I falsi e i veri Lemming

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Shiva e i topolini

- Stavolta sono Madre Natura, anch'io ho la password – mi è stata data in caso di catastrofi, direi che ci siamo. Io però sono Madre solo per modo di dire, e non è che sia tenuta a rendervi conto di quello che succede in questi giorni. Scrivo soltanto per rassicurare chi in questi giorni si è preoccupato per me. Una cosa abbastanza buffa. Voi. Preoccupati per me. No, state tranquilli, io ho visto passare comete e meteoriti, e ho fulgide memorie di quando l'atmosfera era nera delle polveri di milioni di vulcani. In un modo o nell'altro ce l'ho sempre fatta e ce la farò anche stavolta. No, non vi dovete preoccupare per me.

Del resto so che non potete farne a meno; che siete programmati per farlo. Questa idea che avete di me, come una madre dai capelli bianchi, tradizionalista e un po' rintronata, una da non disturbare mentre lavora ad uncinetto con gli elementi, è una proiezione di qualcosa che vi portate dentro, si tratterà magari della vostra vera madre, si sa che la vostra specie ha sempre avuto un rapporto complesso con gli anziani. Io in realtà sono una tipa sbarazzina che si diletta di fulmini e uragani, e la prospettiva di una contaminazione radioattiva su larga scala, con mutazioni genetiche annesse, mi elettrizza. In generale mi piace tutto quello che rompe gli schemi, distrugge, spazza via, in India mi chiamano anche Shiva, il Distruttore. Voi occidentali fate sempre più fatica a capirlo, questo mio aspetto. Ogni volta che capita un disastro cercate in qualche modo di assumervene la responsabilità, persino la devastazione di Haiti qualcuno è riuscito a metterla in conto a Marx, e ora su facebook fantasticate di raggi della morte che scatenerebbero l'armageddon. Siete nevrotici, a un certo punto vi siete inventati un gioco in cui voi sareste il mio figlio ribelle: voi il Progresso e io il Passato, la tradizione, la conservazione... da quel momento in poi, ogni passo in avanti lo mettete con la sensazione di calpestarmi. Se solo vi rendeste conto che le vostre progressiste pedate non mi hanno mai fatto realmente male, che questo terribile conflitto tra me e voi non esiste, così come non esiste tutta questa distanza tra voi e me... Nulla di ciò che è reale è razionale, e men che meno voi. Non siete Idee che imprimono la Materia, non siete lo Spirito che dà ordine al Caos, non siete nemmeno parassiti che intossicano il grande albero della vita: voi non siete che l'homo sapiens sapiens, un rametto che un giorno si biforcherà, oppure si spezzerà: roba mia fino al midollo, io vi ho fatto e a me ritornerete, non che ve ne siate mai andati molto lontano. Non preoccupatevi per me, davvero.

Se solo vi poteste guardare dall'alto, o dal basso, o da una qualsiasi distanza... Se foste quegli animaletti razionali che pensate di essere, non piazzereste decine di centrali nucleari sull'orlo di una faglia sismica. Vi basterebbe la modesta razionalità delle formiche, quando ottimizzano la struttura di un formicaio in base alla sua funzionalità, invece di gareggiare a chi fa più figli e produce più kilovattora. Se foste razionali avreste avuto tutto il tempo, negli ultimi 50 anni, per creare un'authority sovranazionale che ora distribuirebbe in parti eque l'energia prodotta dai pannelli solari del Sahara, dalle pale eoliche sui promontori degli Oceani, e perché no, da centrali nucleari moderne, sicure, costruite nei luoghi meno esposti alle onde telluriche. Tutto questo un animale razionale lo avrebbe pianificato da tempo, per far fronte alla crescente domanda d'energia. Ma in realtà un animale veramente razionale non avrebbe nemmeno il problema di una crescente domanda d'energia, in quanto si guarderebbe bene dal sovrappopolare il suo habitat naturale: e non per un supposto amore materno nei miei confronti (che non vi ricambio certo), ma perché chi è veramente razionale tende a volersi preservare in vita. Voi no, voi correte verso il disastro in ordine sparso. Guerra nucleare, riscaldamento globale, pandemia, semplice carestia? A chi tocca scegliere, a me o a voi? Ma non fa tutta questa differenza.

