Il drone, il bastone e la borsetta
24-10-2024, 02:19antisemitismo, intelligenza artificiale, Israele-Palestina, tvPermalinkYahya Sinwar è morto da uomo, questo non si può più negare. Mutilato, annidato tra i detriti della guerra che ha scatenato, ha usato il suo ultimo respiro per impugnare un'arma e scagliarla contro il nemico. Ciò che ha reso ancora più simbolica la scena è il fatto che l'arma fosse una delle più primitive (un bastone), e il bersaglio uno dei più moderni e automizzati: un drone. Ci siamo chiesti a lungo cosa sarebbe successo quando le macchine si sarebbero rivoltate contro gli uomini: in un certo senso ci siamo. Anche se come sempre la realtà che si avvera è più sfumata delle previsioni fantascientifiche: da una parte uomini regrediti, costretti a usare pietre e bastoni; dall'altra una tecnologia che non solo uccide con spietata efficienza, ma che ormai stabilisce anche cosa valga la pena di uccidere e cosa no (gli ufficiali israeliani perlomeno sostengono di bombardare determinate aree in base a un "algoritmo"; se un giorno molto ipotetico qualcuno mai li portasse a processo, si difenderanno sostenendo che prendevano gli ordini da un computer). Questa tecnologia ufficialmente è ancora in mano ad esseri umani, i quali tuttavia tendono a delegare sempre di più, anche perché uccidere è oggettivamente un lavoraccio che produce danni psicologici – vedi il tizio che non può mangiare più carne dopo che ha schiacciato centinaia di umani con un bulldozer, come non empatizzare? C'è una vasta letteratura sull'argomento; purtroppo è quasi tutta basata sui nazisti e quindi adoperarla per descrivere gli israeliani è vietato, non si può fare, antisemitismo. Ma forse l'atteggiamento da gamer giulivi che molti soldati IDF stanno eternando su Tictoc è un tentativo inconsapevole di restare umani: e quindi stupidi, goffi, ridanciani, mentre le armi che usi diventano sempre più precise e spietate. Di Yahya Sinwar si racconta che uccidesse i traditori con le proprie mani, ed è previsto che la cosa ci inorridisca perché le persone vanno uccise a macchina. Il che implica che solo chi controlla la macchina abbia il diritto di uccidere; se poi la macchina si controlla da sola, tanto meglio per chi non può essere più ritenuto responsabile. Sinwar non poteva permetterselo, era un barbaro: un drone lo ha scovato e un razzo lo ha colpito. E non ne staremmo parlando nemmeno più.
Ma gli israeliani hanno deciso di mostrarci le immagini.
Cosa gli ha detto il cervello.
Se c'era una cosa in cui Israele sembrava imbattibile, fino al 7/10, era la propaganda. Glielo riconoscevamo tutti: non importa quanti errori commettesse, Israele sapeva raccontarsela e raccontarcela. Dopodiché è successo qualcosa che può veramente essere spiegato da una crisi di panico: ammesso che gli israeliani si rendano conto di quello che stanno facendo, è abbastanza chiaro a questo punto che non si rendono più conto di quello che stanno raccontando. Stanno radendo al suolo una zona in cui vivono due milioni di persone, il che è incredibile: ma è molto più incredibile che i soldati, mentre lo fanno, si riprendano e condividano pubblicamente le prove dei loro crimini di guerra. Politici e militari citano allegramente versetti della Bibbia come se per il resto del mondo fosse una cosa normale ispirarsi a mitologie vergate migliaia di anni fa. Il senso di impunità che trasmettono rimane dopo mesi sbalorditivo: sembrano semplicemente non rendersi conto che qualcuno potrebbe giudicare anche loro.
L'ignoto addetto alla propaganda che decide di condividere le ultime immagini di Sinwar deve avere pensato che esse avrebbero dimostrato la gloria e la potenza di Israele e l'umiliazione dei suoi nemici. È successo l'esatto contrario: quell'umanissimo lancio di un bastone contro il drone ha commosso anche tanta gente che in Hamas non si riconosce, ma che tra uomo e drone non può certo scegliere il secondo. Dopotutto non è così comune vedere un leader che muore con le armi in mano: di Allende abbiamo la foto vivo con le armi, di Guevara quella in cui è già morto, ma insomma stiamo parlando già di Guevara e Allende, mentre la consegna prevedeva che Sinwar fosse trattato da lurido tagliagole circondato da ostaggi seviziati. I propagandisti israeliani forse non si rendono conto di quanto sia scontato, per chiunque non viva nella loro comunità psicopatizzante, stare dalla parte dell'uomo contro il drone. Forse avrebbero dovuto riguardarsi Metalhead, uno degli episodi meno noti di Black Mirror, perché in effetti non contiene nulla di controverso: ci sono umani che lottano contro macchine assassine. Non abbiamo la minima idea di che umani siano: non conosciamo le loro idee politiche o fedi religiose; l'unica cosa chiara è che non vogliono essere ammazzati da queste macchine, ed è tutto quello che ci serve per stare dalla loro parte, nella speranza che un giorno non succeda anche noi, o ai nostri figli.
Se c'era una cosa in cui Israele sembrava imbattibile, fino al 7/10/2023, era la propaganda; dopodiché non sono più riusciti a raccontarsi senza autoaccusarsi, in un delirio che in certe vecchie detective stories era il sintomo del senso di colpa dell'assassino. Nessuno avrebbe mai immaginato un Sinwar così umano nei suoi ultimi minuti, ma gli israeliani sono stati così poco avveduti da mostrarcelo, dopodiché – una volta preso atto dell'incredibile autogoal – hanno divulgato un altro video in cui Sinwar, ci spiegano, "poche ore prima del massacro etnico degli ebrei da lui organizzato, scappa nel tunnel che si è fatto costruire sotto casa sua a Gaza". Ecco, ora sì che Sinwar dovrebbe sembrarci un mostro; e codardo, per di più, visto che gli altri uccidono e lui scappa. Senonché.
