Il Burundi si prepara alla pulizia etnica
Il genocidio corre sul fax. Quattro pagine in tutto che portano la data di giovedì 3 aprile 2014.
Quattro sintetiche pagine con le quali l’ufficio di rappresentanza dell’Onu di Bujumbura, capitale del Burundi, informa l’assemblea delle Nazioni Unite che il Cndd, il partito al potere nel piccolo Stato centrafricano, ha cominciato a distribuire armi, alcolici e uniformi ai miliziani dell’Imbonerakure.
Una storia che abbiamo già letto. Impossibile non ritornare con la memoria a quel sanguinoso aprile del 94’ quando in Rwanda il Governo distribuì birra e machete ai paramilitari dell’Interahamwe e cominciò il genocidio dei tutsi.
All’epoca, fu il generale dei Caschi Blu Roméo Dallaire che nel suo libro “Ho stretto la mano al diavolo” indicò questa mossa come il punto di non ritorno di quanto accadde poi, a spedire da Kigali un simile fax alle Nazioni Unite. Ieri come oggi, l’avvertimento e caduto nel vuoto e l’assemblea dell’Onu non si neppure degnata di una risposta.
I paralellismi con il genocidio rwandese sono davvero preoccupanti. In Burundi, come già era in Rwanda, la maggioranza hutu al Governo preme per rafforzare il suo potere ai danni della minoranza tutsi. La crisi e una politica economica asservita ai dettami di “sviluppo” imposti della Banca Mondiale che ha privatizzato l’intero Paese, svenduto le risorse e fatto piazza pulita di ogni ammortizzatore sociale, ha gettato la popolazione nella disperazione. Un palcoscenico ideale per dare sfogo all’odio razziale ed individuare nei tutsi la causa di tutti i mali che affliggono il Paese. Esattamente quento sta facendo il presidente Pierre Nkurunziza nell’intento di costringere la Corte Costituzionale a scombinare le carte in tavola e permettergli di ripresentarsi alle elezioni per il terzo mandato consecutivo. Proposta questa, che il Parlamento gli ha bocciato per un solo voto di scarto. L’asseblea degli eletti in cui è costituzionalmente garantita una forte rappresentanza tutsi compresa la carica di vice presidente, è il principale ostacolo che si frappone tra il presidente Nkurunziza e il consolidamente del suo potere politico. Per bypassare il legittimo parlamento, il presidente hutu ha proposto una dozzina di emendamenti alla Costituzione che mirano ad azzerare l’attuale equilbrio tra le due etnie e a consentirgli di non dover abdicare dopo la scadenza del suo secondo mandato, nel 2015. Il “pacchetto” prevede inoltre l’abolizione del diritto per militari e polizia di associarsi in sindacato e di scioperare, uno sbarramento al 5% per la rappresentanza dei partiti in parlamento, e l’istituzione di un insindacabile diritto di veto a disposizione del Capo del Governo (che è sempre Nkurunziza) sull’eleggibilità dei candidati alle elezioni presidenziali.
Un colpo di Stato in piena regola per attuare il quale, Pierre Nkurunziza deve necessariamente soffiare sul fuoco dell’odio interetnico e percorrere la stessa strada che in Rwanda ha portato alla guerra civile e al genocidio.
Secondo quando afferma il sempre ben documentato sito African Voices, dalle montagne del Burundi ha già cominciato a trasmettere Radio Rema Fm diffondendo notizie false sulle responsabilità dei tutsi nella crisi e incitando la popolazione al massacro. Anche questa è una storia già letta nel vicino Rwanda, quando Radio Mille Colline sputava odio su tutto il Paese invitando la gente a “schiacciare con ogni mezzo gli scarafaggi tutsi”. Stando ad una indiscrezione del giornale inglese Guardian, a tirare le file di Radio Rema Fm ci sarebbe lo stasso Georges Reggiu, già conduttore di Radio Mille Colline e condannato a svariati anni di carcere dal tribunale speciale costituitosi per giudicare i responsabili del genocidio rwandese. Grazie ad un accordo tra l’Italia e le Nazioni Unite, Reggiu, che aveva un passaporto belga, era stato estradato in Italia per scontare la sua pena ma fu, immediatamente e misteriosamente, graziato dal nostro presidente Silvio Berlusconi.
