Verso Rephidim

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Gennaio è sempre il mese più duro, e il riscaldamento globale a quanto pare non aiuta. Mi rendo conto abbastanza tardi di aver cresciuto, negli anni della pandemia, un germoglio di speranza che le guerre degli ultimi mesi hanno seccato. In una situazione di emergenza avevo visto persone di ogni genere e fede approdare su un terreno comune: accettare che esisteva un problema e adottare le misure suggerite dalla comunità scientifica per contenerlo e risolverlo. Ho visto capi del governo grillini rinnegare i novax, ho visto liberali chiedere i vaccini obbligatori e gratuiti, ho visto Big Pharma concederli. Chi rifiutava tutto questo, rifiutava la realtà condivisa e quindi oggettiva. Non è che rimpiango gli anni della mascherina, ma l'oggettività sì, molto. 

Ora vivo in mondi separati come gli universi cinematici. Twitter, il tanto bistrattato Twitter, acquistato da un ereditiere sudafricano che appena glielo chiedono sospende gli account filopalestinesi, per paradosso e per la prima volta è diventato il posto che frequento più volentieri, come una piazza di gente che potrebbe essere caricata da un momento all'altro e proprio per questo non ha tempo da perdere. Si parla della Corte di giustizia dell'Aja, si depreca l'arroganza imperialista di chi bombarda lo Yemen (e intanto interrompe i rifornimenti all'Ucraina). Su Facebook invece sono tutti preoccupati perché la Cortellesi ha parlato di Biancaneve e a quanto pare ne ha parlato in termini irriguardosi (cinquantenni che piagnucolano Non Toglieteci le Fiabe), non lo so, non riesco a interessarmi al problema, sarà un problema mio? Sui quotidiani italiani, se vinco il fastidio di aprirli, trovo riferimenti all'orrore della guerra, ma datati ancora al sette ottobre dell'anno scorso che per carità, è stato un giorno terribile: non dico che sia passato molto tempo, ma sono morte altre ventimila persone (più di cento giornalisti) che sembrano non contare. 

Gennaio è il mese più difficile: mi ricorda che esiste un futuro e che non c'è un motivo razionale per immaginarlo migliore, se niente intorno a me sta migliorando. Gli osservatori che dopo il 7 ottobre si sono calcati l'elmetto in testa per non vedere un genocidio, quando se lo toglieranno? Più passa il tempo e più quell'elmetto diventa complicato da sollevare. È sempre il complesso di Enrico IV: possiamo dire che la fatica con cui si accetta la realtà è direttamente proporzionale al tempo che si perde prima di accettarla. Si arriva a un punto X in cui la fatica è troppa e l'elmetto non si stacca più: chi si è ingannato per troppo tempo non ha nessun motivo – nemmeno razionale – per ammetterlo. Valeva per la pandemia, per il riscaldamento globale, e vale per Gaza, una trappola che gli israeliani si sono costruiti da soli, e nella quale nel momento X hanno dovuto cadere perché l'alternativa era ammettere un errore troppo grande. 


Sono al mondo da abbastanza tempo da ricordare una situazione simile – vent'anni fa, il dibattito sull'invasione dell'Iraq polarizzò un'opinione che si poteva ancora definire "pubblica". L'Esportazione della democrazia e le Armi di distruzione di massa divennero dogmi di fede: chi non ci credeva, un terrorista. Se è già successo, significa che a un certo punto è finito; ecco, è interessante, nessuno si ricorda davvero quando è finito. Credo che il clima sia cambiato intorno alle elezioni di midterm del 2006, una data che nessuno definisce storica: i Democratici ottennero per breve tempo la maggioranza al Congresso, Bush Jr cadde in disgrazia, le guerre al terrore non cessarono ma scivolarono sotto altri titoli in prima pagina, insomma la tensione si attenuò. Un po' di osservatori ebbe il tempo e lo spazio per alzare l'elmetto nella speranza che non sarebbero stati presi a pietrate. Non furono presi a pietrate. Oggi nei libri c'è scritto che l'Iraq non nascondeva armi di distruzione di massa, e che l'esportazione della democrazia fu un pretesto. Più di un milione di vittime sono morte, la maggior parte irachene e invano, ma l'oggettività si è in qualche modo salvata. Si salverà anche stavolta? Vorrei dire di sì, ma guardo fuori ed è gennaio. 

E non c'è più tempo. Il punto X si avvicina, se non è già alle nostre spalle. Chi ha distrutto la Striscia non può essere perdonato dal mondo che l'ha portato alla sbarra all'Aja; ne può perdonare sé stesso. Non ha alternativa che continuare a credere in quello che sta facendo, e siccome quello che sta facendo somiglia molto a un genocidio, i suoi amici non hanno alternativa che proporre di eliminare il termine dalle conversazioni. La guerra continuerà – nessuno prevede che cessi nei prossimi mesi, e gli elmetti resteranno molto ben calcati sulle teste di molte persone troppo leste a infilarli. Netanyahu, in teoria molto criticato in patria per le sue responsabilità nella crisi, sembra più saldo che mai, ma se anche dovesse cadere non si capisce come qualcun altro al suo posto potrebbe trarre Israele dal pasticcio senza che si veda di cosa si è sporcato le mani, e quanto. Al punto che davvero, nei loro panni un'escalation con l'Iran comincerebbe a sembrarmi una soluzione. Dopodiché dovremmo tutti accettare che da qualche anno è scoppiato un conflitto di dimensioni mondiali, il terzo da quando abbiamo cominciato a contarli. È pazzesco ritrovarsi a sperare nei nervi saldi degli iraniani, o a simpatizzare per gli Houthi che con la loro piccola pirateria stanno dando una lezione di diritto internazionale a maestri arroganti e incapaci. 

Nel frattempo fa sempre più caldo, le elezioni americane di novembre somigliano per ora a un salto nel vuoto, in fondo al quale è molto difficile immaginare che la situazione si calmi, che gli elmetti comincino ad allentarsi. Non dico che non voglio sperarci, ma oggettivamente non capisco perché non dovrebbe andare peggio di qui ai prossimi mesi, e questo nel medio termine coinvolge anche me. Per quanto ancora mi sarà consentito scrivere cose su Israele che mi sembrano ragionevoli, ma che in parlamento non sono difese da nessun parlamentare, che ormai non si possono leggere più in nessun quotidiano serio (ritrovarsi a leggere il Fatto, per me, è pure peggio che sperare negli ayatollah). Se tutti intorno a me si stanno radicalizzando, suppongo che da fuori l'unico radicalizzato sembri io. E non sono neanche l'unico, ma per quanto tempo ancora sarò tollerato? Ho passato anni a scrivere su piattaforme che ora sono in balia di milionari capricciosi e ricattabili che possono cancellarmi con un clic. Cosa ci sarà scritto nei libri tra qualche anno: magari quelle cose brutte che si raccontavano nel medioevo sugli eretici? che la gente come me inneggiava allo stupro etnico e pasteggiava a bambini. Certo, non sarà più un mio problema. Il pensiero mi dà comunque fastidio – chiedo scusa, è gennaio, è sempre stata dura per me.

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Il santo guappo

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12 gennaio: San Bernardo di Corleone (1605-1667), spadaccino e poi frate cappuccino.

http://www.sanbernardodacorleone.org/tratti-di-storia.html

Uno le prova tutte, per rendere i Promessi Sposi interessanti in classe: io per esempio cercavo sempre di far notare che si tratta pur sempre di una storiaccia di mafia, con le gang armate che minacciano i poveretti mentre lo Stato è distratto o connivente. Quel che ancora non sapevo è che uno dei personaggi più interessanti – l'unico che nasce guappo e muore santo – è ispirato a un santo vero, nato, di tutti i posti del mondo, proprio a Corleone oggi in provincia di Palermo, nel 1605. 

All'inizio si chiamava Filippo Latino ed era il quinto figlio di un calzolaio. Scopre molto presto che le lame sono più interessanti di tacchi e tomaie: però questa abilità, acquisita forse dai soldati della guarnigione nei pressi, non la sfrutta per delinquere, ma la mette a disposizione della cittadinanza svolgendo la sua attività di "sciurtiere" (guardiano pubblico) in modi creativi. Ad esempio si traveste da mietitore per sorprendere e mettere in fuga i soldati della guarnigione spagnola che chiedevano il pizzo ai mietitori veri. A 19 anni ha già salvato una ragazza da un molestatore, qualcuno lo chiama la miglior lama di Sicilia: e questo, proprio come nei film western, richiama le teste calde, tra cui un certo Vito Canino da Palermo (forse assoldato da qualche altro facinoroso a cui lo sciurtiere aveva mozzato un dito). Dunque questo Vito se ne va in giro per Corleone dicendo che è venuto a sfidare Filippo. 

