esponente di una santità postmoderna che ha avuto il suo instancabile propagatore in Giovanni Paolo II; più spesso si tratta di un accostamento di icone, sulla stessa parete o mensola della cucina. In comune i due santi hanno il paesaggio di origine, lo scabro retroterra mediterraneo; una povertà praticata per tutta la vita, e poco altro. Teresa carambolò per il mondo su aerei a reazione, propagandando il suo francescanesimo radicale, abbracciando lebbrosi senza mai tentare di guarirne uno. Pio non propagò nessun particolare messaggio; non si spostò mai dal suo piccolo convento, ma lentamente riuscì a costruirci di fianco un enorme ospedale a regola d’arte. Ma la sua cella rimase la stessa: non gli si può imputare la deriva speculativa di San Giovanni, il flop degli alberghi (ce ne sono troppi, per un’utenza di pellegrini che preferisce il mordi-e-fuggi e raramente si ferma la notte), la chiesa gigante di Renzo Piano, con la sua cripta placcata d’oro per la quale gli storici dell’arte del futuro dovranno forse coniare una nuova categoria, l’Arte Tamarra. I cattolici, anche quelli più progressisti di Pio da Petrelcina, credono nella resurrezione dei corpi. Devono dunque presupporre che Pio si sveglierà intravedendo, oltre la maschera in silicone che ne protegge il corpo in momentanea putrefazione, il più farlocco dei cieli dorati. Avrà nuove mani per alzarle al cielo, nuovi piedi per inseguire i suoi confratelli e prenderli a calci nei secoli dei secoli, nuove orecchie per non ascoltare le loro ragioni: in fondo è solo una leggerissima foglia d’oro, ottenuta dalla fusione di tutti gli ex voto che non si sapeva più dove appendere e tutti assieme erano veramente brutti e inquietanti da guardare. E tuttavia era oro, aveva un prezzo, si poteva vendere e reinvestire in flebo, cateteri, siringhe monouso, in sollievo dalla sofferenza. Teresa nei suoi lazzaretti non accettava ascensori e frigoriferi. Francesco “Pio” Forgione mi riesce, malgrado tutto l’arredo barocco, più umano e simpatico. Ma forse è un problema mio.
Fàmola postmoderna.
Io credo nella corruzione dei corpi, li vedo ogni giorno disfarsi e soffrire, e ogni giorno passa nella fatica di distogliere lo sguardo. Una vita come la visse padre Pio, tutta trascorsa seduta davanti allo spettacolo del dolore e alla sofferenza, mi sembra l’inferno in terra. Non escludo che possa essere stato un imbroglione, un guitto di provincia. Non è affatto inverosimile che le tecniche simulatorie adottate durante la Grande Guerra per evitare il fronte lo abbiano aiutato a costruirsi l’immagine di santo stigmatizzato che poi è riuscito a rivendere per quarant’anni a un pubblico sempre più moderno e sempre più arcaico. Questo dovrebbe spingermi a un giudizio morale molto netto, ma non sono un giudice che giudica, e men che meno un prete che assolve. Sono una persona mediamente onesta, che senza aver fatto nulla di straordinariamente cattivo nella vita, non ha nemmeno fatto nulla di particolarmente buono. Non posso non riconoscere che coi suoi trucchi da fureria e da baraccone, coi suoi maneggi non necessariamente puliti, padre Pio ha fatto infinitamente di più per l’umanità – se l’umanità consiste nella sofferenza, nella comprensione della sofferenza, nel tentativo disperato e caparbio di ridurla, anche solo un malato alla volta, una stilla di sangue alla volta, un posto letto alla volta, in questa impresa padre Pio ci ha messo la vita e non si è fermato di fronte a nulla. Senza moralismi il più delle volte utili solo a distogliere lo sguardo; senza troppi discorsi in generale. A un santo non saprei veramente che altro chiedere.
Roberto, inquisitore e gentiluomo
17-09-2023, 02:35Chiesa, repliche, santiPermalink[2013] Gli anglicani, lo abbiamo visto, festeggiano San Thomas More, che fu decapitato per non aver accettato lo scisma anglicano. È un po’ come se i cattolici il 17 febbraio festeggiassero Giordano Bruno. Non lo fanno, non sono altrettanto sportivi. Invece il 17 settembre festeggiano San Roberto Bellarmino, il suo più celebre inquisitore. E tuttavia.
