513 anni di massacri (dato in aggiornamento)
Rio de Janeiro - Arriva il sole, a Rio, e noi andiamo via. In questi giorni di passaggio tra il mite inverno tropicale e l’estate, possiamo vantarci di aver preso l’ultima “garua” della stagione fredda. Quella fastidiosissima pioggia che non è pioggia, tipica della fascia tropicale sudamericana, che ti bagna dappertutto senza cadere dall’alto perché sta tutta intorno a te.
Con la garua non servono ombrelli. Serve solo rassegnazione e aspettare il sole che ti asciughi. Sole che, assicura il meteo, arriverà proprio domani. Le incantevoli spiagge di Ipanema e Copacabana cominceranno a riempirsi di musica e di bagnanti, e la carovana di Ya Basta partirà per il sud. Ci aspetta una lunga notte in pullman. Da Rio a San Paolo ci sono pressappoco 500 chilometri da percorrere.
Dopo la serata di ieri in cui abbiamo filmato i violenti scontri tra polizia e manifestanti, ci attende una giornata tranquilla. In queste ultime ore dobbiamo ancora incontrare tante persone a Rio: artisti, attivisti, protagonisti dei movimenti che nel giugno di quest’anno, sono scesi in piazza gridando al mondo intero, venuto per assistere alla Confederation Cup, che “Il Brasile si è svegliato” e che, più che di stadi privatizzati, hanno bisogno di ospedali e servizi. Ospedali e servizi. Un modo come un altro per chiedere democrazia, partecipazione, giustizia sociale, tutela dell’ambiente e della diversità.
Le persone da incontrare, dicevamo, sono tante e decidiamo di dividerci in piccoli gruppi con l’intenzione di ritrovarci verso sera al Maracanà. Non per assistere ad un bel derby “Fla - Flu” tra il Flamingo e la Fluminense,ma per visitare una strana palazzina che ai tempi di don Pedro imperatore doveva essere pure elegante, ma che adesso ti guarda come se fosse appena scampata da un terremoto. Sorge a un tiro di sasso dal Maracanà tirato a lucido per il mondiale prossimo venturo. Vicino a quel complesso di architetture lineari ed avveniristiche, la palazzina disastrata salta agli occhi come un pinguino che passeggia per piazza San Marco.
Avvicinandosi all’edificio, si capisce subito che è sotto assedio. Un assedio “duro”, di quelli in cui non si fanno prigionieri. Sulla finestra nobiliare del primo piano campeggia una striscione: “resiste”. Tutto attorno è stato tirato sù un reticolato da cantiere edile. Nei cartelloni appesi si legge: “il petrolio è nostro e il Maracanà pure”, “513 anni di massacri”.
Dentro, è Amazzonia. Quelli che vengono ad aprire il lucchettone per farci entrare sono tutti indigeni, per lo più della nazione Guaranì, anche se ti mettono subito in chiaro che sono oltre una 50ina le tribù che hanno dato origine all’occupazione.
Due di loro, parlando a turno, ci raccontano la storia di quell’incredibile palazzo che fu donato agli indigeni dall’imperatore don Pedro Secondo nel 1862. “Fu il primo riconoscimento ufficiale ai popoli originari - mi spiega Evandro - Per anni è stato un luogo magico per noi, i capi di oltre trecento nazioni originarie venivano sin qui, dopo interminabili viaggi in canoa o a cavallo, per incontrarsi e discutere. Rio allora era la capitale del Paese. E anche il luogo è simbolico. Qui sotto c’è l’ultimo cimitero dei Tupinanbù, una delle tribù estinte per l’arrivo dei bianchi. Sempre qui, nel 1910 Candido Marechal Rondon, un indigeno che aveva il grado di maresciallo nell’esercito, fondò il Servizio di Protezione Indigeno, togliendo le competenze in tema di popoli originali al ministero per la Guerra. Ancora qui, il 19 aprile del ’53 ci fu un grande incontro di tutte le nazioni sopravvissute e fu istituito il Museu Do Indio. Ancora oggi, in Brasile, si festeggia il 19 aprile come il giorno dei “popoli originari”.
Poi arrivano gli anni della dittatura militare. L’Amazzonia, indigeni compresi, viene venduta - ma sarebbe il caso di scrivere “regalata” - alle multinazionali. Nel ’78 il Museo fu trasferito nel quartiere di Botafogo. Perse la sua funzione di luogo di incontro per divenire un museo sterile, con l’entrata a pagamento, destinato per lo più ai turisti. La palazzina fu abbandonata a se stessa e divenne una delle sedi in cui gli squadroni della morte torturavano ed uccidevano gli oppositori del regime.