Georges Reggiu fu anche uno dei principali teorici del cosidetto “Potere Hutu” che afferma la superiorità della “razza hutu” sui tutsi cosiderati alla stregua di “blatte” da eliminare necessariamente prima di incamminarsi verso gli alti destini cui gli hutu sono destinati per grazie divina. Una ideologia (se possiamo chiamarla così) semplice ed efficace adatta a far presa su persone disperate, violente e alcolizzate come erano gli Interahamwe, “coloro che combattono assieme”, del Rwanda e ora gli Imbonerakure, “coloro che vedono lontano”, del Burundi.
Gli effetti di questo scroscio di violenza sono già palpabili nel piccolo Paese centrafricano. Le poche voci di ambientalisti, giornalisti e pacifisti che invitavano al dialogo e alla difesa dei diritti costituzionali, sono già state fatte zittire. Oltre un migliaio di persone - sia tutsi che hutu - sono state incarcerate. Altri ancora fatti sparire dalle milizie paramilitari. Il clou è stato toccato nell’ultimo 8 marzo, giornata mondiale della donna, quando una pacifica manifestazione nella capitale è stata repressa con brutalità inaudita, stupri e pestaggi compresi, dalle forze dell’ordine al diretto comando del presidente Nkurunziza. In questa occasione sono stati arrestati e già condanati all’ergastolo per “tentata insurrezione” tutti i 71 principali esponenti del Movimento Solidarietà e Democrazia, il primo partito di opposizione.
Lo scoppio di una guerra civile in Burundi rischierebbe inevitabilmente di estendersi ai Paese confinanti, Congo, Uganda e Rwanda per primi.
In Congo, ricordiamolo, sono tuttora stanziati i campi addestramento dei circa 12 mila miliziani dell Fdlr, le cosidette Forze democratiche per la liberazione del Rwanda che costituirono la manodopera per il genocidio perpetuato a colpi dei machete acquistati in saldo dalla repubblica Popolare comunista della Cina del ’94.
Ancora, storie già lette che si ripresentano nell’indifferenza, se non nella complicità, del mondo civile. Neppure un anno fa, nel settembre del 2013, col supporto neppure tanto velato del Governo congolese che sperava di toglierseli dal suo territorio, e della Francia che mirava a riconquistare l’influenza economica perduta dopo la presa del potere di Paul Kagame in Rwanda, i paramilitari dell’Fdlr tentarono inutilmente di invadere il Paese confinante per “finire il buon lavoro cominciato nel ’94”, come disse un loro esponente. L’operazione che in Francia chiamarono “Abacuguzi”, non riuscì per l’intervento di Inghilterra e Usa.
Ancora, come all’epoca del colonialismo, a dettare i tempi di stragi e genocidi sono sempre e comunque le civili potenze occidentali.
Vale la pena, in chiusura del mio articolo, di spendere due parole su tutsi e hutu. Contrariamente a quanto i più credono non si tratta di due diverse etnie. Piuttosto, come spiega l’indimenticabile giornalista Ryszard Kapuściński, si tratta di due caste: i tutsi legati all’allevamento e alla gestione del potere politico, e gli hutu all’agricoltura. Ma gli appartenenti all’una o all’atra casta sono biologicamente indistinguibili gli uni dagli altri. Non si trattava neppure caste chiuse, come quelle indiane. Il re del Paese della Mille Colline aveva il potere, ad esempio regalando una mandria ad un suo fedele vassallo, di elevare un hutu in tutsi. La cattiva sorte o la perdita dei suoi “lunghe corna” trasformava invece un tutsi in hutu. Furono i colonizzatori belgi e in particolare i missionari cristiani a farne due etnie, formalizzando l’appartenenza alla “razza” tutsi o hutu sui documenti. Una mossa pensata per dividere il Paese e governarlo meglio, contando sulla minoranza tutsi per affiancare i “padroni bianchi” sulla gestione del potere politico.