Per milioni di anni avete occupato la vostra nicchia, senza disturbare più di tanto. Con la rivoluzione industriale avete cominciato a crescere e moltiplicarvi, buffo, avete inventato le macchine e le avete usate per realizzare un versetto della Bibbia. Eravate tre miliardi nel 1960, quattro quindici anni dopo, adesso siete sei, la crescita è costante. Devo sentirmi impressionata? Non sono impressionata, non siete il primo animaletto che a un certo punto esplode oltre i confini della sua nicchia: quando non riuscirò più a nutrirvi, vi stabilizzerete. Voi stessi lo sapete, nel vostro istinto: nelle cellule di ognuno di voi, forse in un filamento, in una proteina, scalcia il germe dell'autodistruzione. È solo il lato oscuro della vostra volontà di affermarvi, la molla che spinge i vostri ingegneri a cercare il petrolio sotto gli abissi dell'oceano, quando vi basterebbe semplicemente riprodurvi meno e bruciarne meno. È lui che vi spinge a progettare centrali nucleari sulle faglie, e a non dismetterle quando sono vecchie. È l'irrefrenabile impulso ad autodistruggervi, che vi porta a stoccare armamenti ad alto potenziale e armi batteriologiche. Voi vi credete razionali, ma è una sottospecie dell'istinto la presunta ragione che vi governa, e che vi suggerisce quasi sempre la soluzione più economica per me, più micidiale per voi stessi.

Non preoccupatevi di me, sul serio. Io esisterò sulla terra, sempre diversa, finché il sole manterrà una certa distanza e una certa forza gravitazionale. Poi mi spegnerò, e non sopravviverà nessuno per rimpiangermi. Preoccupatevi piuttosto per voi stessi, per le vostre piccole esistenze guidate dall'istinto, che corrono verso catastrofi prevedibili, previste, preventivate. Io, come s'è visto, mi salvo sempre. Ma non ho mai avuto pietà di nessuno, milioni di fossili nei vostri musei ve lo possono confermare.

Avrete sentito parlare dei lemming, quei roditori nordici così lesti a riprodursi che gli eschimesi pensavano che piovessero dal cielo. Non è vero. Non è nemmeno vero che periodicamente corressero verso le scogliere al suicidio di massa: era a una storia a fumetti, che poi diventò un documentario Disney, e da lì in poi non ve la siete più tolta dalla testa. Come ogni leggenda, dice molto soprattutto su chi la racconta. Siete voi i veri lemming, figli del cielo nati per correre: troppo indaffarati e impazienti anche solo per alzare gli occhi e fissare il crepaccio in cui state per lanciarvi. In bocca al lupo, topolini.
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Il blog è morto 4567

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Domenica ero all'Unità con tutta questa gente che, fidatevi, dal vero è assai più bella. Si doveva parlare di Unità d'Italia, ma se metti dei bloggers italiani a un tavolo, un'oretta di autodenigrazione collettiva non ce la leva nessuno. Vecchi, aggressivi, autoreferenziali: siamo noi, i blog italiani (tranne quelli della foto, ovviam)

Il pezzo si può commentare anche sulla nuova piattaforma dell'Unità, quindi non si può più commentare qua.  

È vero che i blog sono autoreferenziali?

Un certo grado di autoreferenzialità è inevitabile. Ma diventa insostenibile soltanto quando si tratta di blog. Se si invitano dieci scrittori a una tavola rotonda, è ovvio attendersi che discutano di letteratura. Se chiami dieci economisti, di economia. Ma se dieci blogger intorno a un tavolo si ritrovano a parlare di blog, devono per forza chiedere scusa per l'autoreferenzialità. In realtà tutta questa spinta ad annoiare i lettori raccontando i fatti nostri, ieri, non si sentiva. Si è discusso dello spazio che condividiamo. Non è mai stato uno spazio molto popolato e importante, quello dei blog italiani: sei o sette anni fa la stampa provò anche a venderci come la nuova rivoluzione internettiana, ma la verità è che non siamo mai stati moltissimi e non siamo mai stati eccezionali. Però secondo me l'autoreferenzialità non deve portarci all'autodenigrazione. Qualcosa di buono lo abbiamo fatto: abbiamo portato qualche argomento, sollevato qualche questione, e in generale lo strumento che abbiamo scoperto ormai dieci anni fa continua a essere molto valido. Per fare un esempio: in queste ore il reportage in lingua italiana più interessante dal Giappone si legge su un blog, Pesceriso. Ovviamente l'autore parla delle cose che capitano intorno a lui, che vive a Tokio. È autoreferenziale? Avercene.

È vero che i blog sono aggressivi?