E tuttavia le cose non sono così semplici – le cose non sono mai semplici. Quando viene coinvolto dal lungo processo a Bruno, Bellarmino ha 55 anni e non ha decisamente il profilo del tetro cacciatore di streghe che ci piacerebbe assegnargli. È uno dei pochi che ha la formazione culturale necessaria per leggere davvero gli astrusi libri di Bruno e capire se in tanta torrenziale produzione di parole ci sia qualcosa di eretico o no. In fondo il filosofo e il suo inquisitore si somigliano. Sono nati entrambi negli anni Quaranta, mentre il concilio di Trento muoveva i primi passi. Sono entrambi studenti brillanti e precoci: Bruno presso gli odiati domenicani (di cui si metterà e si toglierà l’abito a seconda della situazione), Roberto coi gesuiti. Sono due viaggiatori in un secolo sedentario: Bruno schizza per l’Europa alla ricerca di una cattedra sicura, riuscendo a farsi interdire dai pastori di tutte le confessioni religiose possibili. Roberto comincia la sua carriera di predicatore anti-protestante, “martello degli eretici”, a Gand (oggi Belgio), terra di frontiera. Sono due grafomani, proprio nel momento in cui scrivere libri in Italia diventa davvero pericoloso; e prima che finisse nei guai, anche Roberto aveva rischiato.
Era successo nel 1590. Roberto si trovava in missione nella Francia sconvolta dalla guerra di religione. Lo avvertono di non sbrigarsi a tornare a Roma: l’amato Papa Sisto V sta valutando la possibilità di mettere all’Indice dei Libri Proibiti il suo best seller, avrete indovinato, le Disputationes de controversiis christianae fidei adversus hujus temporis haereticos. Ma come? Lo stesso Sisto non aveva tanto gradito la dedica dell’opera monumentale, una sorta di enciclopedia ragionata di tutte le eresie possibili, classificate senza troppo furore polemico? Sì, ma si vede che in seguito oltre ad apprezzare si era pure messo a leggere; trovando riferimenti al potere temporale del pontefice che non gli erano piaciuti. Bellarmino si era arrischiato a definire questo potere come “indiretto”, e tanto gli bastava per finire in disgrazia. A salvarlo fu una vera e propria moria di papi, che tra il 1590 e il 1592 falciò Sisto V e i suoi tre immediati successori (Urbano VII, dopo soli 13 giorni; Gregorio XIV, Innocenzo IX). Al termine di questo conclave permanente forse nessuno si ricordava più del caso Bellarmino, e all’orizzonte c’erano ben altre gatte da pelare. Prima di morire Sisto V – uno dei pontefici più risoluti e decisionisti della Storia – aveva voluto licenziare le bozze della nuova versione della Vulgata, la Bibbia in latino. Peccato che fossero piene di errori. In seguito una commissione aveva provveduto a correggere, ma ormai la versione vecchia era stata stampata, e ritirarla sarebbe stato imbarazzante: significava ammettere che un Papa si era sbagliato. Fu il gesuita Roberto Bellarmino a trovare una soluzione abbastanza elegante: anche la nuova versione sarebbe stata attribuita a Sisto. Una prefazione avrebbe spiegato che la decisione di pubblicare una nuova versione riveduta e corretta era stata presa dallo stesso papa che aveva fatto pubblicare la versione piena di errori. Questa era quasi una bugia: chi avrebbe avuto la faccia tosta e l’autorevolezza per firmare una prefazione del genere? Roberto Bellarmino, ovviamente, intellettuale di respiro europeo, stimato anche dagli avversari protestanti. Con Clemente VII, Bellarmino divenne rettore del Collegio romano. Lo zuccotto da cardinale stava per arrivare. In mezzo però ci fu il penoso caso di Bruno.
Quando lo incontrò, il filosofo aveva cinquant’anni ed era recluso da sei. L’opinione più condivisa è che Bellarmino avrebbe preferito salvarlo: questo fa un po’ a pugni con lo sviluppo del processo, in cui Bruno fino a un certo punto sembra orientato a salvarsi la pelle abiurando a qualsiasi cosa, salvo impuntarsi in un secondo momento, e ritrattare ogni abiura. In realtà non è affatto chiaro come andarono le cose (degli atti non restano che i sommari); non sappiamo nemmeno se fu torturato o no. Ciò che è sicuro è l’esito del processo, che andò ancora per le lunghe e si concluse nel 1600 con un rogo in Campo de’ Fiori. In seguito Giovanni Paolo II se ne è rammaricato: quattrocento anni dopo, meglio tardi che ancora più tardi.