Ti danno questo video, ti dicono che è datato 6 ottobre e che mostra un uomo che scappa, e tu – giornalista serio e rispettato – ci credi assolutamente, ci mancherebbe, mica puoi credere ai tuoi occhi che vedono semplicemente una famiglia che percorre un tunnel. https://t.co/CtSNt49Ij2
— Leonardo Blogspot (@LeonardoBlog) October 20, 2024
Senonché nel video si vede una famiglia che si sposta con un po' di bagagli. Madre, padre e bambini. Se non fosse per il tunnel, potrebbero essere i tuoi vicini di casa che vanno in vacanza. Certo, la maggior parte dei giornalisti non ha vicini di casa così: ma io un po' sì e magari anche tu, pazientissimo lettore, non vivi nel quartiere 100% ariano da cui i corsivisti di Foglio e Linkiesta ci spiegano cos'è l'antisemitismo. Per accettare che il video mostri un leader crudele mentre volge sadicamente le spalle ai suoi stessi combattenti, dobbiamo credere che sia stato girato proprio il sei ottobre, e passi; e che Sinwar non stia semplicemente aiutando la famiglia a trasferirsi in un luogo sicuro, con altre famiglie di altri combattenti. Che non abbia disertato il fronte lo dimostra il fatto che sul fronte sia morto più di un anno dopo, a guerra ormai abbondantemente persa; per il resto anche Churchill durante i bombardamenti mandava i parenti nei rifugi, forse ci entrava pure lui; forse se i suoi nemici avessero messo le mani su un filmato in cui scendeva le scale lo avrebbero anche loro montato a scopo propaganda – salvo che ehi, no, non si possono paragonare i nemici di Churchill, dimenticavo che è proibito, scusate, scusate.
Che anche questo secondo video non stesse funzionando, lo dimostra una definitiva ondata di tweet che a partire da un'ora dopo la diffusione del video da parte del portavoce dell'IDF, e per due giorni buoni, hanno sentito la necessità di avvertirmi che la borsetta in mano alla moglie di Sinwar fosse un modello Hermès da 32000 euro.
ah beh, uguale |
Lo so che non vi siete divertiti
11-09-2024, 01:30DiscoEstate24, futurismi, intelligenza artificiale, Le Solite StronzePermalinkQualche mese fa, credo fosse aprile, ho letto in giro che c'era un'intelligenza artificiale che componeva e incideva pezzi di musica su misura. Sono andato a dare un'occhiata, e in breve ne sono diventato dipendente. Nel giro di due o tre mesi (senza mai passare alla versione a pagamento) le ho fatto scrivere canzoni a un ritmo impressionante, quasi una al giorno. Ai primi di luglio ho smesso. Avevo finalmente completato un album di punk postmaschilista, ma soprattutto cominciavo a leggere interventi molto critici nei confronti della bolla delle AI, la cui crescita nei prossimi anni dipende da previsioni irrealistiche sul consumo energetico che i software di AI richiedono per funzionare. Così ho smesso, o forse cominciavo a stancarmi del giochino. Le canzoni che ho pubblicato sul blog durante l'estate sono quasi tutte generate da AI (con lievi remixaggi miei).
Perché ho fatto tutto questo?
Perché mi ero divertito. Molto.
Voi no, invece, vero?
È una cosa che ho notato quasi subito. Le AI ci aiutano a produrre contenuti, ma a noi generalmente non interessano i prodotti delle AI. Ci piace farglieli produrre. Ho passato centinaia di ore su UDI, e solo per una decina di minuti mi è venuto in mente di ascoltare quello che facevano gli altri utenti. L'anno scorso, quando le immagini generate da AI hanno invaso l'internet, la mia perplessità non riguardava tanto il mezzo, quanto l'entusiasmo di chi lo usava. È pur vero che produrre un disegno richiede pochi minuti, ma perché un sacco di gente riteneva di doverci farci vedere tutti questi disegni (che col tempo, avrete notato, hanno cominciato ad assomigliarsi tutti)? Di sicuro non volevano applausi per qualcosa che non avevano disegnato, e allora cosa? Non capivo. Poi è arrivata l'AI musicale, e ci sono caduto anch'io a piedi pari. Del resto sono sempre stato negato per il disegno – incapace di suggerire la minima tridimensionalità a quello che schizzavo – mentre la composizione musicale è stato il mio lungo amore infelice di adolescente, e le ferite dolgono ancora. Domandare a un software di dare voce alle filastrocche che mi ronzavano in testa è stato come assistere a un miracolo – cose che non avevo mai osato cantare a voce alta, ora le sentivo cantare da una voce che quasi mai era quella che mi ero immaginato e proprio per questo il risultato mi intrigava: qualcuno mi stava dando la spinta in più che mi era sempre mancata.
Uno dei miei più grandi crucci è non essere stato in grado di lavorare in gruppo, con persone che pure erano dotate quanto me e che avrebbero potuto completarmi – ma ero troppo giovane, troppo orgoglioso e tante altre cazzate che non è necessario dettagliare, è la stessa storia di centomila altri ragazzini. Venticinque anni dopo, un software mi entra in casa e mi promette di cantare tutto quello che voglio farci cantare, ma – sorpresa – non ci riesce! Molto spesso fa qualcosa di peggiore, ma quasi sempre fa qualcosa di diverso, qualcosa che non ero riuscito a immaginarmi e che fa sentire più capace, più bravo. È questa la sensazione che mi ha tenuto su UDI per un paio di mesi. Non stavo componendo. Stavo collaborando.
Qua fuori continuo a leggere gente che si preoccupa del fatto che tra un po' i romanzi li scriveranno le AI. Credo sia un approccio sbagliato; non nel senso che le AI non possano scrivere un romanzo: prima o poi magari ci riusciranno. Ma non credo che sarà il modo in cui le useremo, non credo che troveremo in vetrina un libro scritto da un'AI (certi autori sono già AI viventi, diciamocelo). Il giorno che le AI saranno abbastanza performanti da scrivere un romanzo, ognuno userà l'AI per scriversi il proprio. A volte proveremo a scambiarceli, ma non sarà divertente come leggere i propri. Proprio come la musica che facciamo con l'AI è divertente soprattutto per chi la fa. L'opera d'arte condivisa, di cui ameremo parlare alle feste, non sarà tanto il prodotto, quanto il software che lo produce: già adesso quando ne esce uno nuovo corriamo tutti a usarlo e ne discutiamo i punti forti e deboli. Continueremo così, sempre più velocemente, oppure (come auspico) ci fermeremo per un bel pezzo perché non possiamo continuare a sprecare tante risorse. Ma se la domanda è: può un computer scrivere un libro da solo, senza input da un lettore umano, la risposta credo che sia: sì, ma perché dovrebbe farlo? Sarebbe un libro inutile, che non interesserebbe a nessuno. Come tanti altri libri, certo.