È vero che i blog – e la Rete in generale – ci mettono in una condizione ideale per esprimere un'aggressività che nella vita 'reale' siamo costretti a contenere. Per molti anni internet è stato un luogo dove non mostravamo i nostri volti, proprio come non li mostriamo mentre guidiamo nel traffico cittadino: l'aggressività dell'internauta in questo senso non è molto diversa da quella dell'automobilista, è un 'calcare i toni' che denuncia l'ansia di non riuscire a farsi capire. Però il blog è uno strumento complesso, non funziona soltanto con la rabbia o con l'indignazione. Prima o poi l'energia che si manifesta in modo aggressivo si deve articolare in qualcosa di più articolato: lo stesso Grillo dopo o giorni del Vaffanculo ha dovuto mostrarsi propositivo, era il suo stesso pubblico che glielo chiedeva. Ma Grillo è un caso molto particolare, preferisco citare il mio: ero una persona molto più aggressiva e insicura quando ho cominciato a scrivere. Sono abbastanza contento di avere trasformato tante orribili incazzature in frasi e in ragionamenti, che altre persone hanno condiviso. Può anche darsi che se fossi rimasto senza questo 'sfogatoio' a un certo punto sarei esploso e avrei fatto la rivoluzione. Io però sono uno di quelli che crede alle rivoluzioni lente, graduali, che passano per la progressiva acquisizione di una consapevolezza. La gente che scoppia all'improvviso mi ricorda i kamikaze di Hamas, mi auguro di poterne farne a meno.

È vero che i blog sono vecchi, ormai?

Sì, infatti ci avevano già dati per morti nel 2004, nel 2005, nel 2007... la prova della nostra decadenza è che nessuno fa più un bel titolo “il blog è morto”, non facciamo più notizia neanche come zombie. Senz'altro non è più lo strumento preferito dai teenager, ammesso che lo sia stato: però fino a tre-quattro anni fa, quando la principale piattaforma di aggregazione giovanile era MSN, era normale sentire un quindicenne dire “ho un blog”, “questa la metto sul mio blog”. Poi c'è stato youtube, poi myspace, adesso facebook, e gli adolescenti sono stati tra i più rapidi a cambiare mezzo. Senza dubbio lo strumento testuale è il più difficile da padroneggiare per loro; si fa molto prima a taggare una foto o caricare un video. Non credo sia il caso di farne un dramma, c'è un tempo per comunicare con le immagini e un tempo per sperimentare la comunicazione testuale (e sui blog si sta molto meglio da quando pettegolezzi barzellette e chiacchiere varie sono finite su Facebook). Detto questo, aveva ragione ieri chi si lamentava che fossimo le solite facce stanche, i soliti capelli grigi. Dove sono i blogger giovani? Ecco, appunto: dove sono? Io di blogger bravi ventenni non ne conosco: sarà un mio limite, ma se penso alle cose che scrivevo a vent'anni... fortuna che non c'erano ancora i blog.

E l'Unità d'Italia, in tutto questo?

Più che unità d'Italia, preferirei parlare di unità di italiani, che su internet sono una tribù compatta, forse un po' troppo impermeabile, tenuta assieme dal collante della lingua italiana. È chiaro che è una lingua banalizzata e standard, credo che entro certi limiti sia il prezzo da pagare. Però è una base su cui ripartire con quell'opera di rialfabetizzazione che secondo me è una delle componenti fondamentali di quella famosa rivoluzione di cui si parlava ieri. Ora che abbiamo un vocabolario comune, possiamo riallargarlo pian piano. I blog possono avere il loro ruolo in questo processo: possono riscoprire parole e concetti e rilanciarli in modo virale. In realtà il successo di una iniziativa come quella di ieri (magari tutti i problemi tecnici avete partecipato in tantissimi), dimostra che le persone hanno voglia di scriversi, leggersi, confrontarsi: i blog servono a questo. E a sentirci dire che siamo autoreferenziali. Certo: parliamo delle cose che ci interessano, che ci succedono, che conosciamo. Di cos'altro dovremmo parlare? http://leonardo.blogspot.com
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L'Italia è un blog

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Domenica prossima, dalle 11 alle 13, l'Unità (giornale) festeggia l'Unità (d'Italia) con una grande tavolata di blogger di tutto rispetto. E poi ci sono anch'io! Seguiteci in streaming sul sito dell'Unità, cercheremo di battere il Papa nella sua stessa fascia oraria. Potrete dialogare con noi scrivendo a unisciti@unita.it, o via facebook, o twitter.