Filippo nell'occasione non sembra mostrare quella "caldizza ch'avia in mettiri manu a la spata quandu era provocatu", che sarà poi messa per iscritto al processo. Esita; forse si rende conto di trovarsi all'imbocco di una strada a senso unico: anche se vincesse il duello, poi ce ne sarebbe un altro, e un altro, e un altro, fino alla sconfitta. La carriera dello spadaccino del popolo non ha altri sbocchi che una morte violenta. Così, una volta sconfitto il palermitano (che resterà disabile), Filippo si rifugia nel convento di Caltanissetta. Come noterà Manzoni, è anche il sistema più pratico di evitare la giustizia secolare, o almeno di rallentarla. Filippo verrà ammesso nell'ordine dei Cappuccini solo sette anni più tardi, col nome di Bernardo. Per il resto della vita si dedicherà alle mansioni più umili della vita conventuale, in cucina e in infermeria, anche perché non imparerà mai a leggere (lo stesso Gesù gli sarebbe apparso per convincerlo a desistere da ogni tentativo in tal senso). Tra i miracoli piccoli e grandi che gli vengono attribuiti, uno è indicativo: la capacità di indovinare nell'espressione di chi gli passa vicino un desiderio di vendetta. Forse era un'abilità che aveva acquisito già da spadaccino, la capacità di riconoscere in quelli che lo sfidavano l'impulso assassino. 

Una cosa che forse attirò Manzoni è che Bernardo, pur rinunciando alla spada, non può rinnegare del tutto il carattere che lo ha portato a impugnarla: diversi episodi della sua vita lasciano capire che sotto al saio continuava a dibattersi un guappo, un tizio irruente che non riesce a tacere e che almeno una volta (dopo una rispostaccia data a un confratello) Bernardo avrebbe punito accostando alle labbra un tizzone ardente. Ai novizi che studiano per diventare sacerdoti promette di intercedere in alto, però in cambio esige un pizzo di almeno 15 messe; 30 nei casi più difficili ("D'accordo, fra Bernardo, purché siamo promossi, poi tutte le messe che vuoi"). Quando il convento è sconvolto da un'epidemia di influenza, e Bernardo sembra rimasto l'unico frate in grado di assistere i confratelli, per evitare il contagio si rivolge a San Francesco in un modo completamente originale: lo sequestra. Si infila la statuetta nel saio e lo minaccia: "Tu resti qui dentro finché non sono guarito". Quando capita un terremoto, invece di mettersi al sicuro si piazza davanti al tabernacolo e fa la voce grossa davanti al Santissimo: "Piano Signore, piano! Usateci misericordia! La voglio, questa grazia, la voglio!" Dio forse si spaventa un po', il terremoto si placa, Bernardo di Corleone è stato fatto santo.

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Impiccato, sventrato e squartato

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11 gennaio: Beato William Carter (1548-1584) tipografo impiccato, sventrato e squartato. 

L'incisione si riferisce a Thomas Anderson,
che subì lo stesso supplizio un secolo dopo.

Non so voi ma ogni volta che io leggo qualche Passione antica e m'imbatto in lunghe sequenze di torture – spesso inferte a un singolo martire – tendo a recepirle con un certo scetticismo, non solo nei confronti di un Dio che dovrebbe rifar crescere gli arti mutilati, ma anche al sadismo dei torturatori: che senso ha tutto questo scuoiare e sbudellare? Dai, è impossibile, secondo me se la raccontavano; tanto nessuno poteva più andare a controllare. Al di sopra delle differenze in materia di fede, torturatori e torturati avevano lo stesso interesse a riportare le testimonianze più sanguinose possibili: ai pagani premeva ribadire che la disobbedienza all'imperatore costava carissimo; per i cristiani, tutta questa violenza andava a maggior gloria di Dio (e del martiri che trionfavano eroicamente sul dolore fisico). Questo materiale andava poi incontro al gusto di chi ascoltava, leggeva e a volte trascriveva: per secoli le Passiones sono state la forma di intrattenimento più vicina ai film dell'orrore – ed è buffo pensare che venissero lette nei monasteri durante la mensa. Però insomma è una violenza soprattutto letteraria: qualcuno sarà pure stato torturato, ma molti meno, e in modi assai meno spettacolari. Così tendo a pensarla io, ma poi mi imbatto in un caso come quello di William Carter, e rabbrividisco.

William Carter è un tipografo inglese di epoca elisabettiana, che essendo rimasto fedele alla Chiesa cattolica nel 1584 decide di stampare clandestinamente il Trattato sullo scisma di Gregory Martin. Quest'ultimo, morto due anni prima in Francia, era stato il primo traduttore cattolico della Bibbia in lingua inglese. In un paragrafo del suo Trattato aveva espresso la fiducia nel fatto che "la speranza cattolica avrebbe trionfato, e la pia Giuditta trucidato Oloferne". Secondo le intenzioni dell'autore probabilmente Giuditta rappresentava la Chiesa cattolica e Oloferne quella anglicana; gli inquisitori inglesi, in una fase di forte tensione tra Inghilterra e Spagna, decidono di leggervi un invito a decapitare nel sonno la regina Elisabetta e quando riescono a identificare lo stampatore, lo condannano per alto tradimento, l'imputazione riservata a chi tenta di uccidere il monarca. 

Ora, sin dal Medioevo la pena prevista per i colpevoli di tentato regicidio era "l'impiccagione, lo sventramento e lo squartamento", castigo che viene impartito pubblicamente a Londra tra il 10 e l'11 gennaio del 1584. Non è una leggenda medievale, la prassi non si discosta da quella documentata in altri casi: lo stampatore fu effettivamente appeso al collo, ma con l'accortezza di evitare la frattura della spina dorsale e la morte per soffocamento: poi spostato su un tavolo e castrato nel modo più doloroso possibile (il pubblico doveva capire in qualsiasi momento che il condannato era ancora vivo e cosciente). Veniva quindi eviscerato ed era costretto a osservare il rogo delle sue interiora. Solo a quel punto poteva essere decapitato: seguiva lo squartamento, che significava davvero divisione del corpo in quattro parti, esposte poi in luoghi diversi della città a monito per i sudditi. Questo è davvero successo, non se l'è inventato un propagandista antipagano o un monaco un po' morboso: l'ultimo condannato a impiccagione, sventramento e squartamento cadde nel 1788, la pena sarebbe stata abolita solo un secolo dopo. Quanto a me, pare che credere nella violenza degli uomini mi costi più fatica che credere alla bontà di un Dio.

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Il vescovo inesistente

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30 dicembre – Sant'Eugenio di Milano (un secolo qualsiasi)


Di Santi Eugenii ce n'è tanti: solo in Irlanda la Bibliotheca Sanctorum ne nomina una decina. Poi ce n'è a Damasco, Gerusalemme e Cartagine, oltre a un paio di papi; e a questo punto poteva Milano non vantarne uno? Per un po' si è dato per scontato che si trattasse un vescovo, ma nella lista ufficiale dei vescovi di Milano il primo a portare questo nome è stato Eugenio Tosi nel... 1922. Potrebbe trattarsi dell'ennesimo santo generato da un refuso, visto che le cronache non solo lo consideravano contemporaneo di Sant'Eustorgio, ma addirittura menzionavano la traslazione dei suoi resti mortali proprio nella chiesa di quest'ultimo. "Eugenio" ha in effetti tutta l'aria di essere la soluzione che un copista potrebbe trovare di fronte a una parola di cui riusciva a leggere soltanto il dittongo iniziale – insomma quanti altri nomi cominciano per Eu

Quando scrive la sua Mediolanensis Historia, verso la fine del secolo XI, Landolfo Seniore risolve il problema definendolo vescovo sì, ma di qualche altra città "al di là dei monti" ("transmontanus"). A Milano ci sarebbe passato al seguito di Carlo Magno, di cui sarebbe stato padre spirituale. Non essendo di origine meneghina, Eugenio risulta più autorevole nel suo sforzo di salvare il rito ambrosiano minacciato dalle riforme semplificatrici di papa Adriano I. Già allora l'idea che i milanesi avessero un loro rito, e un calendario liturgico diverso dal romano (a quel tempo variamente diffuso in tutta la pianura padana) lasciava perplessi. Non fosse per quei quattro giorni di carnevale in più: il rito ambrosiano in effetti conta i quaranta giorni di penitenza dal Giovedì santo, mentre a Roma il conteggio partiva dal Sabato santo, ma ometteva le domeniche.

Landolfo racconta che dopo l'accorata difesa del rito ambrosiano da parte di Eugenio, i vescovi convocati in concilio a Roma stabiliscono di effettuare il seguente esperimento: posizionare sull'altare della basilica vaticana il messale ambrosiano e quello romano, sigillare il tutto e riaprire dopo tre giorni. Il libro che sarebbe rimasto aperto sarebbe stato adottato da tutta la cristianità. Immaginiamo nell'occasione l'ansia della delegazione milanese davanti a quella che i concittadini oggi definirebbero una lose/lose situation: se si fosse trovato aperto il messale romano, addio sabato grasso; ma se si fosse trovato aperto quello ambrosiano, il sabato di carnevale sarebbe diventato obbligatorio anche fuori dalla loro diocesi, togliendo ai milanesi il tipico gusto di bisbocciare mentre gli altri lavorano. 

Dopo tre giorni, il miracolo: entrambi i libri vengono trovati chiusi e poi si aprono assieme di colpo. Dunque i calendari hanno la medesima dignità, e l'esclusività ambrosiana è salva. Quando inventa questa simpatica storia, è probabile che Seniore avesse in mente l'iniziativa riformatrice di un altro papa (Gregorio VII), che aveva messo il rito ambrosiano nel mirino. Cosa non ci si inventa per tre giorni in più di carnevale.