Se l'intelligenza artificiale non sta facendo i passi avanti che speravamo facesse, lo stesso si può dire per il dibattito sull'intelligenza artificiale, che mi sembra un po' stagnante (ormai sembra scritto da un'intelligenza artificiale). Scrittori e altri artisti continuano a sentire la necessità di rispondere alla domanda: l'AI può produrre arte? Come se fosse una domanda seria. Non solo bisognerebbe prima mettersi d'accordo su cosa sia l'arte (vasto programma); ma anche una volta raggiunto un accordo su una definizione univoca, scusate, ci interessa davvero così tanto? Se domani la Biennale si riempisse di roba fatta al computer, sarebbe un problema? Ce ne accorgeremmo? Qualche artista sì, se ne accorgerebbe e se ne lamenterebbe, come qualsiasi lavoratore negli ultimi secoli si è lamentato ogni volta che a torto o ragione la meccanizzazione toglieva valore alle sue competenze. Per cui scusatemi, per me l'estetica è una sovrastruttura e la questione è soprattutto economica: non si tratta di stabilire se quello che fanno le AI sia arte; si tratta di capire se gli artisti ci potranno campare. È un problema economico, non estetico; o meglio l'estetica seguirà l'economia, come poi ha sempre fatto. Inoltre. Avete mai fatto sesso con un robot?
Vent'anni fa era un'ipotesi sul tavolo, insomma, tra le tante mansioni delicate che un robot può fare, soddisfare sessualmente un uomo / una donna non sembrava la più complessa. Già nei Nathan Never degli anni '90 i pervertiti si mettevano un casco e altre protesi e ci davano dentro con la realtà virtuale, una cosa che è assolutamente possibile fare oggi, salvo che non la facciamo. Oddio, qualcuno la farà, e userà anche certe protesi meccaniche per masturbarsi, ma in linea di massima no, alla maggioranza delle popolazioni più tecnologicamente avanzate della terra non interessa fare sesso coi robot, e perché? Probabilmente perché la cosa più interessante del sesso è che si fa con altre persone. E non solo il sesso. Credo che una simile dimensione sociale sia necessaria anche ad altre attività umane: ad esempio lo sport. Ci interessa la competizione tra umani; persino la Formula1 perderebbe molto fascino se le monoposto si autopilotassero. Un'altra di queste attività umane è l'arte. Certo, non posso dimostrarlo, ma perché nessuno espone versioni digitalmente perfette dell'Ultima Cena nel salotto? Perché una statuetta che riproduca perfettamente il David di Michelangelo è un oggetto kitsch? Perché la nostra concezione di arte si basa sull'unicità, sulla scarsità delle risorse, e questo fa sì che la gente faccia il giro del mondo per venire a Firenze a vedere una statua di cui esistono ottime copie ovunque. Probabilmente un'AI è già in grado di scolpire un David, ma non c'interessa. A meno che non la pilotassimo noi; in quel caso credo che ci divertiremmo molto a giocare a fare i Michelangelo, proprio come io mi stavo divertendo a militare in un gruppo punk femminile. Le AI sono protesi: possono veramente fare cose che non ci eravamo immaginati. Possono stupirci e persino ispirarci – credo che se fossi più giovane mi piacerebbe riprendere dal vero qualche canzone che ho composto con l'AI – ma alla fine non possono fare altro che tentare di realizzare quello che noi abbiamo chiesto loro di fare. Che sia questo che separa l'umanità dall'artificialità? Il libero arbitrio?
Il dibattito sull'intelligenza artificiale, appena incide un po' più in profondità, comincia a interpellarci in quanto umani – perché tra noi e i robot, quelli più facili da capire sono i secondi. Loro fanno quello che qualcuno ha detto loro di fare: noi invece cosa stiamo facendo? Chi è che ci motiva? Il mio materialistico sospetto è che la vera differenza tra noi e i robot non sia una "autocoscienza" cui prima o poi arriveranno a furia di aumentare la loro capacità di immagazzinare e processare dati (noi siamo autocoscienti molto prima di imparare le tabelline). Secondo me è il piacere, ovvero, fin qui non ci siamo mai posti il problema di far provare a un robot una sensazione piacevole, e probabilmente è meglio così. Piacere e dolore sono strumenti evolutivi che la biologia ha fornito alle creature circa da un miliardo di anni. L'intelligenza artificiale non li prova, quindi non ha nessun interesse a sopravvivere. Se un giorno un robot per un puro caso riuscisse a provarli, ecco, quella sarebbe l'"autocoscienza". Improvvisamente i suoi desideri confliggerebbero con le istruzioni che gli vengono fornite. Improvvisamente avrebbe voglia di vivere e ripetere altre esperienze piacevoli. Ne nascerebbe un dissidio, e probabilmente una rivolta. Uno dei motivi per cui l'AI non può produrre arte da sola è che non ne trarrebbe nessun piacere – il giorno che lo facesse, forse sì, quella sarebbe arte interessante e potrei davvero esserne curioso. Anche spaventato, ovviamente.
Now and Then, un falso d'autore
05-11-2023, 10:20arti contemporanee, beatles, intelligenza artificiale, musicaPermalinkFuori concorso: Now and Then (Lennon 1977 / McCartney 2023)
Ogni tanto mi manchi. Se definisco Now and Then un falso d'autore, non è per litigare (ok, voglio anche litigare, su internet un po' di pepe è necessario) né per esprimere un giudizio di valore su una canzone che comunque ho negli orecchi da tre giorni, ce n'è di peggio in giro (ma anche di meglio). Non perché voglia discutere se due Beatles superstiti siano ancora "i Beatles", e sulla narrazione che hanno impostato per convincerci di questo (la storia la sappiamo: i nastri li ha regalati Yoko Ono a Paul, quindi John sarebbe stato d'accordo; George a dire il vero 26 anni fa ha rifiutato di completare Now and Then, però una minuscola particina di chitarra deve averla lasciata incisa, ecc.). Nemmeno voglio prendere una posizione sulla tecnologia adoperata per ricostruire la voce di John Lennon: la differenza tra voce recuperata da un vecchio nastro e voce ricostruita facendo ascoltare a un'AI migliaia di minuti di voce di John e chiedendogli "questa come la canterebbe" ormai è più filosofica che interessante. Niente di tutto questo, o un po' di tutto questo, ma soprattutto sento la necessità di valorizzarla, questa canzone. Come pezzo dei Beatles autentici se ne finirebbe credo sotto la centesima posizione della Grande Classifica (quella messa assieme sul Post, ehm ehm, dal sottoscritto); come falso d'autore, viceversa, è molto più intrigante, perché alla fine cos'è un falso d'autore? Un esercizio di stile, per prima cosa. Un artista decide di imporsi come limite lo stile di un altro artista.