Dove il sì suona
Io ho l'impressione che se si raccogliessero tutte le discussioni che si sono fatte, in rete, negli ultimi mesi, sul centocinquantenario dell'Unità, sull'importanza di festeggiarlo oppure no; sull'importanza del Risorgimento, o viceversa sulla sua irrilevanza – se sia il caso di celebrare Garibaldi o seppellirlo, celebrare Cavour o seppellirlo, e l'Inno, e la Bandiera, eccetera – se si prendessero tutte queste discussioni, e si infilassero nello stesso file, con lo stesso carattere – facciamo un bel Bodoni corpo 10, e poi si premesse il fatidico tasto “Print”, ebbene, avremmo scritto il più grosso libro mai prodotto sul Risorgimento italiano. E anche il più inconcludente, il più illeggibile, il meno necessario. Sono d'accordo. Però vorrei un attimo ragionare sulla quantità. Quanto stiamo scrivendo, sull'Unità d'Italia? Non era mai successo, per un motivo semplice. Siamo in tanti, che scriviamo: non siamo mai stati così tanti. I linguisti hanno un bel da lamentarsi che la qualità del nostro italiano stia peggiorando: hanno ragione. Resta il fatto della quantità: non abbiamo mai scritto così tanto come negli ultimi anni, da quando esiste internet. E su internet esistono siti, forum, chat, social network, e anche blog. Molti di loro hanno scritto qualcosa sull'Unità d'Italia. Magari giusto per ribadire che non valeva la pena di festeggiarne il 150°, che è meglio concentrarsi su altri problemi; che loro più che italiani si sentono europei, o padani, o cittadini del mondo, o napoletani, o interisti. E poi hanno premuto il tasto publish.

E su internet è comparso un altro testo.
In lingua italiana.

"Si scopron le tombe, si levano i morti! I martiri nostri son tutti risorti!" E poi che farebbero, una volta risorti, i nostri martiri? è ragionevole pensare che per prima cosa vorrebbero verificare se ne è valsa la pena. A quel punto potremmo mostrargli l'enorme libro che abbiamo scritto negli ultimi due mesi, sui blog e sui forum e sui social network (e sì, anche nei giornali). Pensate che lo disprezzerebbero? Al contrario, piangerebbero calde lacrime di zombies, per quello che sono riusciti a scatenare. Ce l'hanno fatta, forse non a fare l'Italia, ma a fare l'Italiano. Centocinquant'anni fa la lingua di Dante era l'idioletto di una esigua minoranza di persone – quanto a quelli che sapevano correttamente usarlo per scrivere non erano probabilmente più di qualche migliaio. Oggi scriviamo centinaia di libri al giorno, siamo instancabili. La wikipedia in lingua italiana ha più di 780.000 voci – più di quella in spagnolo castigliano, e lo spagnolo è la lingua ufficiale di una ventina di nazioni, la quarta più parlata nel mondo. L'italiano non è mai stato così brutto, forse, ma nemmeno così vitale. Possiamo anche passare il tempo a litigare sull'unità d'Italia, senza accorgerci che proprio mentre ne litighiamo – in lingua italiana – la stiamo celebrando. Celebriamo l'unità di genti che nel 1861 forse non avevano niente in comune, e che oggi ascoltano le stesse canzoni, guardano gli stessi film doppiati nella stessa lingua, e da qualche anno a questa parte scrivono, indefessi, su internet. Una sterminata produzione letteraria che dovrebbe chiudere qualsiasi dubbio sull'identità. Ci piaccia o no, siamo italiani, da Ventimiglia a Trieste (non un metro più in là).

Questo ha anche un lato oscuro. Internet è una rete che ci consente di condividere le nostre conoscenze con il mondo. Su facebook potremmo dialogare con persone di Paesi stranieri – non ci capita mai. Se siamo esperti di un argomento, potremmo entrare in un forum mondiale dove se ne discute – abbiamo mai pensato seriamente di farlo? E anche i nostri blog, potrebbero servirci per evadere un po' dalla provincia. In dieci anni che ne scrivo uno, mi dev'essere capitato di essere linkato all'estero una volta sola. Da un blog francese. I francesi sono un altro popolo di 60 milioni di persone che vive a poche ore da me, la Provenza mi è molto più familiare del basso Lazio. Ma ai francesi quel che scrivo non è mai interessato, e io non ho mai fatto molto per interessare i francesi. Non è terribilmente provinciale, questo?