Nel 2006, con Lula al potere, una rappresentanza di indigeni, molti dei quali studenti della vicina università che si trova proprio dall’altra parte del Maracanà, decise di occupare (“ma noi preferiamo dire: riappropriarci”) della struttura. La palazzina fu rimessa a nuovo, furono sistemati uffici e nuove esposizioni artistiche, si organizzarono corsi di lingua indigena e di artigianato.
A cambiare le carte in tavola, ci pensa la Confederation Cup e il Mondiale. Il terreno del Maracanà è una miniera d’oro per la speculazione edilizia. Le aziende che hanno preso in gestione il Maracanà, diminuendo i posti e alzando i prezzi dei biglietti (“oramai bisogna essere ricchi per andare allo stadio - mi ha confessato un tassista - Non è più il luogo dove si saltava e si cantava tutti insieme. Ci hanno rubato un pezzo di anima”) progettano di costruire sopra il Museu Do Indio uno shopping center.
La polizia arriva la prima volta il 12 gennaio e sgombera di brutto gli occupanti. Qualche giorno dopo, gli indigeni sfondano i sigilli e si rimpossessano della loro palazzina. La polizia militare ritorna ancora il 22 marzo. Stavolta è una guerra. “Io ero qui e non avevo mai visto uno schieramento simile. Neppure sotto la dittatura. Avevano portato anche i carri armati - racconta Maria De Fatima De Lima Pinel, antropologa all’università federale Fluminense - Hanno picchiato donne e bambini, spaccato tutto quello che hanno trovato, dalle finestre agli arredi... tutto l’artigianato artistico è stato buttato in discarica... hanno divelto il pavimento e sfondato i soffitti... roba che per poco non gli cadeva tutto in testa! Con le ruspe hanno rivoltato la terra dove sorgeva l’orto botanico indigeno, ammassandola verso le porte. Quella finestra che vedi semi coperta, era il piano terra. I militari non si sono fermati neppure quando la terra ha restituito le ossa dei torturati!”
“E sai perché sono stati così violenti? - mi spiega Evandro - Perché non avevano un mandato! Quello se lo sono fatto fare una settimana dopo!”
Tanta violenza, tanta distruzione, tanta stupidità, tanta cattiveria. Tutto per niente. Il 5 agosto, con l’appoggio dei movimenti popolari che protestavano contro la vendita ai privati del Maracanà, gli attivisti indigeni si sono ri- ripresi la loro palazzina.
Piano, piano, con la perseveranza di chi sa di essere nel giusto, la stanno risistemando. Ne vogliono fare un’università, dicono. La prima università mondiale dei popoli originari.
Nè le ruspe, nè le botte, nè i carri armati sono riusciti a fargli cambiare idea.
Loro sono ancora là. Come erano là, quel 12 ottobre del 1492, quando un certo Colombo arrivò a bordo di una caravella.
Dopo la serata di ieri in cui abbiamo filmato i violenti scontri tra polizia e manifestanti, ci attende una giornata tranquilla. In queste ultime ore dobbiamo ancora incontrare tante persone a Rio: artisti, attivisti, protagonisti dei movimenti che nel giugno di quest’anno, sono scesi in piazza gridando al mondo intero, venuto per assistere alla Confederation Cup, che “Il Brasile si è svegliato” e che, più che di stadi privatizzati, hanno bisogno di ospedali e servizi. Ospedali e servizi. Un modo come un altro per chiedere democrazia, partecipazione, giustizia sociale, tutela dell’ambiente e della diversità.
Le persone da incontrare, dicevamo, sono tante e decidiamo di dividerci in piccoli gruppi con l’intenzione di ritrovarci verso sera al Maracanà. Non per assistere ad un bel derby “Fla - Flu” tra il Flamingo e la Fluminense,ma per visitare una strana palazzina che ai tempi di don Pedro imperatore doveva essere pure elegante, ma che adesso ti guarda come se fosse appena scampata da un terremoto. Sorge a un tiro di sasso dal Maracanà tirato a lucido per il mondiale prossimo venturo. Vicino a quel complesso di architetture lineari ed avveniristiche, la palazzina disastrata salta agli occhi come un pinguino che passeggia per piazza San Marco.
Avvicinandosi all’edificio, si capisce subito che è sotto assedio. Un assedio “duro”, di quelli in cui non si fanno prigionieri. Sulla finestra nobiliare del primo piano campeggia una striscione: “resiste”. Tutto attorno è stato tirato sù un reticolato da cantiere edile. Nei cartelloni appesi si legge: “il petrolio è nostro e il Maracanà pure”, “513 anni di massacri”.