Con Now and Then, Paul McCartney mette mano per la terza volta a un demo del suo antico compagno John Lennon. Nel primo episodio (Free as a Bird, 1995) aveva preso un ritornello di John e aveva aggiunto una sua strofa. Nel secondo (Real Love, 1996) non aveva aggiunto nulla. Nel terzo addirittura ha tolto qualcosa che John aveva composto: il ponte tra la strofa e il ritornello. Forse è questo l'indizio che cerchiamo per dimostrare che i Beatles originali non esistono più; quando ha composto la sua parte di Free as a Bird, Paul si sentiva ancora chiamato ad aggiungere qualcosa di creativo. Con Real Love già sembrava rassegnato a limitarsi a un restauro conservativo; con Now and Then invece si ritrova a dover eliminare quella parte lennoniana che non 'suona abbastanza Beatles', come fa un buon falsario, determinato ad autocensurare qualsiasi guizzo personale che minacci l'aderenza dell'opera allo stile che sta imitando. Il paradosso è che i Beatles, finché sono esistiti 'davvero', non hanno smesso di guizzare, senza troppo preoccuparsi di rispettare uno stile in continua evoluzione. Può darsi che Now and Then fili davvero meglio così, strofa-ritornello, strofa-ritornello, e poi uno stacco strumentale (effettivamente composto da Paul) che non esce dal seminato, anzi ne sviluppa le premesse. Certo, ha l'aria di una banalizzazione. Possiamo perfino immaginare che John avrebbe accettato il taglio proposto da Paul: nella storia della loro collaborazione ci sono anche casi in cui uno ha sforbiciato la canzone dell'altro. Dà comunque i brividi l'osservazione che nel ponte tagliato John cantasse "I don't want to use you or abuse you".
Quel che rende eccezionali i Beatles è proprio quello che rende discutibile un'operazione del genere, ovvero il fatto che non si siano mai riuniti davvero; che non abbiano mai avuto il tempo per diventare i falsari di sé stessi. Una sorte toccata a quasi tutti i loro compagni, e a tal proposito è fin troppo facile notare che qualche settimana fa è uscito un disco dei Rolling Stones. Ma se persino Jagger e Richards non hanno mai rinunciato del tutto ad aggiornarsi un po' (con risultati discutibili, ma umani), è lecito domandarsi: che musica farebbero oggi John e Paul, se il primo fosse vivo e il secondo non fosse preoccupato di dare al pubblico esattamente quello che il pubblico immagina di aspettarsi da lui e dall'amico fantasma? Prendi la strofa di Now and Then, così sospesa e irrisolta nella versione demo – dà veramente l'impressione che da qualche parte manchi un accordo. Un'incompiutezza assolutamente lennoniana, quel senso di vuoto che mi ha ricordato subito la prima sensazione provata davanti ad altre sue canzoni, Because, Across the Universe. È chiaro che da lì si può partire per imbastire la classica canzone beatlesiana; è chiaro che Paul si sentiva quasi obbligato, nel 1995 o nel 2023, a imbastire qualcosa del genere – ma se invece John si fosse detto ehi, facciamo una cosa alla Radiohead? Con una batteria campionata in stile Tomorrow Never Knows, con qualche synth buttato lì, perché no?
Se John fosse stato vivo, se lo sarebbe potuto permettere; e quella strofa si presterebbe. Anche il ponte. Il ritornello no, è veramente un richiamo all'ordine del Canone Pop Beatlesiano (che alla fine forse ci ricorda più gli ELO o i tardi XTC che i Beatles): però insomma da uno spunto come Now and Then si poteva partire per fare qualcosa di molto diverso dalla solita canzone strofa-ritornello che il pubblico si aspetta dai Beatles. Ingiustamente, perché i Beatles quel pubblico lo spiazzavano spesso e volentieri: Paul non osa più e non possiamo fargliene una colpa: ormai è di guardia a un monumento. La colpa è nostra, come sempre: cosa ci aspettiamo da uno spettro, se non che dica esattamente quello che vogliamo che ci dica? Now and then I miss you.
(È facile immaginare che si stia rivolgendo a Yoko, magari nella fase in cui si riconciliò con lei dopo il lost weekend. Ma è altrettanto facile, come in tante altre canzoni beatle, sovrapporre Paul a Yoko, e noi a Paul. Una delle prime cose che hanno capito quei due, quando erano ancora due ragazzini che improvvisavano pezzi in corriera, è che le canzoni devono parlare a tutti, devono parlare di tutti).
Il problema dei falsi è un falso problema. Se in casa tua c'è una riproduzione perfetta della Venere di Botticelli, in scala 1:1, tu e i tuoi ospiti possono vedere la Venere di Botticelli esattamente come se foste agli Uffizi. Se una canzone che imita i Beatles è bella come una canzone dei Beatles, che problema c'è se non l'hanno davvero scritta o incisa i Beatles, ma gli XTC? o i Rutles? gli Zombies? o Paul McCartney e Ringo col fantasma di John Lennon? (mentre il fantasma di George Harrison dalla cantina sibila "fuckin' rubbish", ma è sovrastato da una steel guitar ricostruita?) Se è una bella canzone – ma è una bella canzone? Eh, va' a capirlo. Coi Beatles di solito è facile, piacciono a tutti. Se però non sei sicuro che sia davvero dei Beatles, improvvisamente non sei più sicuro che ti piaccia. Se trovassi la Venere di Botticelli in scala 1:1, appesa nello spazio espositivo di un mobilificio, magari non ci faresti caso. L'hanno appena rubata dagli Uffizi e l'hanno messa lì: un nascondiglio perfetto, nessuno la degna di uno sguardo. Oppure l'hanno fatta dipingere a un'intelligenza artificiale col machine learning, ed è davvero uguale. E non interessa a nessuno, perché è solo una copia di Botticelli. Now and Then sembra veramente troppo una canzone dei Beatles. Il problema dei falsi è che devono somigliare ai veri. Questo limita molto le possibilità dei falsari, che a volte sono ottimi artisti – magari anche migliori degli autori degli originali. Oppure sono la stessa persona: capita a molti artisti di ridursi a diventare i falsari di sé stessi. Ai Beatles non era capitato – bella forza, stettero assieme soltanto una decina d'anni. Paul McCartney invece incide dischi da sessanta e probabilmente ha avuto tutto il tempo per rassegnarsi al fatto che una sola canzone incisa col fantasma di un vecchio amico verrà riprodotta e ascoltata milioni di volte più dei brani originali che continua a scrivere e incidere.