In quel primo processo bisogna ammettere che la Chiesa non ci fa una figura così pessima, anche grazie a Bellarmino: è vero, la teoria eliocentrica viene per la prima volta definita come eresia, in quanto esplicitamente negata dalle Scritture; tuttavia è ancora ammissibile parlarne come di un’ipotesi matematica: il vecchio trucco che aveva permesso a Copernico di pubblicare la sua teoria senza incorrere in nessuna condanna. Mentre Galileo pretendeva di fornire delle dimostrazioni, delle prove, di un presunto moto della terra intorno al sole: Copernico si era limitato a far notare che, in teoria, se la terra girasse intorno al sole, i calcoli verrebbero meglio.
“Perché il dire, che supposto che la Terra si muova e il Sole sia fermo si salvano tutte le apparenze meglio che con porre gli eccentrici et epicicli, è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathematico: ma volere affermare che realmente il Sole stia nel centro del mondo e solo si rivolti in sé stesso senza correre dall’oriente all’occidente, e che la Terra stia nel terzo cielo e giri con somma velocità intorno al Sole, è cosa molto pericolosa non solo d’irritare i filosofi e theologici scolastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante”.Così Bellarmino a un fiancheggiatore di Galilei, Paolo Antonio Foscarini. E se si trovassero le prove che la terra si muove? In quel caso, sostiene il gesuita, “bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo”. Ma questo appunto era quello che Galileo pretendeva di fare, e che lo avrebbe messo davvero nei guai: spiegare la Bibbia ai preti. Bellarmino prova la manovra opposta: impartisce agli scienziati copernicani una lezione di metodo. Dite che la terra gira? Ipotesi interessante, ma… avete le prove? Dov’è la vostra “dimostratione”?
“Ma io non crederò che ci sia tal dimostratione, fin che non mi sia mostrata: né è l’istesso dimostrare che supposto ch’il sole stia nel centro e la terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il sole stia nel centro e la terra nel cielo; perché la prima dimostratione credo che ci possa essere, ma della seconda ho grandissimo dubbio, et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa esposta da’ Santi Padri”.Galilei si arrende (non che abbia già molte alternative): insegnerà l’eliocentrismo solo come una teoria. È abbastanza avveduto da farsi firmare dallo stesso Bellarmino una dichiarazione, dove è messo nero su bianco che non ha pronunciato nessuna abiura e non gli è stata impartita nessuna penitenza. Si è trattato di un semplice richiamo, un cartellino giallo: ricordati che ai tuoi allievi stai raccontando una teoria, non la verità. È più o meno quello che i bellarmini di oggi vorrebbero ricordare agli insegnanti: mi raccomando, quella di Darwin è pur sempre una teoria, finché non trovare una prova… già, ma cos’è una prova? Quanti anelli mancanti servono a dimostrare che i nostri progenitori vivevano sugli alberi? E che tipo di prove sarebbero servite a Galilei? Lui nel ’16 era convinto di averle già: osservazioni sulle maree; oggi sappiamo che almeno su quello si sbagliava, le maree non sono causate dalla rivoluzione intorno al sole. E quindi? Aveva ragione Bellarmino?
Più prudente di Bruno, Galilei era comunque incapace di darla vinta al relativismo. Presto o tardi si sarebbe rimesso nei guai. Ci mise altri quindici anni, e nel mezzo ci mise il Saggiatore e il Dialogo sopra i massimi sistemi. Quando alla fine si consegnò all’Inquisizione, gli misero sotto il naso un foglio firmato dal cardinale Bellarmino, in cui allo scienziato veniva formalmente intimato di non insegnare più l’eliocentrismo: era un falso, la lettera originale diceva ben altro – ma Bellarmino non era più vivo per smentire. Se n’era andato nel 1621.