Non siamo in generale, noi blog italiani, terribilmente provinciali? Internet poteva servirci a conoscere il mondo, ma il più delle volte ci serve a specchiarci in noi stessi. Ci troviamo gli stessi dibattiti che affliggono la nostra piccola tv italiana, i nostri piccoli quotidiani. Questa lingua, che ci rende stranieri a chi vive a poche ore da noi, sta diventando una prigione. Là fuori ci sono miliardi di persone che progressivamente si stanno accorgendo di vivere nello stesso mondo, con gli stessi problemi. E poi ci siamo noi, il popolo del Sì, una piccola sacca di indigeni autoctoni che continua a discutere animatamente degli anniversari della sua tribù. Da lontano gli altri ci osservano – forse hanno paura a disturbarci, come quelle popolazioni amazzoniche che vanno lasciate così come sono, per preservare una biodiversità, eccetera.

Forse è quello che siamo, una tribù rimasta ai margini del grande discorso globale, con una lingua autoctona che è meglio preservare così com'è. Vitali, ma chiusi in noi stessi. Per saperlo forse basta aspettare fino al 2061, quando festeggeremo il bicentenario. Non ha molta importanza di cosa ci troveremo a parlare per l'occasione – se sia il caso di celebrare Garibaldi o seppellirlo, di celebrare Cavour o seppellirlo, l'Inno o la Bandiera, eccetera. Ha molta più importanza la lingua che useremo. Sarà ancora il nostro italiano? Sarà una buona notizia? (Se vi va se ne parla domenica).
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Il nuovo Baudo (è meglio del vecchio)

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Ho letto Popstar della cultura di Alessandro Trocino, e non so se consigliarlo. Il fulcro del testo è l'introduzione, che trovate integrale sul Post, dove si illustra quella fenomenale definizione che poi vale il libro intero: popstar della cultura, appunto. Seguono sei brevi monografie su altrettante popstar (Saviano, Allevi, Petrini, Grillo, Mauro Corona, Camilleri), che in generale suscitano in me l'effetto instant book, non so se riesco a spiegarmi, quando pensi: “Questo è interessante, dovrei leggermi un vero libro sull'argomento”. Forse Trocino ha avuto un po' troppa fretta di uscire dopo il successo di Via con me, che è un po' la premessa di tutto il libro (Fazio come nuovo sacerdote della nuova cultura midcult). In effetti tutti e sei i personaggi si dimostrano molto interessanti e meritevoli di analisi un po' più approfondite, salvo che a quel punto magari Grillo si sarebbe incazzato e avrebbe sequestrato tutto (sì, pare che Grillo faccia ritirare le biografie non autorizzate, è un dettaglio interessante, se si pensa che la vita di Grillo è materiale da Dostoevskij). E in generale, chi si sarebbe letto un volume di trecento pagine, di cui magari cinquanta sulla concezione petriniana dell'agricultura, o altre trenta sul neoprimitivismo coroniano? Mi viene quasi il dubbio che le sei monografie funzionino soprattutto per le scintille che fanno nel sommario: l'effetto di leggere accostamenti come Saviano-Allevi. In realtà Trocino concede molto a Saviano, ed è persino disposto a riconoscere che quella di Grillo non è antipolitica, non più di quella di molti politici. Ma insomma, alla fine un dibattito su questo libro non può che vertere sulla definizione di popstar. Se dovessi riassumere il tutto in una pagina, metterei questa:

L’intellettuale moderno non è più da tempo la cinghia di trasmissione tra il partito e le masse. All’egemonia culturale della sinistra è subentrata, silenziosa ma devastante, una nuova egemonia “sottoculturale”, per usare un’espressione di Massimiliano Panarari, che ha soppiantato la prima, inoculando nella società il pericoloso e pandemico germe del populismo mediatico.
Sedici anni di dominio berlusconiano hanno impresso un segno indelebile nel carattere nazionale. Per uscire dalle strettoie della sottocultura berlusconicentrica e per sfuggire al gorgo mefitico dell’autoreferenzialità, l’intellettuale ha ceduto di schianto. Succube da decenni di dibattiti autopoietici e di soporiferi cineclub, ormai ebbro e nauseato dalla propria presunta superiorità morale, da tempo degradata in un indifendibile moralismo da casta protetta, la sinistra culturale ha rotto le righe e, muovendosi in ordine sparso, si è buttata nello stesso circuito di populismo della destra, innervato da robuste iniezioni di moderni steroidi catodici. Quel che rimane dell’industria culturale in mano alla sinistra scimmiotta il baudesco nazionalpopolare, utilizzando le antiche corde dell’emozione, del sentimento, dell’anima, dell’antirazionalismo, dell’antimodernismo e della cialtroneria, che da sempre costituiscono il nerbo della melodrammatica e furbesca indole italica. Così nasce e prospera Giovanni Allevi...