Neppure 50 anni dopo, tutto ciò si tradurrà in genocidio. Una parola che prima che arrivassero i colonizzatori era non solo sconosciuta ma anche intraducibile nelle tante lingue del continente nero.
Una storia che abbiamo già letto. Impossibile non ritornare con la memoria a quel sanguinoso aprile del 94’ quando in Rwanda il Governo distribuì birra e machete ai paramilitari dell’Interahamwe e cominciò il genocidio dei tutsi.
All’epoca, fu il generale dei Caschi Blu Roméo Dallaire che nel suo libro “Ho stretto la mano al diavolo” indicò questa mossa come il punto di non ritorno di quanto accadde poi, a spedire da Kigali un simile fax alle Nazioni Unite. Ieri come oggi, l’avvertimento e caduto nel vuoto e l’assemblea dell’Onu non si neppure degnata di una risposta.
I paralellismi con il genocidio rwandese sono davvero preoccupanti. In Burundi, come già era in Rwanda, la maggioranza hutu al Governo preme per rafforzare il suo potere ai danni della minoranza tutsi. La crisi e una politica economica asservita ai dettami di “sviluppo” imposti della Banca Mondiale che ha privatizzato l’intero Paese, svenduto le risorse e fatto piazza pulita di ogni ammortizzatore sociale, ha gettato la popolazione nella disperazione. Un palcoscenico ideale per dare sfogo all’odio razziale ed individuare nei tutsi la causa di tutti i mali che affliggono il Paese. Esattamente quento sta facendo il presidente Pierre Nkurunziza nell’intento di costringere la Corte Costituzionale a scombinare le carte in tavola e permettergli di ripresentarsi alle elezioni per il terzo mandato consecutivo. Proposta questa, che il Parlamento gli ha bocciato per un solo voto di scarto. L’asseblea degli eletti in cui è costituzionalmente garantita una forte rappresentanza tutsi compresa la carica di vice presidente, è il principale ostacolo che si frappone tra il presidente Nkurunziza e il consolidamente del suo potere politico. Per bypassare il legittimo parlamento, il presidente hutu ha proposto una dozzina di emendamenti alla Costituzione che mirano ad azzerare l’attuale equilbrio tra le due etnie e a consentirgli di non dover abdicare dopo la scadenza del suo secondo mandato, nel 2015. Il “pacchetto” prevede inoltre l’abolizione del diritto per militari e polizia di associarsi in sindacato e di scioperare, uno sbarramento al 5% per la rappresentanza dei partiti in parlamento, e l’istituzione di un insindacabile diritto di veto a disposizione del Capo del Governo (che è sempre Nkurunziza) sull’eleggibilità dei candidati alle elezioni presidenziali.
Un colpo di Stato in piena regola per attuare il quale, Pierre Nkurunziza deve necessariamente soffiare sul fuoco dell’odio interetnico e percorrere la stessa strada che in Rwanda ha portato alla guerra civile e al genocidio.
Secondo quando afferma il sempre ben documentato sito African Voices, dalle montagne del Burundi ha già cominciato a trasmettere Radio Rema Fm diffondendo notizie false sulle responsabilità dei tutsi nella crisi e incitando la popolazione al massacro. Anche questa è una storia già letta nel vicino Rwanda, quando Radio Mille Colline sputava odio su tutto il Paese invitando la gente a “schiacciare con ogni mezzo gli scarafaggi tutsi”. Stando ad una indiscrezione del giornale inglese Guardian, a tirare le file di Radio Rema Fm ci sarebbe lo stasso Georges Reggiu, già conduttore di Radio Mille Colline e condannato a svariati anni di carcere dal tribunale speciale costituitosi per giudicare i responsabili del genocidio rwandese. Grazie ad un accordo tra l’Italia e le Nazioni Unite, Reggiu, che aveva un passaporto belga, era stato estradato in Italia per scontare la sua pena ma fu, immediatamente e misteriosamente, graziato dal nostro presidente Silvio Berlusconi.