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Taccuino da un genocidio

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You just can't kill'em all (30 ottobre). Devo accettare questa cosa che anche in caso di enormi disgrazie collettive, una delle mie reazioni è quella di venire qui e scherzarci sopra. È un meccanismo di difesa come un altro, c'è chi segnala la propria virtù, io una certa coglionaggine, che senz'altro non risolve alcun problema ma nemmeno li crea.

Più passano gli anni e più mi riconosco nel personaggio di John Hurt nei Cancelli del cielo di Cimino, che dura quattro ore ed è ubriaco tutto il tempo, pur dando la sensazione di essere un po' più intelligente di chi gli sta intorno. Ovviamente quando la Confcoltivatori del Wyoming decide di sterminare i peones lui non è d'accordo ma è facilmente messo in minoranza, dopodiché continua a bere e a fare battute del cazzo finché non si ritrova al centro esatto di un assedio all'ultimo sangue, dalla parte sbagliata della barricata, anche se non gli viene nemmeno in mente di sparare. L'ultima cosa che dice (con la fiaschetta in mano) è: l'anno scorso ero a Parigi, oh quanto amo Parigi (la penultima è: madò, quanti sono, mica potete farli fuori tutti).



Cheat mode.Tutto questo assurdo si potrebbe senz'altro spiegare con categorie religiose, ma alla fine basterebbero i videogiochi di strategia: come se gli americani fossero convinti di vivere in una simulazione in cui stanno vincendo, ma ha poca importanza perché Dio sta giocando la partita di Israele, e se perde tutto (o anche solo si annoia) il gioco finisce all'istante e buonanotte.  

La foglia di fico. (16 ottobre) Non dico perdere la verginità perché ce n'è sempre stata in giro poca, ma in questi giorni alcuni stanno perdendo comunque qualcosa di prezioso, diciamo la foglia di fico per cui ok, certe guerre a volte sono giuste ma i massacri della popolazione civile, ecco, quelli no: al massimo sono errori da coprire, da negare e poi ammettere con mille scusanti; in ogni caso non azioni da giustificare in nome di un bene superiore, fin qui nessuna bandierina copriva questa cosa.
Adesso invece un po' sì, c'è gente che ha già suggerito un'atomica su Gaza, ovviamente è una "provocazione", d'altro canto per quale altro motivo terremmo accese radio o tv, se non per sentici "provocati" a tirare fuori le cose che non abbiamo il coraggio di.
Dove a impensierirmi non è tanto Gaza, il destino di Gaza è probabilmente segnato e a fissare troppo si diventa colonne di sale; mi preoccupa cosa succederà dopo tra noi, perché quelle foglie di fico erano importanti, e se il bodycount questa volta fosse sensibilmente più importante, qualche "provocatore" dovrà continuare a rivendicarlo. Chi diceva: restiamo umani, forse ci metteva in guardia da questa cosa.


Ma tu nonno cosa ne pensavi. A volte mi chiedo come andrà a finire ma mi rendo conto che è una domanda retorica, non è che le cose finiscano. Oppure sì, ma finiscono tutti i giorni, un giorno ad esempio finirò io e quel giorno per me le cose saranno finite; inoltre tutto questo casino è causato soprattutto dal fatto che qualcuno ha pensato di "finirla" con Hamas, o con l'occupazione, ma anche con l'imperialismo russo o con l'Ucraina, insomma se c'è qualcuno di cui diffidare è appunto chi ti propone soluzioni, ehm, finali. Bisognerebbe accettare che le cose non si risolvono mai, al limite si migliorano e con molta pazienza, e con molto tempo, tempo che nessuno di noi individualmente possiede. 

Però davvero: come andrà a finire? Ci ritroveremo con due narrazioni inconciliabili: il Paese X ha raso al suolo Y, o Y era una congerie di terroristi stupratori che auspicabilmente è stata rasa al suolo. Sarà un po' difficile convivere tra gente che la pensa in modo tanto diverso, ma non è quello che facevamo già prima? Qualche migliaio di morti cambia la situazione? Qualche decina di migliaia di morti? 
Esisterà a un certo punto una narrazione condivisa, quello che una volta chiamavamo Storia? Se non i figli, i nipoti accetteranno l'idea che i nonni hanno commesso crimini che potevano evitare? E se ci domanderanno: nonno, macchecazzo, con tutti gli strumenti che avevate e la Storia che studiavate a scuola, tutta questa etica post-seconda-guerra-mondiale, tutta questa retorica antigenocida, com'è che a un certo punto una striscia con due milioni di persone ha cessato di esistere sotto i vostri occhi e voi guardavate da un'altra parte, se non addirittura applaudivate, noi che risponderemo? non puoi capire, non c'eri, le informazioni erano tendenziose... oppure proprio non è vero, gli storici mentono, il conteggio delle vittime è viziato, e comunque hanno iniziato prima loro. 
Oppure la domanda non avrà più senso. Forse l'oggettività occidentale è sempre stata un'illusione mantenuta da un equilibrio di poteri che è durato finché è durato; forse ai nostri figli e nipoti mancherà la sensazione che avevamo noi, di poter veramente sapere cosa accadeva nel mondo a volte persino in tempo reale, senza sempre dubitare di quanto i reporter ci mostravano. Era un privilegio che non meritavamo e che forse a un certo punto abbiamo smesso di desiderare, perché tutta questa oggettività a volte ci condanna. Beate le vittime, loro non hanno questi problemi, o meglio per loro i problemi sono già finiti.




Ci hanno gli algoritmi. Un ufficio propaganda abbastanza efficiente lascia comunque una sensazione fastidiosa, come quando un messaggio pubblicitario apre una breccia in una debolezza che non ricordavi di avere; ad es nella settimana contro la violenza sulle donne ci facevano notare che i loro nemici erano particolarmente violenti con le donne; se fosse seguita la settimana contro la violenza sugli animali probabilmente ci sarebbero arrivati inediti reportages dai macelli halal, invece la gente si è un po' rimessa a parlare di algoritmi e AI e loro ehi, a proposito, lo sapete che noi per bombardare usiamo un algoritmo che ci dice dove bombardare? Siamo o non siamo fighissimi.

(– Ma lo fate per minimizzare le vittime civili?

– Eh?)

Loro ci hanno un algoritmo, capite, per trovare il loro nemico pubblico n. 1 stanno bombardando da un mese una striscia di 40 Km. x 8, stiamo a 15000 vittime a essere prudenti, e i loro ufficiali, nota, i loro ufficiali, stimano che un terzo di loro dovrebbero essere combattenti. Insomma per abbattere due civili ogni combattente ci hanno l'algoritmo, figurati se non ce l'avevano. O no? 

Viene da domandarsi, non ironicamente: ma se non ce l'aveste, l'algoritmo; se le decisioni le prendeste alla vecchia maniera umana, a quest'ora ne avreste fatti fuori di meno o di più? Comunque oh, ai nipotini potrete sempre raccontare che obbedivate all'Algoritmo, vengono in mente libri antichi in cui un'entità altrettanto non-umana e astratta suggeriva agli uomini di radere al suolo città non molto lontane, ma dev'essere solo una suggestiva coincidenza.




Mille a ventimila. No, ve la rispiego perché davvero, con l'antisemitismo non c'entra niente: in un conflitto asimmetrico, quando è possibile contare le vittime con una ragionevole approssimazione, io parteggerò sempre per la parte che ne ha fatte di meno.
Così se davvero volete il mio sostegno – secondo me non lo volete, cosa ci fate col mio povero sostegno? secondo me volete solo una scusa per lamentarvi – ma se invece volete davvero il mio sostegno, se per voi è così tanto prezioso, ebbene, è facile: dovete cercare di fare meno vittime di quegli altri. Diabolico, nevvero? Ma il pacifismo funziona così. 
(I radicali effettivamente funzionavano in un altro modo).




I pirati hanno preso il palazzo. A un certo punto qualcuno, va' a capire chi, deve avere commesso un tremendo errore, insomma il Foglio doveva restare un simpatico naviglio di filibustieri, col capitano burbero ma di buon cuore, qualche mozzo volenteroso a lavargli le parti intime, un po' di marinai esperti ma ricattabili e ricattati, qualche scemo di guerra a dar colore, ecc. Era previsto che ogni tanto facesse un colpo, non che un giorno si conquistasse l'egemonia culturale. Non conveniva neanche a loro, un conto era proporre di uscire dall'Onu sul giornaletto del fanclub italiano del Likud, un conto è ritrovarsi Molinari a dirigere Repubblica, dopodiché hai un bel da prendere in giro i novaccinisti, gli sciachimisti, i putinisti, cioè sul serio: noi ceto riflessivo, dovremmo credere che l'Onu copre Hamas, perché lo leggiamo sui quotidiani teoricamente rispettabili? O dovremmo capire che è solo un gioco, come il bispensiero, cioè una parte del cervello sa benissimo che gli israeliani asfalteranno Gaza ma l'altra parte del cervello deve fare finta di no e in questo, da qui in poi, consisterà la riflessività del ceto riflessivo: nel far finta di essere membri di una società civile, basata su ideali di giustizia e libertà purché restino ideali? A un certo punto qualcuno ha commesso un terribile errore, va' a sapere chi, certe notti ho paura di essere stato io ma mi rendo conto che è poco probabile, anzi anche un po' egotico, sicuramente avrei dovuto fare qualcosa di più anche se non sono mai riuscito a capire cosa.