Alcune obiezioni:

1. B e r l u s c o n i    h a    v i n t o. Ci ha inoculato. Abbiamo ceduto di schianto e adesso ci ritroviamo Allevi, mentre prima ascoltavamo... ascoltavamo... boh, Benedetti Michelangeli? Trocino, che pure identifica con molta chiarezza quali sono i contenuti deteriori delle 'popstar' (sentimentalismo, antirazionalismo, primitivismo, eccetera), e altrove se la prende esplicitamente con i “venditori di apocalisse”, ecco, Trocino non è del tutto immune dal sentimento apocalittico. Addirittura nella sua versione più svenduta, l'antiberlusconismo. Per immaginare che Berlusconi ci abbia lasciato un segno indelebile, dobbiamo postulare un'età dell'innocenza in cui non eravamo berlusconiani, non avevamo ancora colto la mela del biscione e quindi fruivamo di una cultura vera, senza popstar. Ma è mai esistita questa età dell'oro in cui invece di Allevi ascoltavamo Benedetti Michelangeli, mentre sfogliavamo La dialettica dell'Illuminismo invece di Camilleri? Lo chiedo a voi, io non me la ricordo, sarà che sono giovane?

Trocino stesso indica come prima manifestazione di popstar culturali la tenzone post 11 settembre tra la Fallaci e Terzani sulle pagine del Corriere. Ecco, per esempio, la Fallaci. Senz'altro una popstar quando scriveva La Rabbia e l'Orgoglio (la cui estrema appendice si chiama, guardacaso, Apocalisse). Ma la Fallaci degli anni Settanta? Qualla delle super-mega-interviste coi protagonisti del Novecento? La Fallaci di Un uomo o di Lettere a un bambino? Non aveva già il piglio, il carisma e il pubblico di una popstar? E... Pasolini? Trocino si ritrova a citarlo spesso, come padre putativo di un certo sentimento antimoderno che serpeggia tra le nuove popstar. Pasolini è un autore contorto e aggrovigliato sulla sua stessa ideologia, ma pensiamolo semplicemente nel ruolo che interpretava (che aveva in un qualche modo acconsentito a interpretare) nel dibattito culturale degli anni '70; pensiamo alle Lettere Corsare: non era una popstar – anzi, meglio, una rockstar – anche lui, quando scriveva “io so” o “vi odio cari studenti”? E la Morante del Mondo salvato dai ragazzini? E Don Milani, non quello asperrimo delle Esperienze pastorali, ma quello edulcorato della vulgata veltroniana, quello che è un eroe perché non boccia gli studenti poveri? E Dario Fo? E Indro Montanelli quando faceva lo storico? Ed Enzo Biagi quando diventava un marchio di fabbrica (garanzia di medietà) da appiccicare su qualsiasi prodotto industriale, compresi i fumetti? Tutto questo succedeva quando Berlusconi faceva al massimo il palazzinaro: non l'ha inventato lui il midcult. In seguito non mi sembra che abbia aggiunto molto a una formula già rodata. Ne ha semplicemente approfittato, come qualsiasi editore (Feltrinelli non lo ha fatto? E Adelphi?)