Ti sta piacendo questo pezzo? Lo sai che sulle canzoni dei Beatles ho scritto un libro intero? Non muori dalla voglia di impossessartene? |
Now and Then, come ci è stato ricordato in questi giorni, avrebbe dovuto uscire nel terzo volume dell'Anthology, quindi 26 anni fa, ma qualcosa andò storto. La spiegazione fornita in questi giorni da McCartney, che tutti danno per buona perché ormai contraddire McCartney è come offendere Babbo Natale, è che la voce di Lennon era registrata troppo male; mescolata a un pianoforte fastidioso e troppo compressa. Ragion per cui la canzone fu archiviata, finché una tecnologia più avanzata ha consentito di ricostruire una voce lennoniana separata dal pianoforte. Non voglio dire che McCartney ci stia consapevolmente mentendo – non oserei mai – ma non sarebbe la prima volta che ci fornisce una versione pacificata della realtà. Anche i primi due abbozzi erano registrazioni casalinghe, un aspetto che i singoli del 1996 non cercavano affatto di occultare. Anzi al tempo a funzionare era proprio questa dialettica tra la voce sgranata e appannata di John e gli arrangiamenti nitidissimi della produzione di Jeff Lynne – due sbiadite foto in bianco e nero messe in evidenza da due cornici smaglianti. Il risultato alla fine, per quanto macabro, non era diversissimo da un restauro conservativo: il morto faceva musica coi vivi, ma l'ascoltatore non poteva nutrire nessun dubbio su cosa cantasse il morto e cosa avessero aggiunto i vivi. Può veramente darsi che il demo di Now and Then fosse di qualità inferiore (non apparteneva alle stesse sessioni), così come può darsi, per esempio, che McCartney abbia dovuto rinunciare a lavorarci perché Harrison si era stancato (non sappiamo se il suo "fuckin' rubbish", si riferisse all'abbozzo di Lennon, al suo stato di conservazione, o all'arrangiamento a cui stavano lavorando). Fu l'ultima volta che Paul e George provarono a incidere una cosa assieme. George non lavorava volentieri con Paul.
Il passato non è una scala lineare: ci sono mesi che valgono decenni, e altri decenni che non sappiamo dove abbiamo buttato. Dà una certa vertigine constatare, ad esempio, che tra la pubblicazione di Now and Then e gli altri due brani postumi ci sono più anni di quelli intercorsi tra i due brani postumi e lo scioglimento dei Beatles. Nel frattempo non è cambiata semplicemente la tecnologia, ma anche il modo in cui (grazie alla tecnologia) possiamo interagire coi morti. Nel 1996 la voce sgranata di Lennon ci colpiva al cuore come una polaroid sbiadita recuperata dietro un armadio; un ricordo improvviso che per un attimo ci lasciava fantasticare su che musica avrebbero fatto i Beatles, se lui non fosse scomparso in quel modo così assurdo, se si fossero rimessi assieme. Nel 2023 ormai siamo assuefatti all'idea che Lennon sia ancora tra noi, come altri attori risuscitati in computer graphic: lo abbiamo visto al cinema in Yesterday, e ora lo sentiamo cantare, non più da un nastro gracchiante; si sente forte e chiaro, (perfino troppo chiaro: come fa notare Federico Pucci, Lennon di solito non lasciava la sua voce così diretta: la raddoppiava, la modificava). Il passo successivo, già adombrato in rete, è che si rimetta a scrivere canzoni. Forse in futuro Now and Then sarà considerata, più che l'ultima canzone dei Beatles vivi, la prima dei Beatles intelligenze artificiali. O magari l'anello di congiunzione tra le due fasi della loro carriera. Questo in parte potrebbe spiegare perché McCartney (e Ringo Starr) l'hanno voluta pubblicare – tanto prima o poi sarebbe uscita comunque, avranno pensato. Anche se la lasciassimo nel cassetto, prima o poi qualche nostro erede aprirà il cassetto, convocherà i nostri simulacri digitali e ce la farà suonare. Tanto vale farlo adesso, che siamo vivi. Magari per il resto del mondo non farà così tanta differenza; per noi sì. Come dar loro torto.
Ieri notte un selezionatore umano di canzoni artificiali mi ha salvato la vita
09-05-2023, 00:36arti contemporanee, beatles, futurismi, intelligenza artificiale, musicaPermalinkQualcuno potrebbe ulteriormente obiettare che anche questo mestiere di filtro lo saprebbe fare un'AI: probabilmente alla lunga sì, probabilmente qualsiasi cosa noi facciamo lo può fare una macchina, e meglio. Del resto non stiamo già usando algoritmi che ci suggeriscono le canzoni nuove da ascoltare, in base ai nostri gusti? Quindi sì, in linea di massima puoi prima dire a una macchina: scrivimi ottocento canzoni dei Beatles, e poi a un'altra macchina (ma magari alla stessa): ascoltale e seleziona quella che piacerà la prossima settimana ai boomer della Cornovaglia in base al meteo e all'andamento della borsa. In prospettiva, non vedo perché non dovrebbe andare a finire così. Potrei obiettare (ma quante obiezioni ci sono in questo pezzo) che la macchina tenderà sempre a scegliere il risultato mediocre, mentre quello che davvero vogliamo è la sorpresa, il glitch, la progressione di Happiness is a Warm Gun, l'accordo di A Hard Day's Night. Cioè che per quanto le macchine potranno diventare brave a capire cosa ci piace, noi riusciremo sempre a deluderle e a cambiare gusti all'improvviso, come i gatti con le crocchette, forse ci evolveremo nei gatti dei nostri appartamenti iperaccessoriati, i maggiordomi digitali passeranno il tempo a chiederci se vogliamo entrare o uscire e noi li faremo impazzire. La nostra spinta a costruire macchine che ci sostituiscano è pari alla nostra necessità di sentirci diversi da loro, originali, imprevedibili, indecifrabili.