Dentro, è Amazzonia. Quelli che vengono ad aprire il lucchettone per farci entrare sono tutti indigeni, per lo più della nazione Guaranì, anche se ti mettono subito in chiaro che sono oltre una 50ina le tribù che hanno dato origine all’occupazione.
Due di loro, parlando a turno, ci raccontano la storia di quell’incredibile palazzo che fu donato agli indigeni dall’imperatore don Pedro Secondo nel 1862. “Fu il primo riconoscimento ufficiale ai popoli originari - mi spiega Evandro - Per anni è stato un luogo magico per noi, i capi di oltre trecento nazioni originarie venivano sin qui, dopo interminabili viaggi in canoa o a cavallo, per incontrarsi e discutere. Rio allora era la capitale del Paese. E anche il luogo è simbolico. Qui sotto c’è l’ultimo cimitero dei Tupinanbù, una delle tribù estinte per l’arrivo dei bianchi. Sempre qui, nel 1910 Candido Marechal Rondon, un indigeno che aveva il grado di maresciallo nell’esercito, fondò il Servizio di Protezione Indigeno, togliendo le competenze in tema di popoli originali al ministero per la Guerra. Ancora qui, il 19 aprile del ’53 ci fu un grande incontro di tutte le nazioni sopravvissute e fu istituito il Museu Do Indio. Ancora oggi, in Brasile, si festeggia il 19 aprile come il giorno dei “popoli originari”.
Poi arrivano gli anni della dittatura militare. L’Amazzonia, indigeni compresi, viene venduta - ma sarebbe il caso di scrivere “regalata” - alle multinazionali. Nel ’78 il Museo fu trasferito nel quartiere di Botafogo. Perse la sua funzione di luogo di incontro per divenire un museo sterile, con l’entrata a pagamento, destinato per lo più ai turisti. La palazzina fu abbandonata a se stessa e divenne una delle sedi in cui gli squadroni della morte torturavano ed uccidevano gli oppositori del regime.
Nel 2006, con Lula al potere, una rappresentanza di indigeni, molti dei quali studenti della vicina università che si trova proprio dall’altra parte del Maracanà, decise di occupare (“ma noi preferiamo dire: riappropriarci”) della struttura. La palazzina fu rimessa a nuovo, furono sistemati uffici e nuove esposizioni artistiche, si organizzarono corsi di lingua indigena e di artigianato.
A cambiare le carte in tavola, ci pensa la Confederation Cup e il Mondiale. Il terreno del Maracanà è una miniera d’oro per la speculazione edilizia. Le aziende che hanno preso in gestione il Maracanà, diminuendo i posti e alzando i prezzi dei biglietti (“oramai bisogna essere ricchi per andare allo stadio - mi ha confessato un tassista - Non è più il luogo dove si saltava e si cantava tutti insieme. Ci hanno rubato un pezzo di anima”) progettano di costruire sopra il Museu Do Indio uno shopping center.
La polizia arriva la prima volta il 12 gennaio e sgombera di brutto gli occupanti. Qualche giorno dopo, gli indigeni sfondano i sigilli e si rimpossessano della loro palazzina. La polizia militare ritorna ancora il 22 marzo. Stavolta è una guerra. “Io ero qui e non avevo mai visto uno schieramento simile. Neppure sotto la dittatura. Avevano portato anche i carri armati - racconta Maria De Fatima De Lima Pinel, antropologa all’università federale Fluminense - Hanno picchiato donne e bambini, spaccato tutto quello che hanno trovato, dalle finestre agli arredi... tutto l’artigianato artistico è stato buttato in discarica... hanno divelto il pavimento e sfondato i soffitti... roba che per poco non gli cadeva tutto in testa! Con le ruspe hanno rivoltato la terra dove sorgeva l’orto botanico indigeno, ammassandola verso le porte. Quella finestra che vedi semi coperta, era il piano terra. I militari non si sono fermati neppure quando la terra ha restituito le ossa dei torturati!”
“E sai perché sono stati così violenti? - mi spiega Evandro - Perché non avevano un mandato! Quello se lo sono fatto fare una settimana dopo!”
Tanta violenza, tanta distruzione, tanta stupidità, tanta cattiveria. Tutto per niente. Il 5 agosto, con l’appoggio dei movimenti popolari che protestavano contro la vendita ai privati del Maracanà, gli attivisti indigeni si sono ri- ripresi la loro palazzina.
Piano, piano, con la perseveranza di chi sa di essere nel giusto, la stanno risistemando. Ne vogliono fare un’università, dicono. La prima università mondiale dei popoli originari.
Nè le ruspe, nè le botte, nè i carri armati sono riusciti a fargli cambiare idea.
Loro sono ancora là. Come erano là, quel 12 ottobre del 1492, quando un certo Colombo arrivò a bordo di una caravella.