Per farlo santo ci vollero tre secoli. I suoi devoti, soprattutto a Capua, ci tenevano molto: aveva lasciato un buon ricordo. Ma anche tantissime dispute per iscritto, e in fondo è statistico: più scrivi più alte sono le possibilità di pestare i piedi a qualcuno che ti sopravvive. La sua concezione del potere temporale della Chiesa, che già a Sisto V non piaceva, in seguito fu considerata troppo filo-papale. Alla fine diventò beato nel 1923, santo nel 1930, dottore della Chiesa nel 1931. Ma Galileo nel frattempo era stato proclamato l’iniziatore della scienza moderna, e Bruno il martire della libertà di pensiero. Bellarmino rimarrà alla storia come l’inquisitore che invece di torturarli preferiva farli ragionare. Il poliziotto buono, che a un certo punto entra in cella, ti offre una sigaretta e la sua solidarietà: eddai, Giordano, che te ne frega della pluralità dei mondi, ce ne sarà pure uno in cui bruci come uno stregone, ma perché dev’essere proprio questo? Sputa sui tuoi libri, puoi sempre scriverne altri. Eddai Galileo, questa storia della terra e del sole… ma sei sicuro? Come fai a sapere di essere sicuro? Come posso crederti? Mettiti nei miei panni: come faccio? Cosa puoi aver visto con un tubo e due lenti? È solo una teoria, ce ne sono tante, magari la tua è più elegante, te lo concedo, ma perché ci vuoi impedire di credere nelle nostre? Vuoi farlo tu il padreterno? Vuoi condannarci tu? San Roberto Bellarmino è patrono di Capua, di Cincinnati (Ohio), e di tutti gli inquisitori che ti lasciano intendere che in fondo ci credono meno di te.
Uno sguardo ardito e fiero che rincorre l'Aldilà
09-09-2023, 12:011977, anniversari, musica, Ottanta, replichePermalinkMa sul serio ti prendevamo sul serio? |
[2013] Giovanni Lindo Ferretti prende forse il nome da San Giovanni, che come lui perse la testa, o dall'Evangelista, che invecchiando appartato scrisse di rivelazioni e apocalissi con l'aria di chi la sa lunga e invece magari bastava variare il dosaggio; da Lindo, ovvero "pulito", perché seppe ripulirsi di tanta rumorosa malvagità diffusa negli anni della perdizione; e dai Ferri di cavallo, che lo sostennero nei terreni impervi quando più facile era ricadere nelle paludosi valli della concupiscenza.
GLF nacque, se Wikipedia non tira i pacchi, a Cerreto, in culo ai lupi, nel decennale del primo giorno della Resistenza antifascista; e fu buon figliolo e chierichetto e spesso deliziava i parrocchiani cantando gli inni a maggior gloria di Dio eccetera. Crescendo nell'appennino reggiano fu avviato sin dalla più tenera età alla professione maggiormente richiesta in quelle terre benedette da Dio, ovvero l'operatore psichiatrico, cioè psico-socio-assistenziale, cioè assisteva i matti in manicomio anche se non si può più chiamare manicomio e non è giusto chiamarli matti e però andateci voi sul Crinale, andateci, poi ditemi. Fu forse operando in quel settore strategico dell'economia reggiana che incrociò per la prima volta il demonio, che stese la sua ala sopra di lui e gli disse, Lindo, dam rèta, i matti che cerchi non sono qui, va' in stazione e prendi il primo treno per Berlino, amarcmand, Ovest. Lui obbedì ma in cuor suo temeva che una volta arrivato nell'avamposto della civiltà occidentale non si sarebbe trovato a suo agio per la mancanza di cavalli e l'inveterata tendenza dei nativi a parlare in tedesco. Ma non temere Lindo, gli disse il demonio, ti manderò un tizio che conosce il reggiano come te, puoi chiamarlo Zamboni, insieme passerete il Muro e scoprirete il fascino vintage dei colbacchi e della cartellonistica del socialismo reale con quindici anni di anticipo su tutti i potenziali competitors. Poi tornerete in Italia e trasferirete lo stesso tipo di ironia sull'Emilia oppressa dal giogo del Partito Comunista Più Grande d'Occidente. E così fu, e per anni GLF divenne il punto di riferimento di una generazione di sconquassati che non sempre andando a furiosa caccia di gomitate in mezzo alla pista percepivano l'ironia demoniaca di chi cantava Voglio rifugiarmi sotto il patto di Varsavia.