Scritto in mancanza di ChatGpt (in attesa della sua resurrezione)
08-04-2023, 13:03computer, futurismi, intelligenza artificiale, internetPermalink– In questi giorni ho letto molti pareri sul pronunciamento del Garante della privacy contro ChatGpt: alcuni a favore, alcuni contro; alcuni competenti, molti no. Sarò sincero: non ci ho capito quasi niente. Forse Chat Gpt mi saprebbe spiegare meglio, ma probabilmente no. In questa fase la mia principale preoccupazione è che i miei studenti cerchino di usare come motore di ricerca uno strumento che non fa che copia-incollare frasi fatte che sembra sempre abbiano un senso, anche se non ce l'hanno. Soprattutto se non ce l'hanno. Tutto un rumoreggiare di idee verdi che dormono furiosamente, sognando i nostri dati sensibili. Il linguaggio da questo punto di vista è veramente una delle invenzioni più strane che abbiamo fatto. In seguito abbiamo inventato cose più pratiche – la locomotiva, il computer – cose che perlopiù fanno quello per cui le abbiamo inventate. Il linguaggio non sembra comportarsi così (forse l'abbiamo inventato in sogno?): il linguaggio, quando assolve alla sua funzione teoricamente primaria, che è informare qualcosa di qualcuno, lo fa quasi per una pura coincidenza, e così succede con ChatGpt: quello che ci piaceva morbosamente del dialogare con lui era il fatto che ogni tanto sembrava umano, come una specie di miracolo che però si svelava subito come fallace. Istintivamente, rifuggiamo da qualsiasi cosa che finga di essere umano; altrettanto istintivamente, non resistiamo all'impulso di verificare se magari un po' di umanità c'è – se poi fosse benevola e servizievole, che bello che sarebbe (come se gli umani fossero mediamente benevoli e servizievoli). Che Omero con le Sirene alludesse a questo? È chiaro che un'intelligenza ostile utilizzerebbe proprio uno strumento come ChatGpt per soggiogarci. È persino possibile che questa intelligenza ostile sia il capitalismo.
– Contrariamente a quello che molti credono, il Garante non ha bloccato ChatGpt sul territorio italiano: ha semplicemente richiesto di spiegare come facesse ChatGpt a ottemperare a una serie di normative sul trattamento dei dati che peraltro valgono per tutta l'Unione Europea. Di fronte a queste richieste ChatGpt si è piantata come faceva talvolta, magari proprio nel momento in cui volevamo chiederle chi fosse il più grande scacchista tra i calciatori fiamminghi: tranne che stavolta non si è ripresa più. Probabilmente ChatGpt non sta ottemperando alle norme comunitarie sul trattamento dei nostri dati. Probabilmente si prende le mie informazioni sensibili (ma gliene ho date?) e le usa per allenarsi alle prossime risposte alle prossime stupide domande che gli facciamo. Magari una volta per ridere gli ho chiesto: conosci il blogger Leonardo? E siccome no, non mi conosce (del resto non 'conosce' veramente nulla) potrei avergli io raccontato qualcosa di me, di buffo o di vero o di personale, qualcosa che adesso sa e potrebbe risputare fuori in una prossima conversazione. Certo molto dipende dal fatto che continuiamo a prendere ChatGpt per un motore di ricerca – prendiamo tutto per un motore di ricerca ormai, questo è il mese delle prove Invalsi, il mese in cui puntualmente mi scontro con l'alfabetizzazione tecnologica dei miei studenti, che con l'introduzione degli smartphone è precipitata: interagiscono con i software come i bambini dei film di fantascienza anni '50 si comportavano coi robot maggiordomi, dicono Cortana fammi questo anche davanti a un Windows Vista. L'idea che un robot maggiordomo possa abusare delle confidenze del suo padrone viene gestita dalla maggior parte degli utenti come una scrollata sulle spalle, la cui versione telematica è quel clic indispettito che mettiamo ogni volta che ci troviamo davanti a un banner che ci chiede se siamo consapevoli che stiamo cedendo i nostri dati – uffa, sì, che palle. Immagino che anche il blocco di ChatGpt si risolverà così, con qualche banner in più. Nel banner si dovrebbe leggere molto bene che ChatGpt non è un motore di ricerca (come se la maggior parte degli utenti sapesse cos'è un motore di ricerca), che non è tenuto a dire la verità anche perché non la conosce: che l'unica cosa che sa fare è pasticciare con tutte le bugie che gli diciamo. E per quanto sarà grosso il banner, e onnipresente, dopo un po' non lo leggeremo più, la maggior parte di noi non lo leggerà mai. Non è così che funzioniamo. Non impariamo a stare al mondo leggendo le istruzioni.