2. F a z i o    è    i l   n u o v o     B a u d o. Sono d'accordo. E allora? Secondo me sarebbe d'accordo lo stesso Fazio, probabilmente è il disegno che persegue da anni. A questo punto però propongo un esercizio intellettuale: immaginare cosa sarebbe Domenica In, il contenitore domenicale della Rai, se lo gestisse Fazio da dieci anni, come probabilmente sarebbe successo senza editti praghesi e in generale senza Berlusconi al potere. Non c'è dubbio che lo avrebbe gestito come lo gestiva Baudo negli anni Ottanta: invitando cantanti e scrittori, presentando balletti cantanti e telefilm, e dando verso sera la linea a 90° minuto. Secondo me Fazio ha sempre voluto essere quello lì, quello che regna sulla domenica italiana. E non c'è dubbio che sarebbe una domenica nazionalpopolare, ma che domenica sarebbe? Un'intervista a Peter Gabriel (all'ora in cui invece si parla del delitto di Avetrana), un siparietto con Albanese (invece che Platinette), due chiacchiere divulgative con Odifreddi (invece di un servizio sulla fine del mondo nel 2012), un balletto ma sperimentale, poi un'ospitata di Follett o Calasso che presentano il loro cartonato (invece di un servizio dalla casa del Grande Fratello). Che domeniche sarebbero? Naturalmente noi avremmo meglio da fare che guardarlo – ma non sarebbe un netto miglioramento, non solo nei confronti della merda che affligge la nostra digestione mentre sonnecchiamo sul divano, ma anche rispetto alla Domenica baudiana? Insomma, preso atto che Fazio è il nuovo Baudo, è così male come Baudo? Baudo non invitava la Fallaci o Pasolini, è arrivato troppo tardi: ma non è neanche riuscito a scovare Pier Vittorio Tondelli o Andrea Pazienza. Io ricordo immarcescibili i vari Bevilacqua, Gervaso, De Crescenzo, Luca Goldoni, per carità tutta gente simpatica, ma non stiamo neanche a scomodare il termine popstar. E invece un Pazienza da Fazio ci sarebbe andato. E gli avremmo dato del nazionalpopolare. Perché saremmo convinti di vivere in una pessima Italia, non sapendo quanto è pessima quella in cui Berlusconi ha vinto e la domenica è affidata a creature come Giletti, o Giurato.

3. L e     c e n e r i    d i     G r a m s c i. Per l'apocalittico Trocino l'apparizione di queste popstar è un chiaro sintomo degenerativo della cultura di sinistra (ogni tanto compare Gramsci come nume tutelare, per la verità la riflessione di Gramsci sul nazionapopolare era un po' più sottile). Ora, dare addosso alla sinistra è uno sport nazionale che pratico anch'io a livello amatoriale (ma da bambino sognavo il professionismo). Però, insomma, chi ce lo ha detto che Allevi è di sinistra? Lui no, lui non lo ha detto. Da cosa si dovrebbe capire? E Mauro Corona? Non potrebbe essere considerato più agevolmente un autore di destra, col suo primitivismo apocalittico? A volte, più che essere di sinistra, queste popstar “vengono” dalla sinistra: vedi Petrini, con la sua storia di comunista di sezione. Trocino poi insiste molto sui 'tradimenti' di Petrini, sui suoi flirt con la Lega. Si potrebbe semplicemente prendere atto che il fondatore di Slow Food, partendo da sinistra, si è spostato consapevolmente su posizioni conservatrici che lo portano per forza a incrociarsi con movimenti tradizionalisti e identitari. Lo stesso Saviano, prima che con “Vieni via con me” si ritrovasse nella ridotta televisiva antiberlusconiana, godeva di una certa trasversalità politica, secondo Facci e Socci era addirittura un intellettuale di destra (a proposito: e Socci? Non è a suo modo una popstar, anche se più locale, diciamo un neomelodico della parrocchietta? E Veneziani? E Buttafuoco? E chi li legge? Sì, appunto, è il solito problema della cultura italiana di destra, che non trovi nessuno disposto a leggertela, figurati a passarti i riassunti). Il fatto che da sinistra spuntino più popstar dipende se mai dal fatto che sempre di consumo culturale stiamo parlando, e il bacino di questo consumo è sempre il famoso ceto medio riflessivo coi capelli grigi che intasa le librerie Feltrinelli alle sei di pomeriggio di ogni santo sabato: i libri e i dischi li comprano praticamente solo loro  (per dire io Trocino l'ho preso in biblioteca), quindi è abbastanza naturale che oggi le popstar nascano lì. Ma non restano lì, questo mi sembra importante. Si diventa popstar quando si riesce a sfondare il proprio bacino tradizionale e a piacere anche a tutti gli altri. Lo stesso Camilleri, prima di darsi alle invettive impegnate, ha conquistato la sua popolarità sulla cosa più trasversale che esista sui banchi del mercato letterario: il giallo seriale. Roba tendenzialmente conservatrice, non fosse perché di solito la Legge trionfa e l'Ordine viene ripristinato: salvo che in quegli anni c'è stata un'enorme rivalutazione del noir da sinistra, che ha permesso a Camilleri e ai suoi lettori di non percepire quel senso di colpa – ma anche quel delizioso senso di proibito – che avevano i 'compagni' di trent'anni fa che sfoggiavano Marcuse sugli scaffali del soggiorno ma sul comodino ammucchiavano Gialli Mondadori. C o n t i n u a . . .
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La Winx di Veltroni