Tite tute. Adesso forse sono io che capisco male o sono il solito malfidato ma come si fa anche solo a pensare che radere al suolo la Striscia sia un mezzo per arrivare ai vertici di Hamas (e non viceversa)? Proprio perché la considerate un'organizzazione terroristica, non avrà qualche base sparsa nel mondo dove i leader possono riparare tranquilli mentre il mondo brucia? Tutte le altre organizzazioni ce li hanno; Hamas no, i leader restano tutti nei bunker con gli ostaggi ad aspettare di farsi catturare dall'Idf, che stupidi.

D'altronde mica possono dire che spianano Khan Yunis perché tutto il modo in cui hanno impostato la situazione era tragicamente sbagliato e pensano che radendo completamente la Striscia al suolo e deportando la popolazione magari tra un po' nessuno ne parlerà più – ci sono precedenti, per esempio una volta un generale romano si ruppe i coglioni di un popolo che viveva da quelle parti, rase al suolo una città intera e disperse il popolo in tutto il bacino del Mediterraneo e anche oltre e infatti nessuno di quel popolo parla più, ne avete sentito parlare? insomma ha già funzionato così bene, perché non dovrebbe funzionare di nuovo.


Che avremmo dovuto fare. Vedo che siccome comincia a essere un po' difficile negare che si tratti di un'operazione di pulizia etnica, il trend è domandare, retoricamente: "cosa avremmo dovuto fare allora?" Come se insomma, alla pulizia etnica ci si arrivasse per mancanza di alternative. 
Ora, a parte il fatto che sì, esistono sempre alternative a bersagliare gli ospedali, però bisognerebbe che ogni tanto qualche buon amico ve lo dicesse: ogni volta che ci dite che non potevate fare diversamente, vi state autoaccusando di esservi infilati da almeno 20 anni in una situazione senza uscita – ovvero un'uscita c'è, ma vi vede nel ruolo dei cattivi segregazionisti e sterminatori. Qualcuno avrebbe dovuto avvertirvi – ah no, aspetta, qualcuno vi ha avvertito, a lungo, e pazientemente, e voi avete passato tempo e risorse preziose ad accusarlo di intelligenza col nemico. 
C'è un complotto mondiale contro di voi? Certo che c'è, e prevede esattamente che voi vi troviate dove vi trovate, con le spalle al muro che avete costruito con le vostre mani.
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Il sigillo dei profeti

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18 dicembre: San Malachia (VI secolo), sigillo dei profeti

"Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l'uno contro l'altro profanando l'alleanza dei nostri padri?" Malachia 2,10, sul muro sulla barriera difensiva che separa Israele e Cisgiordania.
CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1027285

Non era forse Esaù fratello di Giacobbe? – oracolo del Signore – Eppure ho amato Giacobbe e ho odiato Esaù. Ho fatto dei suoi monti un deserto e ho dato la sua eredità agli sciacalli del deserto. Se Edom dicesse: «Siamo stati distrutti, ma ci rialzeremo dalle nostre rovine!», il Signore degli eserciti dichiara: Essi ricostruiranno: ma io demolirò. Saranno chiamati Regione empia e Popolo contro cui il Signore è adirato per sempre. I vostri occhi lo vedranno e voi direte: «Grande è il Signore anche al di là dei confini d'Israele»
(Malachia 1,2-5)

Edom era un antico regno del Negev, a poche centinaia di km da Gaza. Per gli antichi ebrei gli edomiti erano discendenti da Esaù, il fratello che vendette la propria primogenitura a Giacobbe-Israele per un piatto di lenticchie; così come molti proprietari palestinesi in epoca ottomana vendettero terreni poco fruttuosi ai sionisti. Queste e altre coincidenze ci lasciano sempre sbigottiti. Si fa senz'altro un torto a proiettare le storie della Bibbia sulla storia contemporanea dello Stato di Israele; i motivi per cui sta distruggendo la Striscia sono tutti terribilmente razionali, il risultato inevitabile di una serie di errori commessi in settanta più anni. E tuttavia la Bibbia è ambientata proprio lì, e parla di popoli fratelli che si odiano. Il primo ministro democraticamente eletto cita Amalek, il nome di un antico popolo che osò attaccare gli ebrei mentre si insediavano nella Terra Promessa, e al quale giurarono guerra eterna, generazione su generazione, finché non fu effettivamente sterminato ed estinto. La Bibbia sta lì, e se la ride di tutti gli studiosi che ne mettono in discussione la storicità – forse in effetti non parla del passato, ma del futuro. Forse Mosè non ha mai riportato gli ebrei in Cananea, ma Zorobabele e Ben Gurion sì. Forse l'angelo di Dio non ha distrutto Sodoma e Gomorra, ma Gaza e Khan Yunis ormai sono colonne di sale. 

La Bibbia non va sottovalutata. Eppure tutti sanno come comincia (la creazione, Adamo ed Eva), ma nessuno ti saprebbe dire come finisce. In effetti dipende molto dall'ordine dei libri, che varia di traduzione in tradizione; in linea di massima le versioni cristiane dell'Antico Testamento tendono a posporre la sezione riservata ai profeti, l'ultimo dei quali è Malachia, già definito dagli ebrei "sigillo dei profeti". 

Malachia nella Cappella degli Scrovegni

Si tratta di un finale completamente arbitrario (anche nella Tanakh ebraica Malachia è l'ultimo profeta, ma ai profeti seguono altri libri). Malachia non è l'ultimo libro a essere stato composto, né contiene molti elementi che ci consentano di datarlo (persino il nome all'origine non era proprio: "Malachia" significa "il mio messaggero"). In effetti potrebbe adattarsi a qualsiasi momento della storia antica di Israele, tanto è esemplare di tutta la letteratura profetica nella sua alternanza di rimbrotti a un popolo peccatore e promesse di un futuro luminoso. 

Se però accettiamo, come abbiamo fatto per secoli, che Malachia sia l'ultimo profeta, non può che essere posteriore a Zaccaria e Aggeo che nel VI sec. aC si sono spesi per la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme: il che significa che neppure la realizzazione del Tempio ha soddisfatto il Signore, di nuovo stomacato dei sacrifici come ai tempi di Geremia: "spanderò sulla vostra faccia gli escrementi delle vittime immolate nelle vostre solennità", dice. È l'ennesimo capitolo della psicosi di un popolo che qualunque cosa faccia non riesce a soddisfare il suo Dio, a meritare le sue promesse di grandezza. Stavolta i motivi della collera divina sono almeno definiti con chiarezza: i sacerdoti non sacrificano capi di prima scelta, com'è previsto dalle Scritture, ma "animali rubati, zoppi e malati". Non solo: ma gli israeliti non restano fedeli alle "donne della loro giovinezza", le tradiscono e praticano il divorzio. Quest'ultimo consente loro di risposarsi con le "figlie d'un Dio straniero". Questa avversione per i matrimoni misti è una delle ragioni per cui nella tradizione ebraica Malachia è stato associato a Esdra, il sacerdote che nell'omonimo libro aveva lanciato un allarme ancora più esplicito: gli israeliti che tornavano a Gerusalemme dopo la cattività babilonese si stavano mescolando con la popolazione locale, minacciando un progetto che evidentemente si basava sulla segregazione etnica. Malachia però è molto critico nei confronti della casta sacerdotale, di cui Esdra faceva parte; e sembra detestare la pratica del divorzio, laddove Esdra ottiene proprio che gli israeliti divorzino dalle mogli etnicamente scorrette.

L'idea di considerare Malachia come l'ultimo dipende probabilmente dal fatto che nel finale questo profeta gioca una carta molto impegnativa: in attesa di un trionfo del bene che assume sempre più caratteri escatologici, il Signore degli eserciti invierà "il profeta Elia", che secoli prima era stato salito al cielo sul carro del sole. La promessa di un Messia che riscatti il popolo di Israele, ricompensi i giusti e castighi i superbi col fuoco ("sta per venire il giorno rovente come un forno"), non era mai stata messa per iscritto con tanta chiarezza, al punto che quattro secoli più tardi, quando Gesù comincerà il suo ministero, molti vedranno in lui l'Elia promesso da Malachia. Gesù stesso identificherà Elia con Giovanni Battista (quest'ultimo almeno in un'occasione nega di essere Elia). Il testo di Malachia dunque presenta il finale più adatto per un Libro di cui si ha già intenzione di allestire un seguito: il cosiddetto cliffhanger, o finale sospeso. E se per i cristiani il seguito è noto, gli ebrei sono sospesi da allora.

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Le martiri della Drina, o come la Chiesa racconta la violenza sessuale

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15 dicembre: beate martiri della Drina, assassinate il 15/12/1941


Da qui a qualche generazione di distanza, forse la Seconda Guerra Mondiale ci apparirà ancora più incredibile di quanto non sia adesso (è quel che dovremmo augurarci, perlomeno). In un secolo drammatico ma tutto sommato razionalmente descrivibile, ecco un intervallo di assurdo orrore i cui resoconti, anche quando dettagliati con minuzia, tradiscono comunque particolari che appaiono mitici o fiabeschi; proprio quando la storiografia sembrava aver abolito categorie assolute come il Bene o il Male, il nazismo e le persecuzioni a carattere etnico rimettono in discussione l'imparzialità degli studiosi. Una prova indiretta di questo fenomeno è la diffusione, nel secondo dopoguerra, di vere e proprie leggende dei santi come non se ne tramandavano da secoli: agiografie costruite a partire da fatti di cronaca e crimini di guerra che solo nel contesto della Guerra possono apparire plausibili. 