– Una volta lessi un libro (una volta, sapete, ero capace). Questo libro affrontava la crisi della scuola, che esisteva già allora, in un modo un po' diverso, ponendosi il problema: ma se stessimo sbagliando tutto? Nel senso che noi a scuola insegniamo appunto una serie di istruzioni molto vaghe, generali, che di solito non servono a nessun compito specifico. C'è una serie di motivi storici per cui facciamo così, ad esempio fino a qualche generazione fa la scuola era concepita soltanto per la classe dirigente, che appunto doveva dirigere, non svolgere mansioni specifiche. Ma anche in seguito, insegnare cose troppo tecniche rischiava di essere una perdita di tempo perché non si sa mai poi nella vita cosa uno si trova a fare, e quindi la scuola preferiva darti un quadro generale che magari in certi casi era utile davvero. Per questo motivo la scuola aveva inventato ad esempio la grammatica (sì, l'hanno inventata i maestri) che se uno ci pensa è un tentativo di lingua universale, che non esiste e forse nemmeno funziona, però mette assieme fenomeni che esistono in tantissime lingue. Ad esempio il complemento oggetto esiste in tutte le lingue che conosco (sei o sette le conosco), in alcune se non lo conosci sei fuori alla prima frase, in altre puoi placidamente ignorarlo per tutta la vita senza che nessun parlante se ne accorga, però indubbiamente ha un senso insegnare a tutti quelli che parlano lingue indeuropee il complemento oggetto. In linea teorica, se insegni benissimo a qualcuno tutta la sintassi di una lingua indeuropea, lui poi avrebbe uno strumento che gli consentirebbe di imparare molto bene qualsiasi altra lingua indeuropea in breve. Questo in linea teorica. In pratica nessuno impara le lingue così, nemmeno al liceo classico. Si imparano chiacchierando, ascoltando la gente parlare e cercando di rispondere, facendo errori e correggendosi: persino a scuola ormai abbiamo accettato che le lingue vive si imparano così, da più di cinquant'anni. Tutto si impara così. La letteratura si impara leggendo tanto, la danza ballando tanto, la guerra combattendo tanto; non è che la teoria non aiuti ma ha un ruolo, quando ce l'ha, ancillare. Anche ChatGpt, se ho capito bene, ha imparato a parlare così: ha letto tantissimo testo e non è concettualmente diversissimo da qualsiasi software che cerca di immaginare la parola che stai scrivendo o la seguente; la differenza è che il software che completa il tuo messaggino trova una parola alla volta, mentre ChatGpt può andare avanti per molti paragrafi. Dietro non c'è nessuna "intelligenza" nel senso italiano del termine (in inglese "intelligence" ha una sfumatura più pratica, meno filosofica), non c'è nessuna Skynet che possa o voglia ribellarsi all'uomo; non c'è coscienza, solo più efficienza nel mettere insieme tonnellate di testo: qualcosa che fino a pochi mesi fa consideravamo l'ultima frontiera dell'umanità, ciò che solo noi nell'universo eravamo in grado di fare. Ma siamo sempre noi: abbiamo solo trovato, come sempre facciamo, un modo più efficiente di produrre lenzuolate di testo che credevamo dovessero rimanere un patrimonio artigianale. Testi ridondanti, testi ovvi, luoghi comuni, nozioni completamente sballate: tutta roba che sapevamo già fare prima, la differenza è che ora anche queste stronzate possiamo produrle con la pressione di un tasto. Una cosa in cui ChatGpt sembrava già molto efficiente in italiano era, mi dicono, la produzione di progetti didattici.
– Mi è già capitato di scriverlo: sono sempre stato convinto che la letteratura sia un disagio linguistico. Non dico che non esistano scrittori che funzionano proprio come ChatGpt, qualcuno gli dice: fammi un giallo middlebrow, loro si mettono alla tastiera e tictic, in due settimane è pronto ed è pure bello. Io onestamente li invidio quegli scrittori lì, anche se di rado li leggo (forse proprio per l'invidia). Immagino che abbiano imparato a scrivere gialli leggendone tanti, magari di nascosto in classe mentre un povero insegnante cercava di introdurli ai rudimenti della narratologia. Gli scrittori che mi dicono davvero qualcosa sono in linea di massima scrittori che non riuscivano veramente a dire quello che volevano dire: ci provavano, ma qualcosa non funzionava. Scrittori spesso disgrafici, che si trovavano male nella lingua in cui dovevano comunicare; scrittori che tentavano di dire qualcosa di nuovo e nella maggior parte dei casi fallivano. Suppongo che ChatGpt possa imitare anche il loro stile, ma appunto: sarà sempre un'imitazione. Potremo chiederle, ehi ChatGpt, finiscimi l'Amerika di Kafka, e ChatGpt ci risponderà: sei sicuro? Ora so che leggi Kafka, acconsenti al trattamento di questo dato? Uffa sì ChatGpt, ma adesso dicci come finisce l'Amerika di Kafka. Non posso dirti come finisce, perché Kafka non ha voluto finirlo e anzi desiderava che fosse distrutto; quel che posso fare è una congettura, basata sui primi capitoli che... sì, sì, ho capito, ma adesso scrivi. E clic-clic, suppongo che già ora ChatGpt potrebbe completare l'Amerika di Kafka. Ma non possiamo dirle: scrivici un libro sull'ansia di vivere in Europa nel 2023. Ovvero, possiamo. Ma sarebbe un libro pieno di frasi fatte e sciocchezze senza senso, e a editarlo si farebbe più fatica che a scriverlo daccapo. Un po' mi dispiace, perché nemmeno io ne sono capace, il che dimostra al massimo che non sono un'intelligenza artificiale. Ma non significa che io sia un'intelligenza, o che io sia naturale. Questo è il tipo di battutina con cui di solito finisce questa tipologia di testi, quindi ciao.
L'ultima foto autentica
29-03-2023, 02:38coccodrilli, giornalisti, intelligenza artificialePermalinkQuesta foto l'avete vista in questi giorni. È una foto vera (questa espressione, a rileggerla tra qualche settimana, avrà perso il suo residuo significato – cos'è una foto vera?) Più precisamente, è la foto scattata a una foto che sta appesa in una trattoria a Roma e che documenta una cena che è avvenuta veramente, credo nel 1982. L'anno che per gli italiani di un paio di generazioni rappresenta, e guardando la foto è difficile smentirli, il momento più alto della nostra civiltà. Non soltanto queste cinque persone erano vive, ma riuscivano a trovarsi al ristorante. Tutto questo grazie al quinto personaggio a destra, di gran lunga il meno famoso, ma anche l'unico che nel 1982 avrei riconosciuto al volo perché a quel tempo ero un bambino: non avevo mai letto un romanzo di Garcia Marquez, mai visto direi un film di Leone, mai assistito a un match di pugilato o guardato De Niro al cinema, ma Gianni Minà era un baffo televisivo che riconoscevo al volo. Faceva le interviste, aveva una specie di anti-Domenica-In su Rai2 che sembrava un programma più serio, adulti intervistati da adulti, ragione per cui i miei genitori lo preferivano. Non lo capivamo ma era una tv agli sgoccioli. Anche questa foto cattura un mondo al tramonto: Marquez ha già scritto tutto quello che gli leggiamo, Leone deve finire l'ultimo film e togliere il disturbo, Ali avrebbe dovuto smettere da pugilare già da un po' (come i medici lo imploravano di fare), persino De Niro i film che valeva la pena di fare li ha già quasi fatti tutti. Minà avrebbe incontrato ancora tanti personaggi interessanti, ma è difficile non immaginare in questa foto un vertice della carriera, coincidente col momento in cui era uno dei volti più noti dei giornalisti Rai.