Fu forse lo stesso demonio a rendersene conto, nel mentre che l'Unione Sovietica liquidava il Comecon, e gli disse: Lindo, qui cominciano a mancare i punti di riferimento, basta pankeggiare contro tutti, qui tra un po' ci sarà fame di guru e tu hai la fisionomia giusta. Cosa devo quindi fare? Chiese GLF. Boh, rispose il demonio, prova a a prendere le cose più sul serio, riscopri i valori veri in cui crede la gente, che ne so, la Resistenza, la pace nel mondo, la natura incontaminata. "Posso metterci i cavalli?" chiese GLF. Va bene, perché no, se ci tieni, infilaci pure i cavalli, e il tramonto dell'Occidente. E mi raccomando, ieratico. "Cioè?"
"Eh, come faccio a spiegarti, hai presente Battiato quando ha cominciato a sedersi sul tappetino in mezzo al concerto?"
"Forte Battiato, posso metterci anche Battiato?"
"Certo, mi fa piacere se ti piace, è un altro mio cliente".
E fu così che GLF sempre più ieratico e assorbito da mistiche comunioni equine nelle luci crepuscolari dell’occidente in guerra sopravvisse al crollo del Muro, e un mattino d’agosto si svegliò e il suo disco era primo in classifica e Jovanotti voleva fare un tour con lui, perché lo sentiva profondamente affine e inoltre Madre Teresa gli aveva dato buca. Il suo gruppo poi si sbandò, ma ormai il marchio GLF poteva camminare sulle sue gambe: tutto andava per il meglio, dal punto di vista del demonio, quando finalmente il Signore si tolse i tappi dalle orecchie, percepì l’abominio e gli inviò un orribile male, che per qualche tempo lo tolse dalle scene. Ma quando i dottori lo guarirono, grande fu la sua riconoscenza nei confronti del Signore.
“No, aspetta”, dissero i medici. “Cosa c’entra il Signore? Ti abbiamo guarito noi”.
“Voi non siete che strumenti nelle Sue mani”.
“Ma vaffanculo, mai che succeda il contrario, fosse mai venuto uno oggettivamente guarito da Padre Pio a ringraziare noi dottori, no, sempre il contrario, noi salviamo la gente e Cristo passa all’incasso, ma che senso ha?”
“È un senso più grande di voi”.
Guarito così nel corpo e nell’anima, si fece eremita nei luoghi della sua infanzia, circondato dall’affetto dei suoi cavalli (il loro scalpitìo è l’unica musica che so apprezzare, confessava) e ogni tanto inviava a valle lettere accorate sullo sterminio degli embrioni e sul tramonto dei valori veri: motivo di scandalo e turbamento per tutti i vecchi panchettoni che avevano creduto in lui ai tempi in cui nemmeno lui credeva in sé stesso.
Di lui si ricordano diversi miracoli: i Marlene Kuntz in classifica, Mara Redeghieri che non stona per un disco intero e da Villa Minozzo diventa la voce di una generazione per quasi un quarto d’ora; e quella volta che invocando Benedetto XVI fece schiantare nella boscaglia una pala eolica che gli turbava la concentrazione: e agli ingegneri e ai “managers” sbigottiti che si domandavano: com’è possibile, dev’esser stato un inverno particolarmente rigido, diceva: ma che particolarmente e particolarmente, questo è l’Appennino, convertitevi e leggete Ratzinger:
l’inverno per sua natura può essere rigido e il vento furioso, saperlo è obbligatorio, invocarlo a propria discolpa equivale a reclamare doverosa punizione. Per la manifesta incapacità, l’incuria nel costruire, il risparmio sui materiali fino alla frode, posso solo rallegrarmi, avessero fatte le cose per bene sarebbe ancora lì e chissà per quanto. Più si incupisce il mondo tra crisi economica e inconsistenza politica, più risulta evidente che abbiamo costruito sulla sabbia e si persevera. L’ostentazione di buoni sentimenti e rettitudine morale non basta a penetrare un mistero che contempla il male, il dolore, la caducità dell’umano operare. D’altra parte chi lenisce la propria disillusione con cinismo ed arroganza non può cogliere quanto di bene, quanto di bellezza e meraviglia la vita offre, comunque, e per quanto possa considerarsi libero ed autosufficiente non fa che offrire il proprio legame al nulla, al senza senso; la religione del nichilismo.
E andava avanti così per cartelle e cartelle, fino a stancarsi lui per primo. GLF è patrono dei cavalli, dei punk, dei cavalli punk e dei cavalli islamici punk. Lo invocano gli atei devoti e i musicisti che non sanno suonare, insomma tutti quelli a cui serve faccia tosta e follia. Buon compleanno.