Uno dei casi più esemplari è quello delle cinque martiri della Drina, beatificate da Benedetto XVI. Si tratta di cinque suore cattoliche, di età tra i 29 e i 76 anni, che gestivano un piccolo convento a Pale, nei pressi di Sarajevo. Si chiamavano tutte di primo nome "Marija", e quindi si distinguono dal secondo nome e dal cognome: Jula Ivanišević, Berchmana Leidenix, Krizina Bojanc, Antonija Fabjan, Bernadeta Banja. Ad alcune viene associata la nazionalità austriaca, ad altre slovena, croata o ungherese, ma sono attribuzioni da prendere con le pinze (la nazionalità bosniaca negli anni Quaranta ancora non era definita). Di loro non si sa molto di più di questo; tutte le informazioni che mi è stato possibile trovare in italiano, su internet, provengono da siti cattolici e sono state redatte verosimilmente in occasione della cerimonia di beatificazione, intorno al 2011, nel settantesimo anniversario della strage. Con un po' d'impegno (e di serbo-croato) potremmo trovare anche notizie di fonte diversa, e non ci troveremmo in una situazione così simile a quella dei compilatori medievali. 

Quel che ci viene insomma tramandato è che le suore furono rapite e trucidate da un commando di cetnici, la milizia lealista serba che stava combattendo una guerra ambigua, contro gli occupanti tedeschi (e italiani) ma anche e soprattutto contro i partigiani jugoslavi di Tito. L'episodio è tragicamente verosimile: è la dinamica a ricordare più le miniature medievali che i film di guerra che danno forma al nostro immaginario. Sequestrate a Pale l'11 dicembre, rinchiuse in una caserma a Goražde il 15, quattro delle cinque suore avrebbero resistito a un tentativo di stupro gettandosi dalle finestre. Le leggende, che omettono sempre di indicare gli eventuali testimoni oculari della vicenda, specificano sempre invece con molta chiarezza che nessuna delle quattro morì a causa della caduta: ma furono tutte invece finite "a colpi di baionetta" dai cetnici.  La quinta sorella, la più anziana (76 anni), era sotto la custodia di un altro drappello: fu uccisa anche lei dai cetnici il 23 dicembre. Di fronte a fatti tanto cruenti, anche l'osservatore laico sente l'impulso a fare un passo indietro: è davvero così importante che siano riuscite tutte a lanciarsi dalla finestra, tutte e quattro, in così breve tempo ed esiguo spazio? È davvero importante che nessuna delle quattro sia morta a causa della caduta? Insomma, se i cristiani hanno deciso di raccontarla così, perché sollevare obiezioni? Perché, appunto, questo è il modo in cui si raccontavano le storie di martiri già nel mondo tardoantico. In particolare il salto nel vuoto delle suore richiama quello di Santa Pelagia di Antiochia, minacciata da legionari altrettanto minacciosi, cui Giovanni Crisostomo dedicò un elogio che forse le suore conoscevano. 

Se però il Crisostomo suggeriva che una buona cristiana dovesse preferire la morte alla perdita della verginità, in seguito la questione è diventata più spinosa, almeno in Occidente. A un certo punto l'entusiasmo con cui alcuni santi andavano verso il martirio è sembrato eccessivo; nel frattempo era stato messo nero su bianco che i suicidi non potevano ottenere il perdono di Dio, e quindi era opportuno ritoccare i passi in cui un santo nell'arena correva incontro alle bestie feroci, o forzava la mano armata di un titubante carnefice, o si lanciava, perlappunto, dalla cima di una torre o da una finestra. Il discrimine può essere stato, così come per tante altre cose, il Concilio di Trento; qualche decennio dopo, i samurai cristiani si fanno un punto d'onore di rifiutare la pratica del seppuku; quando Paolo Uchibori viene condotto presso i fanghi vulcanici di Unzen, domanda ai compagni di non gettarsi da soli ma di aspettare che siano i boia pagani a dare una spinta. Cosa cambia? Per i cronisti, poco o nulla. Per un cristiano, tutto. La distanza tra un martirio per la fede e un suicidio, nei fatti, è minima: ma per un cristiano il martirio è la strada maestra per il paradiso, laddove il suicidio schiude le porte dell'inferno. E se è possibile che Gesù Cristo Giudice applichi queste categorie con un minimo di buon senso e misericordia, da un punto di vista educativo non si può assolutamente correre il rischio di confondere le due cose. Quattro secoli dopo, chi tramanda la storia delle beate Marije sente ancora la necessità di stabilire con certezza che sì, si gettarono dalle finestre ma no, non morirono a causa della caduta, bensì delle baionette dei cetnici. 

Non solo gli agiografi devono allontanare ogni sospetto di suicidio, ma anche negare la possibilità che almeno una violenza sessuale su quattro sia stata commessa. Anche questo è un topos delle leggende di santi tardoantiche e medievali: ormai ne ho lette un po' e a memoria non mi sembra di aver mai trovato un caso in cui la violenza viene effettivamente consumata. Nei casi più realistici (come appunto quello di Pelagia) la vittima si salva con un sotterfugio e un gesto estremo; nella leggenda tipica è Dio stesso a intervenire, mediante miracoli più o meno spettacolari. Agnese e Lucia possono anche essere condannate al bordello; ne escono più pure che mai. Chi osa toccarle o anche solo guardarle finisce malissimo. Noi ovviamente siamo liberi di trovare tutto questo molto ingenuo; purché ogni tanto ci poniamo il problema: chi siamo, esattamente, noi?

Siamo esponenti di una civiltà che si vanta di curarsi della Verità più che dell'Ideologia; per cui, se qualche donna effettivamente è stata stuprata da un soldato, durante le persecuzioni di Diocleziano o anche millequattrocento anni dopo in un conflitto mondiale, ci piacerebbe esserne informati. Siccome è successo, riteniamo doveroso segnarcelo da qualche parte; magari dopo aver raccolto un po' di resoconti di questo genere riusciremmo anche a realizzare delle statistiche, scoprire chi violentava di più, eccetera eccetera. E mentre riflettiamo su queste cose, ecco che scoppia di nuovo una guerra, e intorno a noi un sacco di devoti della Verità comincia appunto a contare le violenze e gli stupri inflitti da una parte e dell'altra, senza lesinare i particolari. Alcuni di questi particolari dopo un po' risultano essere stati inventati ma è troppo tardi, c'è chi ormai li ha memorizzati e non smetterà più veramente di crederci. Insomma a guardarlo più da vicino, e in tempi di guerra, questo culto della Verità appare meno granitico di quanto sembrava; se gratti bene sotto le statistiche ci trovi di nuovo l'Ideologia. Niente di nuovo sotto il sole; chi combatte ha sempre messo in guardia i civili dal nemico bieco e stupratore; lo stesso nemico del resto molto spesso si rivela bieco e stupratore, la propaganda è una distorsione inevitabile in tempi di guerra,  e una guerra c'è sempre. 

Accettiamo la cosa; però mettiamo a verbale che gli agiografi non lavoravano così. Partendo da un presupposto che tutto sommato ancora condividiamo – la violenza sessuale è un crimine insopportabile – decidevano di cancellarlo. In una civiltà in cui la vittima di violenza sessuale sarebbe stata considerata meno pura, irrimediabilmente macchiata, se non addirittura connivente con il suo carnefice, gli agiografi preferivano scrivere che la vittima non era stata toccata; nemmeno in un bordello. Facevano un torto alla verosimiglianza e probabilmente alla stessa verità; nonché forse alla fantasia morbosa di qualche studioso; ma forse rispettavano le vittime molto più di quanto le stiamo rispettando noi, coi nostri referti, le nostre statistiche, i nostri video che dimostrano inoppugnabilmente che il nemico stupra più di noi. Forse le Marije non si sono salvate dalla violenza sessuale; magari non tutte e quattro. Ma avrebbero voluto risparmiarsi, e l'agiografo le ha risparmiate. Forse chi è davvero riuscita a saltare dalla finestra è morta sul colpo; ma non avrebbe voluto, e l'agiografo l'ha fatta morire in un altro modo. Cambia qualcosa? Per noi che non crediamo no, non cambia quasi nulla. Ma qualcuno ci crede: e per lui cambia tutto. 

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Il Ponte sullo Stretto è un fake (almeno su facebook)

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A proposito del Ponte sullo Stretto, la cui erezione ormai è imminente (non sto nella pelle), non avrei nulla da aggiungere a quel poco che ho scritto: senonché ho trovato una di quelle immagini che valgono davvero le proverbiali mille parole. Eccola qui dalla pagina Facebook di cui tutti stanno parlando: Ponte sullo Stretto di Messina.


Chissà se l'hanno fatta con un'AI – perché sembra più una fiaccolata che un'insurrezione – d'altro canto parliamo di una pagina amatoriale, mica si può pretendere una qualità professionale. In ogni caso mi sembra che il senso sia chiaro: gli italiani che stravedono per le grandi opere all'estero, appena si prova a farne una in Italia si mettono a protestare, maledetti provinciali. Ora, questo in generale potrebbe anche essere vero.

