Miseria e grattacieli

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San Paolo - La stazione degli autobus di Rio, come di tutte le altre città sudamericane in cui sono vissuto, è quanto più in Europa somiglia ad un aeroporto. Collegano enormi e lontane città col criterio della “fermata unica”. Ore ininterrotte di “volo” senza neppure prendere in considerazione una sosta nelle periferie, che a queste latitudini del mondo sono considerate come fastidi necessari dalle logiche dello “sviluppo economico”.
Ci sono i gate, le grandi sale di attesa con annessi bar, ristoranti e negozi di souvenir, gli schermi luminosi delle partenze e gli stand delle tante compagnie. Anche il biglietto è illeggibile proprio come quello degli aerei. Tutto bello e luccicante. E la prima impressione è che tutto sia pure facile ed ordinato. E come tutto quello che in Sudamerica appare ordinato quando ci vai a sbattere scopri che è di un incasinato che travalica qualsiasi criterio occidentale di razionalizzazione del fenomeno. A pelo, col biglietto in mano e col sistema “fai finta di essere stupido, mostra il tagliando, domanda a tutti quelli che incontri e spera”, riusciamo a salire sul nostro autobus. Bisogna mostrare i documenti al gate e qualcuno di noi ha lasciato il passaporto a Rio (così come le mutande e le calze. “Però mi sono ricordato dello spazzolino”). Ma siamo in Sudamerica. Uno conosce uno che conosce un altro e si parte lo stesso. E puntuali pure. E’ mezzanotte e mezzo.
Dopo sei ore trascorse a battagliare contro lo schienale del posto davanti, arriviamo a San Paolo che il sole è appena spuntato.
“Fais un frio pracarahio” è stato il primo commento. Ci infiliamo tutto quello di pesante che troviamo nel nostro guardaroba e raggiungiamo l’ostello.
Dire che siamo “nel cuore” di San Paolo non vorrebbe dire niente. La città - 20 milioni di abitanti - è troppo grande per avere un cuore. Ci basta un’ora di metropolitana in puro stile “linea 1 per il Lido” e un’occhiata ai grattacieli che ci sovrastano non appena usciamo come topi spaventati dal tunnel della metro, per capire che San Paolo non ha un cuore. E’ solo una immensa strada, l’Avenida Paolista, dove non vive nessun vivo. Banche, telefonie, shopping, grandi firme. Quattro o cinque chilometri di finestre tirate a lucido, altissimi edifici che se hanno meno di 15 piani gli viene il complesso del pigmeo. Su questa strada, addirittura il Palais Lumiére di Piero Cardin avrebbe avuto un suo senso. Il problema è che qui, in un mare di architetture da base spaziale, nessuno si accorgerebbe neppure della sua esistenza.
Il nuovo ostello non è colorato come quello di Rio. Sorge nel quartiere Bella Vista colonizzato da migranti... indovinate voi la nazionalità! Tre o quattro stanzoni da nove posti l’uno. Due tazze e una doccia per tutti. Domani mattina sarà una guerra.
Il pomeriggio lo dedichiamo ad esplorare la città. C’è uno di noi che deve comperarsi mutande e calzini, oltre che capire come tornare a Rio senza passaporto.
Ci dirigiamo verso Praça da Sé, dove sorge la cattedrale dedicata ad un tizio che un bel giorno ha deciso che gli indigeni dovevano assolutamente essere convertiti e per questo lo hanno fatto santo. Gli hanno pure fatto un bel monumento. Lui in alto sul basamento che guarda verso dio e gli “indio” ai piedi con faccia illuminata dalla gratitudine.
Man mano che ci si allontana dall’avenida Paulista, i grattacieli diventano sempre più disastrati. Finestre rotte, intonaco da reduce di guerra... solo l’altezza rimane. Trenta piani là, quaranta e cinquanta qua. Per trovare uno sputo di verde - peraltro battuto da un via via continuo di pattuglie di polizia civile in moto e di autoblindo da guerra della polizia militare - bisogna arrivare alla cattedrale. Attorno ai ricami gotici dei pinnacoli, ho contato quattro accampamenti di senza casa. I più fortunati con una tenda rattoppata, i meno sotto un cartone. Ci saranno perlomeno due o trecento disperati. Senza contare quelli che abbiamo visto per la strada. E questa sarebbe la “piazza San Marco” di San Paolo. “La polizia ha provato più volte ad allontanarli - mi ha spiegato un amico che vive qui da tanti anni - ma non ci riesce. Tornano sempre. Sono troppi”.
Attorno a noi fa sempre più freddo e torniamo gelati all’ostello. La notte scende in fretta a San Paolo. E non per questioni astronomiche. I grattacieli sono troppo alti e rubano luce e respiro. Si cammina in strettissimi canyon di cemento, tra la puzza dei gas di scarico e il tanfo delle immondizie rivoltate dai disperati in cerca di cibo. Il sole sparisce presto dalle strade pauliste. Rimane solo per un altro po’ ad illuminare le cime dei grattaceli più alti.
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