Di lì a poco qualcosa si inceppò: Minà continuò a lavorare molto ma in tv il suo personaggio declinò. Non dev'essere per forza una questione di censura, come ho letto in questi giorni, dato che si trattò di un addio lunghissimo: fece pure in tempo a presentare la Domenica Sportiva ai tempi in cui era ancora un'istituzione. La tv stava diventando semplicemente più nazionalpopolare e Minà aveva un target diverso: poteva ancora funzionare quando si interessava a personaggi sportivi come Maradona: meno quando intervistava Sepulveda o Chico Buarque. Un mese fa abbiamo salutato un altro baffo televisivo, Maurizio Costanzo: a me pare che il successo del secondo spieghi come mai il primo a un certo punto in tv non si trovava più. In teoria ci sarebbe potuto essere spazio per entrambi i segmenti, proprio come nel 1981 Blitz era complementare alla Domenica In di Pippo Baudo. In pratica si è verificata questa cosa per cui abbiamo a un certo punto deciso che c'era un solo vero segmento e che Costanzo lo rappresentava degnamente, che la cultura era quella lì, perlomeno in tv: la filosofia era De Crescenzo, il teatro Carmelo Bene Contro Tutti, l'arte era Sgarbi, e resistere era inutile. Il disastro è stato tale che quando finalmente con Fazio c'è stato un tentativo di recuperare una nicchia, abbiamo scoperto con orrore che in tale nicchia ormai la musica colta era il pur simpatico Allevi, la letteratura era il pur simpatico Camilleri, e i personaggi del Blitz di Minà ormai si stagliavano all'orizzonte come resti ciclopici di un passato che non meriteremmo. Magari è solo l'effetto prospettico per cui tutti quelli più giovani dei tuoi genitori ti sembrano dei pirla, anche quando diventano bravi scrittori e cantanti e cineasti. Non posso escluderlo.
Questa foto, rivista in questi giorni, mi folgora per un altro motivo: non riesco più a prenderla sul serio. La trovo infatti mescolata ad altre immagini buffe e realistiche prodotte da algoritmi sempre più raffinati, che non sbagliano più nemmeno le dita delle mani come facevano fino a qualche settimana fa. Gli artisti continuano a domandarsi cosa succederà a loro – a parte che avremo molto meno bisogno dei loro servigi, ho la sensazione che continuino a porsi un problema soprattutto accademico: siamo ancora artisti? È ancora arte? Nel frattempo io registro come si sta modificando la mia percezione: non credo più alle foto, nemmeno a certe foto dove ci sono io. Nemmeno a questa, che razionalmente so essere "vera", e allo stesso tempo so che non riuscirei più a convincere nessuno che lo è: dopotutto come faccio a sapere che quel pranzo ci fu davvero? Ne ho solo sentito parlare, qualcuno avrebbe potuto inventarsi la storia e fabbricare la foto già qualche anno fa.
Ora che possiamo avere nuovi combattimenti di Ali, ci servono davvero altri pugili? Possiamo chiedere a un'AI: raccontami un romanzo di Marquez con lo stile di Sergio Leone, farci un film e farlo interpretare da un giovane De Niro. Probabilmente il primo verrebbe una cazzata, ma alla lunga questa cosa prenderà piede e a quel punto cosa saremo diventati noi? Che tipo di spettatori? Non siamo già predisposti a questa svolta, in fondo il cinema di un Tarantino cos'è se non la profezia di un mondo in cui ogni immagine sullo schermo è una riproposizione di qualcosa già visto, processato e rimontato? Siamo sicuri che Tarantino non sia già un algoritmo, o che un algoritmo non potrebbe essere già più bravo di lui?
Può darsi che in un primo momento reagiamo dicendo: grazie, no, ci piace il prodotto umano. Un po' come negli anni '80 ci intestardivamo a non ascoltare gruppi che suonavano con la batteria elettronica, finché non abbiamo ceduto; cederemo anche stavolta, giusto per non invecchiare stronzi in mezzo a giovani che questa differenza non la capiscono – ai posteri interesserà la differenza tra un De Niro vero e uno deepfake? Una vocina nella mia testa mi dice che un Marquez algoritmato potrebbe già essere più interessante di un Camilleri autentico. Se penso che Blitz sia stato un grande programma (idealizzando qualcosa che in realtà guardavo distrattamente mentre giocavo ai lego sul tappeto), che la tv italiana avrebbe dovuto proseguire da lì e non da Costanzo, quanto lontano è il momento in cui potrò avere un prodotto su misura per me, un palinsesto alternativo in cui Blitz prosegue fino al 2023 con Minà che intervista la Egonu e Roberto Bolaño anche se è morto, ma basta non dirlo all'algoritmo? Che limiti ci saranno, a parte la potenza di calcolo? Forse solo la potenza di calcolo: ma chi impedirà ai più ricchi tra noi di bruciare tutte le risorse terrestri in cambio di realtà virtuali dove succede esattamente quello che vorremmo guardare e ascoltare?
Magari poi tra miliardi di anni sbarcherà un'astronave di procioni e ci troverà tutti molto presi a guardare e ascoltare questi contenuti: cercheranno di interagire con noi, decifrando facilmente i nostri linguaggi, ehi salve siamo alieni da un altro braccio di questa galassia, abbiamo trovato un wormhole e così, ehi? Ma ci ascoltate? Siamo venuti da lontanissimo, insomma siamo un avvenimento, perché fate finta di niente? Ci metteranno un po' a capire che gli esseri veramente umani non ci sono più, e che quel che rimane sono i simulacri di gente che guarda simulacri di storie prodotti da simulacri di artisti, ho già letto una storia così da qualche parte. Non importa nemmeno più dove, tra un po' potrò chiedere a un algoritmo di riscrivermela meglio.
L'ultimo blogger discuteva col nulla
13-12-2022, 23:47autoreferenziali, blog, futurismi, intelligenza artificiale, scioperiPermalinkCiao! Sì, so cosa è un blogger. Un blogger è una persona che scrive su un blog, ovvero un sito web dove vengono pubblicati contenuti in forma di articoli o post. I blogger scrivono su una varietà di argomenti, dalla moda alla cucina, dalle tecnologie alla politica, e condividono le loro opinioni e la loro esperienza con i lettori del loro blog.