Ma nel caso del Ponte è una sciocchezza.

È esattamente la sciocchezza che cercavo di spiegare un anno fa, ma davvero non l'ho mai trovata esposta con tanta sfacciata chiarezza come nei meme di questa pagina Facebook. Una sciocchezza che è una specie di tappa obbligata per chiunque voglia sostenere non solo che il ponte sullo Stretto è fattibile, ma lo è in virtù del progetto approvato da un governo Berlusconi ormai vent'anni fa. Ma se quel progetto fu approvato, perché il ponte non c'è? In fin dei conti di governi Berlusconi ce ne fu più d'uno, e a parole erano tutti assolutamente convinti che il Ponte bisognava farlo, e bisognava farlo con quel progetto. 

Ciononostante il ponte non si è fatto. Perché?

Perché gli italiani non lo vogliono! Maledetti ingrati! Li vedete nella seconda immagine, con le fiaccole, pardon, torce? Non lo accettano proprio! Si mettono di traverso, lo boicottano, votano partiti antiponte, è una vergogna. Per fortuna che ci sono coraggiose pagine facebook amatoriali come Ponte sullo Stretto di Messina, che cercano di cambiare questo atteggiamento pubblicando informazioni assolutamente non di parte e simpatici meme come questo. Certo. 

Salvo che appunto, è una sciocchezza.

Non esistono italiani con le torce che non vogliono il ponte sullo Stretto. Ok, qualche manifestazione c'è stata, ma nulla di paragonabile all'esempio che tutti hanno in mente: i No Tav della Val di Susa. Quelli esistono e combattono contro un progetto concreto con pratiche di lotta a volte altrettanto concrete, da trent'anni e più. Non è difficile dimostrare come la loro ostilità abbia realmente rallentato la realizzazione di un'opera che (a differenza del Ponte) era considerata prioritaria dalla UE. Per contro, un movimento No Ponte, se pure esiste, è stato fin qui marginale; non ha bloccato nessun cantiere anche perché fin qui non c'è stato nulla da bloccare. Il fatto che po' di italiani, come me, manifestino un cauto scetticismo ogni volta che un governante tira fuori il Ponte non ha mai realmente impedito a nessun governante di fare il Ponte. Se il Ponte non si è fatto comunque, è stato per altri motivi: il primo che mi viene in mente è che forse non esisteva ancora la tecnologia per realizzarlo in sicurezza, ma può darsi che io sia il solito malfidato. Comunque no, gli "italiani" non seguono il dibattito sul Ponte con le torce in mano: siamo lì in attesa tranquilli, un po' scettici, che chi ha promesso più volte castelli in aria ce li costruisca. Siccome abbiamo pagato (e continuiamo a pagare), sarebbe il minimo.




***

La pagina Ponte sullo Stretto di Messina non esiste da molto – mi sembra di essermela trovata per la prima volta in bacheca l'estate scorsa. Faccio fatica a ricordarmi con precisione perché come molte pagine facebook, vive in un eterno presente: scrive più o meno sempre le stesse cose, con infinite variazioni minimali sullo stesso tema. Ogni post che pubblica contiene quasi tutte le informazioni fondamentali (il progetto del ponte è ottimo, ce lo copiano all'estero, se all'estero li fanno e qui da noi no è colpa di voi miscredenti), per cui letto il primo, li hai letti quasi tutti. Pubblicare un contenuto al giorno è già complicato in generale, figuratevi per qualcuno che ha deciso che ogni giorno scriverà più o meno la stessa cosa su un Ponte che per ora nemmeno esiste. Per cui a volte ai redattori non resta che attaccarsi ai commentatori ostili, come i cani che fanno chiasso intorno alla loro coda; rispondiamo a Caio73 che dice che una campata così lunga non può reggere il vento, ebbene no, il Messina Type Deck ha già dimostrato di reggere a tot venti alla tale velocità, bla bla, io non è che possa fingere più di tanto di capire cosa stanno dicendo, non sono un ingegnere. 

Sono un povero prof di geografia, per cui almeno una volta li ho beccati a scrivere un'imprecisione geografica (i giapponesi non avevano voluto mettere la ferrovia nell'Akashi perché non ne avevano bisogno). A giudicare dalla quantità dei traghetti nella stessa zona, è difficile credere a una cosa del genere. È molto più probabile che i progettisti non abbiano inserito la ferrovia perché non era sicura, del resto durante la costruzione un terremoto spostò i pilastri di quasi un centimetro. L'Akashi, ricordo, è stato per più di vent'anni il ponte a campata unica più lungo del mondo, e la campata in questione non arrivava a 2000 metri, mentre per arrivare dalla Calabria alla Sicilia ne servono 3000: è vero che l'ingegneria fa progressi, ma per vent'anni non ne ha più concretamente fatti. Poi l'anno scorso finalmente un ponte sui Dardanelli ha sorpassato il record dell'Akashi: di 32 metri. Il ponte sullo Stretto dovrebbe superarlo di altri mille. A questo punto di solito qualcuno obietta che siamo andati sulla Luna, il che è fantastico, però ci abbiamo messo tanti tentativi, abbiamo speso tanti soldi, dopodiché non è che siamo andati subito su Marte: i progressi tecnologici non si possono dare per scontati. Tra l'altro di che progressi tecnologici stiamo parlando, se il progetto per il Ponte continua a essere quello di vent'anni fa? Forse nel frattempo davvero unire Calabria e Sicilia potrebbe essere diventato ingegneristicamente più facile, ma il progetto rimane lo stesso, perché? La pagina Ponte sullo Stretto non spiega il perché. 



Una spiegazione l'ha proposta Report nella puntata della scorsa settimana: il progetto deve rimanere lo stesso perché è quello di Webuild (ex Impregilo). Salvini l'ha imposto per decreto: se si volesse cambiare il progetto, bisognerebbe fare una gara, ma se si facesse una gara, siamo sicuri che Webuild la vincerebbe? Evidentemente Salvini non ne è sicuro; ma Webuild non è che può essere messa alla porta, c'è ancora in corso una lunga vertenza giudiziaria, ci sarebbero penali miliardarie da pagare, tanto vale farle costruire il ponte, e poi chi vivrà vedrà. È una conclusione a cui arrivano quasi tutti quelli che stanno un po' nella stanza dei bottoni, compresi quelli che anni prima avevano criticato il ponte: Salvini, Renzi (i grillini no, ma forse non hanno avuto il tempo). Si vede che Webuild in quella stanza possiede un bottone più grosso di altri.

Sul piano della comunicazione, viceversa, c'è ancora qualcosa che si può migliorare. Dopo la puntata di Report, la pagina indipendente Ponte sullo Stretto ha subito pubblicato un post sugli errori di Report. Report di errori ne fa spesso, però sono professionisti: non è che che lanci l'amo e loro tirano fuori la lingua. Ci hanno messo pochi minuti a notare che il contenuto della pagina indipendente Ponte sullo Stretto era stato rapidamente diramato a tutti gli organi di stampa, e da chi? Da un PR di Webuild. "Una pagina Facebook indipendente con alle spalle un’agenzia di comunicazione internazionale?" Ma chi l'avrebbe detto mai! Sembrava così amatoriale...

Attaccare Report non è un gesto senza conseguenze. Nel giro di qualche ora la pagina è stata sospesa da Facebook, probabilmente per eccesso di segnalazioni. Poi è tornata on line; nel frattempo Report aggiungeva un poscritto al suo comunicato: "Dalle prime verifiche effettuate risulta che SEC & Partners si è limitata a segnalare un articolo, reperito nel web, che fornisce informazioni sull’opera, ma che non ha, né ha mai avuto, alcun rapporto con la pagina Facebook “Ponte sullo Stretto di Messina”, come gli stessi amministratori della pagina hanno peraltro già dichiarato con un post successivo". E noi ci crediamo. Perché no? Se dobbiamo credere che vent'anni fa esistesse un progetto per una campata unica che in un colpo solo superava del 50% il record mondiale, un ponte all'avanguardia che non è stato realizzato malgrado gli sforzi dei governanti, dei lobbisti e dei costruttori, a causa del maledetto provincialismo italico, perché non dovremmo credere che un paio di ragazzi abbiano deciso di passare il tempo a scrivere ogni giorno un contenuto a favore del Ponte sullo Stretto, su una pagina Fb che si chiama Ponte sullo Stretto? Chi di voi, avendo studiato ingegneria e quel tipo di cose, non amerebbe passare il tempo a scrivere più o meno le stesse cose su un ponte che nel frattempo nessuno sta costruendo? io non so davvero perché invece mi sono messo a scrivere di canzoni dei Beatles, o santi del calendario, quando avrei potuto divertirmi molto di più scrivendo tutti i giorni che i più lunghi ponti del mondo sono tutti "Messina Type". 




