Salli danzava

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Venezia. Salli danzava sempre. Potevamo camminare quattro, cinque ore strascicando i piedi nel fango della selva Lacandona e poi arrampicarci su per le sue verdi montagne sino allo sfinimento.
Ma quando arrivavamo al pueblo, Salli posava lo zaino e si metteva a ballare felice. Dove trovasse le energie per farlo, non lo mai capito. Sarà stato che aveva solo 21 anni. O forse sarà stato il sangue, metà texano e metà spagnolo. Salli Marcela Grace Ellier, per chiamarla col suo nome per intero, era nata a due passi dal Rio Bravo. Sulla sponda “giusta” del Big River, quella a “stelle e strisce” che guarda a sud con lo stesso disprezzo con cui dalla fortezza Europa si guarda al Marocco o alla Romania.
Terra di confine, la sua. Ma lei era di quelle che non si fermano ai confini di niente. Guardava oltre, Salli, col cuore e col pensiero. Non aveva paura a sporgersi.
Dal padre texano aveva ereditato l’aspetto “english”. Salli era alta, bionda e molto bella. Dalla madre, l’anima latina. Ho conosciuto Salli questo estate al caracol de La Garrucha. Partecipava, come me, alla carovana “Los zapatistas no estan solos“ in viaggio di solidarietà ai municipi insorti del Chiapas.
Una delle prima cose che Salli mi ha raccontato di sé è che le scorreva sangue “gipsy” nelle vene. Ne andava fiera. Forse da là le veniva la voglia di ballare sempre. Ci sono molti “gipsy” nomadi (Salli diceva “free”, liberi) che vivono nella frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico. Lei aveva voluto farsi un tatuaggio – quello che poi servirà per il riconoscimento del corpo – su una spalla alla loro maniera. Sempre dai suoi gipsy, aveva imparato ad adoperare due specie di nacchere d’argento che faceva tintinnare a tempo mentre danzava. Salli non aveva bisogno della musica per mettersi a ballare. Se qualcuno suonava meglio, sennò si faceva bastare le sue nacchere d’argento. Quando ho saputo che l’avevano stuprata, torturata e poi ammazzata sono andato a rivedere le foto che ho scattato in Chiapas. Ne ho trovato perlomeno una dozzina in cui lei sta ballando assieme a Ciro: Salli fa tintinnare i suoi campanellini gipsy d’argento e Ciro le sue nacchere napoletane di legno. Tutti gli altri facevano capannello attorno. Nessuno di noi aveva il coraggio di ballare con loro perché nessuno di noi era bravo come loro. Ci accontentavamo di guardarli e di applaudirli. Anche gli insurgentes si avvicinavano per guardarli ballare dietro i loro cappucci neri. E dal brillare degli occhi si capiva che anche loro stavano ridendo. Magari pensavano che questi “compas” venuti da lontano dovevano essere un po’ locos... un po’ pazzerelli.
Io ero il traduttore di fiducia di Salli quando doveva comunicare con Ciro. Ed era un bel tradurre! Lei parlava un misto di spagnolo e inglese, saltando dall’una all’altra lingua con criteri che andavano al di là delle mie capacità di comprensione. Ciro parlava tutte le lingue del mondo, ma tutte in napoletano.
Il fatto è che Salli e Ciro non avevano bisogno di capirsi con le parole. Lei ballava tutti i balli del mondo, con una predilezione per il flamenco ma ad esclusione della tarantella. Ciro, pure lui, ballava tutti i balli del mondo ma tutti con gli stessi passi della tarantella. E’ andata a finire che Salli ha imparato la tarantella. Cinque minuti a seguire Ciro e poi danzava che pareva nata nel rione Sanità.
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Ho detto addio a Salli, a San Cristobal, a metà agosto, all’università della Terra, avamposto zapatista in piena capitale del Chiapas. Stava infilando nello zaino le sue preziose nacchere d’argento avvolte in un “paliacate” zapatista per proteggerle dagli urti.
Io avrei fatto ritorno nella selva Lacandona per accompagnare la brigata medica, lei, mi disse, voleva tornare a nord, ad Oaxaca, dove era impegnata
in una associazione che combatteva a fianco delle donne messicane vittime di violenze e persecuzioni; mogli, madri e figlie di prigionieri politici o dei tanti desaparecidos. Sapevo, perché me lo aveva raccontato una amica comune, che Salli aveva ricevuto minacce di morte. Non le dissi neppure “be carefull” o “cuidada” perché tanto lei non sarebbe mai stata attenta.
Quel che restava del suo corpo, dopo le torture, lo hanno trovato mercoledì 24 settembre in mezzo ad un campo coltivato vicino a San José del Pacífíco, a circa 170 chilometri dalla città di Oaxaca. Un’amica è riuscita a riconoscerla soltano per il suo tatuaggio gipsy.
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I suoi compagni di lotta hanno immediatamente dato vita a manifestazione davanti al palazzo della Procura dello Stato di Oaxaca per chiedere che le indagini sull’omicidio di Salli vengano condotte in maniera seria. Ma le commistioni tra narcotraffico, politica e polizia ad Oaxaca, sono tali che ci inducono al pessimismo. Lo stesso primo ministro messicano Felipe Calderon, appena assunto in carica, ha difeso la decisione di far pattugliare le strade dall’esercito spiegando che “sappiamo tutti che della nostra polizia c’è poco da fidarsi”.
“L’omicidio di Salli – ci spiega dal Messico Annalisa Melandri dell’associazione Ya Basta - potrebbe essere relazionato con la repressione sempre più evidente contro i movimenti sociali della zona, rivolta soprattutto agli osservatori internazionali. Un chiaro messaggio rivolto a tutto il popolo di Oaxaca, nonché ai compagni solidali che provengono da differenti parti del mondo».
Ma per Marcela Salli Grace Ellier, come per tutti i desaparecidos assassinati: ni olvido, ni perdon.
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