Georges Reggiu fu anche uno dei principali teorici del cosidetto “Potere Hutu” che afferma la superiorità della “razza hutu” sui tutsi cosiderati alla stregua di “blatte” da eliminare necessariamente prima di incamminarsi verso gli alti destini cui gli hutu sono destinati per grazie divina. Una ideologia (se possiamo chiamarla così) semplice ed efficace adatta a far presa su persone disperate, violente e alcolizzate come erano gli Interahamwe, “coloro che combattono assieme”, del Rwanda e ora gli Imbonerakure, “coloro che vedono lontano”, del Burundi.
Gli effetti di questo scroscio di violenza sono già palpabili nel piccolo Paese centrafricano. Le poche voci di ambientalisti, giornalisti e pacifisti che invitavano al dialogo e alla difesa dei diritti costituzionali, sono già state fatte zittire. Oltre un migliaio di persone - sia tutsi che hutu - sono state incarcerate. Altri ancora fatti sparire dalle milizie paramilitari. Il clou è stato toccato nell’ultimo 8 marzo, giornata mondiale della donna, quando una pacifica manifestazione nella capitale è stata repressa con brutalità inaudita, stupri e pestaggi compresi, dalle forze dell’ordine al diretto comando del presidente Nkurunziza. In questa occasione sono stati arrestati e già condanati all’ergastolo per “tentata insurrezione” tutti i 71 principali esponenti del Movimento Solidarietà e Democrazia, il primo partito di opposizione.
Lo scoppio di una guerra civile in Burundi rischierebbe inevitabilmente di estendersi ai Paese confinanti, Congo, Uganda e Rwanda per primi.
In Congo, ricordiamolo, sono tuttora stanziati i campi addestramento dei circa 12 mila miliziani dell Fdlr, le cosidette Forze democratiche per la liberazione del Rwanda che costituirono la manodopera per il genocidio perpetuato a colpi dei machete acquistati in saldo dalla repubblica Popolare comunista della Cina del ’94.
Ancora, storie già lette che si ripresentano nell’indifferenza, se non nella complicità, del mondo civile. Neppure un anno fa, nel settembre del 2013, col supporto neppure tanto velato del Governo congolese che sperava di toglierseli dal suo territorio, e della Francia che mirava a riconquistare l’influenza economica perduta dopo la presa del potere di Paul Kagame in Rwanda, i paramilitari dell’Fdlr tentarono inutilmente di invadere il Paese confinante per “finire il buon lavoro cominciato nel ’94”, come disse un loro esponente. L’operazione che in Francia chiamarono “Abacuguzi”, non riuscì per l’intervento di Inghilterra e Usa.
Ancora, come all’epoca del colonialismo, a dettare i tempi di stragi e genocidi sono sempre e comunque le civili potenze occidentali.
Vale la pena, in chiusura del mio articolo, di spendere due parole su tutsi e hutu. Contrariamente a quanto i più credono non si tratta di due diverse etnie. Piuttosto, come spiega l’indimenticabile giornalista Ryszard Kapuściński, si tratta di due caste: i tutsi legati all’allevamento e alla gestione del potere politico, e gli hutu all’agricoltura. Ma gli appartenenti all’una o all’atra casta sono biologicamente indistinguibili gli uni dagli altri. Non si trattava neppure caste chiuse, come quelle indiane. Il re del Paese della Mille Colline aveva il potere, ad esempio regalando una mandria ad un suo fedele vassallo, di elevare un hutu in tutsi. La cattiva sorte o la perdita dei suoi “lunghe corna” trasformava invece un tutsi in hutu. Furono i colonizzatori belgi e in particolare i missionari cristiani a farne due etnie, formalizzando l’appartenenza alla “razza” tutsi o hutu sui documenti. Una mossa pensata per dividere il Paese e governarlo meglio, contando sulla minoranza tutsi per affiancare i “padroni bianchi” sulla gestione del potere politico.
Neppure 50 anni dopo, tutto ciò si tradurrà in genocidio. Una parola che prima che arrivassero i colonizzatori era non solo sconosciuta ma anche intraducibile nelle tante lingue del continente nero.