Scrivono proprio così: dovete infatti sapere che William Brown, l'ingegnere che concepì l'ambizioso progetto che Salvini ha deciso di riprendere senza cambiare uno strallo, ebbene in quell'occasione avrebbe disegnato un avveniristico impalcato aerodinamico che da quel momento sarebbe stato usato in tanti altri megaponti, e che viene generalmente chiamato Messina Type Deck, l'impalcato tipo Messina. Vi rendete conto? Il ponte sui Dardanelli ha il Messina Type Deck; il ponte di Xihoumen ha il Messina Type Deck: starebbero tutti copiando un ponte che non esiste, e ricordo che non esiste esclusivamente a causa dello scetticismo oscurantista di noi poveri italiani. Non ci credete? Googlate, bingate Messina Type Deck...

...ops, troverete solo comunicazioni della Webuild. O della pagina Ponte sullo Stretto. Curiosissima coincidenza. Su queste pagine c'è scritto che il ponte sui Dardanelli ha il Messina Type Deck, il che non è improbabile visto che al progetto collaborò lo stesso Brown; ma per ora non ci sono pagine in turco che citino il Messina Type Deck riferendosi al ponte sui Dardanelli (o pagine in cinese che citino il Messina Type Deck riferendosi al ponte di Xihoumen). Anzi Bing dice proprio che l'impalcato di questi due ponti è diverso, ma non mi fido molto di quello che dice Bing. E non sono un ingegnere, ricordo: per cui non ho motivo di dubitare che l'impalcato di questi lunghissimi ponti ricordi, o sia ispirato, al progetto del Ponte sullo Stretto. 

Sono però un comunicatore, magari amatoriale, ma in tanti anni qualcosa l'ho capito, e credo di poter concludere che l'espressione "Messina Type Deck" è tipica della comunicazione corporate di Webuild. È una cosa che usano soltanto loro, con una piccola, stranissima eccezione: la pagina Facebook Ponte sullo Stretto di Messina. Che però dice di essere una pagina indipendente. Non credo che potrò mai dimostrare il contrario. Nemmeno ci provo. 

Resto così, scettico, con la mia fiaccola in mano, a domandarmi: ma se il progetto era così buono, perché il ponte non l'hanno già fatto? E perché hanno bisogno di convincerci in questi modi così contorti? E se davvero la pagina facebook è indipendente, perché non c'è verso di capire chi la gestisce? Davvero: non c'è scritto da nessuna parte. Dicono che sono indipendenti, e non dicono chi sono. Magari ho cercato male, purtroppo anch'io sono un amatore, non è che posso stare tutta la notta a googlare. Ma credo che il modo migliore per convincere i propri detrattori, e anche i propri follower, sarebbe metterci la faccia. Eccoci, ci chiamiamo così e così, siamo laureati in ingegneria qui e qui, non abbiamo conflitti di interesse, eccetera eccetera. Ci vorrebbe così poco. Io mi chiamo Leonardo Tondelli, insegno italiano storia e geografia, non ho mai lavorato per la Webuild, vedete? Bastano due righe. Anche una sola. 
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Il profeta (A)bacucco

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2 dicembre: Santo Abacuc, profeta (VI secolo aC)

C'era un vecchio dizionarietto dei santi della Tea edizioni che come sottotitolo aveva Da Abacuc a Zosimo, tutti i protagonisti della fede, insomma se non avesse altre qualità il profeta potrebbe sempre rivendicare di essere il primo tra i santi almeno in ordine alfabetico (un alfabeto che non lesse mai in vita sua). Purtroppo la Bibliotheca Sanctorum ricorda, prima di lui, una venerabile Aalaide, un Aaron (che poi sarebbe Aronne), un sant'Abachirion e un sant'Abaco. Abacuc è appena il quinto, ma anch'io volendo scrivere un sottotitolo a effetto partirei da Abacuc. È un nome che dà soddisfazione, ha quel suono da xilofono che suggerisce un trapestio di vecchie ossa, o una testa pelata percossa. A quanto pare il lemma "bacucco" nasce proprio da queste suggestioni, e dall'iconografia che a un certo punto stabilì che tra tanti profeti, Abacuc era uno di quelli più anziani e calvi, se non l'anziano e il calvo per eccellenza. Forse fu il successo della statua di Donatello, uno dei primi capolavori del Rinascimento, un'opera così cara al suo autore che secondo Vasari era solito giurare su di essa. I fiorentini che la ammiravano esposta su una delle nicchie del terzo ordine del campanile di Giotto la battezzarono "Zuccone", e benché non siamo completamente sicuri che ritraesse Abacuc (potrebbe anche trattarsi di Geremia) col tempo l'allitterazione Zuc-Cuc è risultata irresistibile. 

Così, per una pura associazione di suoni e significati, il profeta si è ritrovato una fama di vecchio brontolone piuttosto ingiusta, per un autore di poche parole ma molto incisive: il suo libro è brevissimo ma composto con una certa eleganza, e contiene almeno un paio di versetti che non ci hanno più abbandonato. Di fronte alla tragedia imminente (l'invasione neobabilonese), Abacuc accetta la lettura degli altri profeti: si tratta di una punizione collettiva che Dio impartisce al suo popolo disobbediente. Ma cosa sarà degli individui che hanno continuato a rispettare Dio e le sue leggi? Dovranno patire anche loro gli effetti della vendetta di Dio? Abacuc spera di no, e a un certo punto (capitolo 2, versetto 4) suggerisce che "il giusto vivrà per la sua fede". La frase sarà ripresa più volte da San Paolo, che darà un significato ultraterreno al verbo "vivrà", e costituirà l'architrave della teologia protestante: la giustificazione secondo la fede. 

L'altra citazione immancabile è il versetto finale del libro, in cui il Signore, comparso nella sua gloria a salvare i giusti, consente al profeta di salire verso lui con "passi di cerva": ci sono profeti che volano, ma Abacuc preferisce zampettare. Eppure è proprio lui che viene scelto da uno degli autori del libro di Daniele come protagonista di un volo miracoloso: in questo episodio (che riprende quello famoso della fossa dei leoni, ma è sicuramente un'aggiunta posteriore), Abacuc sta preparando una minestra "per i mietitori", il che ci sorprende perché fino a quel momento Abacuc ci era sembrato un intellettuale più che un addetto alla refezione. Può darsi che dopo l'invasione neobabilonese anche i profeti si fossero messi a sgobbare: comunque mentre preparava questa minestra, un angelo lo "afferrò per i capelli" e "con la velocità del vento lo trasferì in Babilonia e lo posò sull'orlo della fossa dei leoni” in cui era stato gettato Daniele. Dunque, di tutti i profeti della Bibbia, Donatello avrebbe ritratto come calvo proprio quello che nella Bibbia viene afferrato da un angelo per i capelli. Ma insomma Daniele può finalmente mangiarsi una minestra, mentre l'angelo riporta immediatamente Abacuc in Palestina. Non è dato sapere cos'abbiano mangiato quel giorno i mietitori. 

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Gerusalemme, sopra ogni gioia

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Il cessate-il-fuoco distende parzialmente i nervi e allenta i riflessi che fin qui vi hanno risparmiato diverse riflessioni oziose, ad esempio: avete presente quelli che hanno preso le distanze dalla manifestazione di Non Una Di Meno perché Non Una Di Meno non prendeva le distanze da Hamas, ecco, molto probabilmente stavano usando un argomento pretestuoso (Non Una Di Meno ha preso le distanze da Hamas), ma secondo voi qual era il vero pretesto: la violenza sulle donne o la causa israelopalestinese?

Ovvero: hanno usato la Palestina come scusa per boicottare una manifestazione contro la violenza di genere, o hanno approfittato della grande esposizione che ha avuto in questi giorni il dibattito sulla violenza di genere per aprire un altro fronte contro i nemici di Israele e chi li appoggia? Gerusalemme è semplicemente una scusa per far notare la propria distanza insormontabile con un certo tipo di sinistra, o è l'unica vera cosa che interessa, il motivo stesso per cui la distanza con quel tipo di sinistra è diventato insormontabile?

Vi avevo avvertito che era una riflessione oziosa – è nato prima l'uovo o la gallina? Può essere l'occasione per mettere a verbale una questione che mi intriga da decenni, ovvero: perché in qualsiasi situazione che preveda una presa di posizione politica, a un certo punto ci si mette a litigare su Gerusalemme, come se fosse una questione di fondamentale importanza, mentre a mente fredda bisognerebbe invece concludere che non lo è? Nemmeno dopo giorni come questi, in cui un piccolo conflitto asimmetrico in una piccola regione del mondo ha fatto più vittime che la grande guerra russo-ucraina su un fronte di centinaia di chilometri: nemmeno oggi, se volessimo restare razionali, potremmo concludere che il destino del mondo dipende dalla risoluzione del conflitto israelopalestinese. È una situazione terribilmente intricata, forse la più intricata di tutte, ma è anche una guerra come tante: perché ci appassiona così? Perché (ma questa forse è una sensazione mia) sembra diventare sempre più cruciale, man mano che il tempo passa? Se è una guerra di civiltà, ne abbiamo altre; se è un conflitto postcoloniale, non sarà l'ultimo; se è una delle caselle del Grande Gioco del Medio Oriente, non è quella più popolata né contiene la maggior parte delle risorse. 

Calenda vigila.

Dopodiché, è chiaro che mi dispiace per israeliani e palestinesi. Ma se dal generico dispiacere passo all'ansia per il futuro, se dovessi mettere per iscritto le prime dieci cose che mi preoccupano, ho la sensazione che Gerusalemme non ci entrerebbe. C'è l'emergenza climatica, è l'anno più caldo di sempre; non sappiamo esattamente cosa mangeranno i nostri figli quando avranno la mia età; dalla Cina sta arrivando un'altra ondata di polmoniti sospette, eccetera eccetera. Abbiamo così tanti motivi di preoccuparci, ma per qualche motivo Gerusalemme ciclicamente torna a catalizzare non solo la nostra attenzione, ma la nostra aggressività. Non saprei dire il perché. Quel che posso dire è che da quando mi ricordo di essere al mondo e partecipo a iniziative politiche, ho avuto modo di notare che procedendo il tempo in senso lineare sulla retta t, prima o poi si arriva sempre a un punto che definirò Y, in cui qualcuno ti chiede di prendere una posizione su Israele e Palestina. 

Ciò avviene invariabilmente e indifferentemente dal motivo per cui è stata organizzata l'iniziativa, ovvero potrebbe trattarsi di una raccolta fondi per gli ex gattini ciechi o per il buco dell'ozono, non importa; la prima volta che assistei con i miei increduli occhi a un evento Y stavamo cercando di organizzare un circolo Arci, che dalle nostre parti significava un bar e una pista per ballare, e mentre ne discutevamo un tizio prese la parola per spiegarci che Arafat voleva mettere gli ebrei nei forni. Lì per lì ci restammo male: non perché credessimo in quel momento che Arafat volesse mettere gli ebrei nei forni, ma insomma come si fa a discutere di un bar quando ci sono problemi del genere all'ordine del giorno, che figura ci stavamo facendo, altro che bar, parliamo un poco di questo Arafat. Vorrei poter dire che è l'ultima volta che ci sono cascato ma ahimè no, altre discussioni furono fatte, altre posizioni furono prese, il bar rimase aperto due mesi (due mesi incredibili, va detto) e però cinque anni dopo mi ritrovavo a Khan Yunis a fissare le torrette di guardia degli israeliani e i buchi delle granate nel cemento, domandandomi: ma che ci faccio, cos'è successo, io ero lì che volevo aprire un bar.

Ma io non faccio probabilmente testo. Ho questa strana formazione biblica (non particolarmente cattolica) per cui in fondo me lo aspetto che ogni strada dialettica ci conduca prima o poi a Gerusalemme, e che l'Armageddon debba cominciare in una spianata lì nei pressi; mentre non ho mai capito come mai gente in teoria laicissima si lasci coinvolgere con tanta foga in dilemmi così assurdi. Davvero, perché non succede mai in mezzo a un corteo femminista scoppi una diatriba sulla Libia o lo Yemen del Nord, cos'ha di Gerusalemme di così fondamentale per tutti, non si sa. Escludo che siano gli ebrei italiani, i primi a dividersi in squadre e a prendere posizioni molto forti (forse anche perché non sentono, come altri adulti, un impulso ad autocensurarle: capita così che tra tutti gli organi di stampa in Italia, un pezzo che ricollega l'attivismo filopalestinese a George Soros, insomma il complotto ebraico contro gli ebrei, venga pubblicato proprio su Open). Si tratta di una piccola comunità, certo ben rappresentata sui media, ma mi sembra comunque inverosimile che riescano a scatenare una diatriba così diffusa e capillare.

  

Io me la ricordo già così

Poi ci sono gli israeliani, ovviamente, e i palestinesi, e ogni volta che li vediamo all'opera nel tentativo di difendere la propria parte, con toni che tradiscono un'aggressività ancora difficile da accettare alle nostre latitudini, mi trovo a rammentare a osservatori sbigottiti che no, non sono simpatici; cosa vi aspettate da gente che si odia da 80 anni, che può nominare padri nonni e bisnonni che si sono fatti fuori a vicenda? Hanno un pelo sullo stomaco che noi neanche ci immaginiamo. È inevitabile che se c'è una manifestazione nazionale su qualsiasi argomento loro cercheranno di parteciparci con più bandiere possibili o mostrare polemicamente che sono stati esclusi con più bandiere possibili. È la continuazione della guerra con altri mezzi, lo hanno sempre fatto ed entro certi limiti è consentito che lo facciano, c'è libertà di espressione qui da noi. Il che non significa che sia giusto dare loro più visibilità di quanta ne meritano, certo, dipende tutto dai giornalisti.

Non credo di essere stato l'unico a notare che nel paio di giorni precedenti a una manifestazione nazionale contro la violenza di genere, sugli organi di stampa più vicini a Israele si è cominciato a ricordare che il 7 ottobre erano stati commessi stupri etnici. Nulla che non sapessimo già, ma improvvisamente se ne riparlava. Sono operazioni di comunicazione che mi lasciano sempre a metà tra l'ammirato e l'allibito, perché davvero, c'è qualcosa di geniale ma anche di molto cinico nel saper sempre trovare in ogni argomento il punto Y, quello che dividerà gli ascoltatori in due fronti che non hanno mai niente a che vedere con la causa per cui stavano marciando, ma sempre con questa benemaledetta Gerusalemme. 

Da decenni la questione israelopalestinese è una cartina al tornasole molto più efficace di teorie economiche o statistiche sul reddito: così come una volta per capire con che ragazzo uscivi dovevi chiedergli che musica ascoltava, da trent'anni per capire se una persona è di sinistra, e di che sinistra è, gli devi semplicemente chiedere cosa ne pensa dei Territori Occupati. E non ci sono sfumature, presentatemi una sola persona che ha cambiato idea sull'argomento almeno dall'assassinio di Rabin in poi. Sono successe tante cose, ma chi stava con gli israeliani sta ancora con loro, e chi stava coi palestinesi, beh, magari la kefiah l'ha messa via, ma a parte questo è ancora dalla stessa parte. Insomma per quanto ne abbiamo parlato in questi trent'anni, non stavamo davvero discutendo. Abbiamo imparato qualcosa? Più che altro abbiamo imparato come ragionano gli avversari, ormai i discorsi sono diventati slogan, gli slogan sono diventati meme, i meme un puro gesticolio. Il vero motivo per cui non litigo più con i sionisti è che mi annoio. Dicono sempre le stesse cose e probabilmente le dovrei dire anch'io. Ogni tanto passo a controllarli e mi sembra il giorno della marmotta, stanno di nuovo parlando di com'è davvero andata nel '48 e del Gran Muftì. Rispetto a loro mi sembra di avere una vita piena e complessa, e allo stesso tempo capisco che per loro dev'essere riposante avere un solo argomento, e su quell'argomento delle idee così chiare e definitive. Hanno un'idea da difendere, che tra le altre cose nel 1948 si è fatta nazione (per quanto a chiamarli nazionalisti si offendano), e per difenderla sono pronti a qualsiasi paradosso, a qualsiasi espediente retorico, il che consentirebbe loro un'esplosione di creatività, se fossero persone creative – salvo che non è quasi mai il caso, non so il perché, forse la creatività rifugge le idee chiare e definitive. Israele deve sopravvivere (dal momento che è minacciata, ogni istante, nella sua stessa esistenza) e questa sopravvivenza è prioritaria su qualsiasi altro problema, anzi, ogni altro problema è conseguente e vale la pena di essere risolto soltanto se contribuisce alla sopravvivenza di Israele e nella modalità in cui contribuisce alla sopravvivenza di Israele. Fiat Israel pereat mundus, è una cosa che leggendoli a volte mi esce dalle labbra. E un po' ci credo, il mondo potrebbe davvero finire. Magari non stavolta, ma intanto c'è già chi suggerisce che Biden si stia giocando la rielezione. Lì c'è un problema a monte: possibile che i Democratici in quattro anni non abbiano trovato meglio del vecchio Biden? Anzi due problemi a monte: possibile che con la loro invidiabile civiltà giuridica Donald Trump sia ancora in lizza? 

Dua Lipa contro il sionismo: chi vincerà?

Quando tutto intorno a me diventa un problema, non posso non sospettare che il problema sia io, il modo in cui mi ostino a vedere le cose. La mia pretesa di individuare problemi che ci minacciano in quanto umanità, problemi che riusciremo a risolvere soltanto tutti assieme: l'ambiente, la pace (intesa anche come riduzione progressiva e sistematica della violenza di genere), eccetera. Non è che alla fine ho sviluppato la mia forma di socialismo utopico? Non è che mi sto illudendo anch'io che il mondo si salverà convincendo i tycoon a convertirsi all'energia pulita e al riciclaggio, mandando qualche esperto a insegnare le emozioni nelle scuole... Gerusalemme sta lì per ricordarmi che no, i problemi non si risolvono mettendosi tutti d'accordo, ma sconfiggendo un avversario che ha una soluzione diversa dalla tua. Con tutte le armi metaforiche e non metaforiche, consentite e non consentite. Filoisraeliani e filopalestinesi mi fanno paura perché capisco che alla fine hanno una priorità che viene prima della pace del mondo, della tutela dell'ambiente e della mia, della loro stessa sopravvivenza, e benché quella priorità da fuori sembri tanto assurda quanto piantare una cazzo di bandierina su una spianata, forse il punto è semplicemente questo: il mondo ha il senso che tu decidi di dargli; non può averne tanti, ne ha uno solo e gli altri dipenderanno da quello. L'avevo pur letta questa cosa, da qualche parte: se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; resti la mia lingua attaccata al palato, se io non mi ricordo di te, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia.

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