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Veltroni 132 - Nessuno 113

Io mi rendo conto che a volte mi rendo noioso, con Veltroni, che per quante ne dica e ne faccia non è senz'altro sulla lista dei primi dieci problemi di ciascuno di noi. Però stavolta penso che valga la pena di insistere, almeno qui. Ha anche a vedere con quello che si diceva lunedì, l'esigenza di darsi obiettivi precisi, anche minuscoli, ma raggiungibili. Ecco, stasera potrei scrivere di tante cose (la Libia, la scuola, la crisi) senza riuscirne a cambiare neanche una. Oppure potrei insistere su Veltroni, perché forse stasera qui si può fare un passo concreto per ridimensionarlo. Esatto, ormai Veltroni è alla mia portata. Non significa che io sia diventato importante, eh, attenzione. Significa semplicemente che Veltroni sta diventando piccolo, e che le sue dichiarazioni strampalate stanno cominciando a perdersi nel brusio di fondo (che sarei poi io, ciao, mi chiamo Leonardo e produco brusio).

Del resto, giudicate voi. Domenica Veltroni ha chiamato nelle piazze il popolo pacifista. Ha deciso di farlo attraverso facebook, il che a mio parere rappresenta una mossa suicida, una dimostrazione abbastanza plateale di non conoscenza delle dinamiche internettiane – nessuno pretende del resto che WV le conosca, di sicuro ha meglio da fare che imparare cosa sono i tag e i like – ma non dovrebbe esserci qualcuno in grado di consigliarlo? Non è il rappresentante di un'importante corrente del PD? Non si sa. Sia come sia, l'appello è ancora là. Ha collezionato centinaia di commenti, e non sono tutti ingiuriosi come ho scritto lunedì. Ci mancherebbe, il mondo è bello perché è vario. Ma vogliamo parlare dei “like”, o come si chiamano in italiano i “mi piace”? Il pezzo di Veltroni, pubblicato la domenica mattina, piace per ora a 132 persone. Vi sembrano tante? A me non sembrano tante. Mi sembrano quasi 132 sassolini sulla tomba del carisma di un leader. Esagero? Un importante uomo politico si domanda perché le piazze non si riempiono per la pace, o contro Gheddafi (come se fosse la stessa cosa manifestare per la pace e contro Gheddafi), e il suo accorato invito alla mobilitazione... piace a 132 persone. Così, a occhio non ci riempi una piazza. D'altro canto è solo un numero, e i numeri da soli non dicono molto.

Ma è sufficiente accostarli ad altri numeri: per esempio io (che non sono nessuno), lunedì mattina ho pubblicato sull'Unita.it un pezzo in cui rispondevo a Veltroni. Mi è venuto magari un po' pedestre, va bene, chiedo scusa, in ogni caso la mia risposta a Veltroni piace per ora a 113 persone. Sono molte? Sono poche? Per i numeri che faccio di solito io su facebook, sono parecchie. In termini assoluti sono pochissime. Ma se le confrontiamo col dato di Veltroni... Pensateci, è un ex segretario del PD, uno che va ancora in prima pagina con le sue dichiarazioni (ieri ha dato un'intervista sul Sole 24 Ore, sconclusionata come al solito, dove continua a domandarsi perché i pacifisti non sostengono i guerriglieri. Veltroni, insomma, quelli che manifestavano contro l'intervento in Iraq erano pacifisti; quelli che marciano su Tripoli sono guerriglieri. Davvero è così difficile capire la differenza?) Ecco, una personalità del genere chiama i pacifisti alle armi su facebook, e ottiene 132 like. Uno sfigato gli risponde, e ne ottiene 113. E con un po' di sforzo secondo me quel 113 potrebbe anche superare il 132. Esatto, sì, vi sto chiedendo di votare per me su Facebook. Lo so che è imbarazzante, ma credo che potrebbe avere un pur minuscolo significato mediatico. Come minimo, sarebbe la dimostrazione che è meglio non usarlo, Facebook, se sei Walter Veltroni e vuoi chiamare il tuo popolo alle barricate. Non è l'ambiente adatto. Lo so che fuori c'è un mondo che non saprà mai chi sono io e conosce e stima WV. Lo so, Facebook non è assolutamente rappresentativo di nessun bacino elettorale. Però un flop su Facebook è pur sempre un flop. Il ridimensionamento di un personaggio che non sta facendo bene al PD passa anche attraverso momenti come questi: lui prova una sortita, rimedia pernacchie, la prossima volta starà più attento.

È qualcosa che è già successo, in passato, per esempio a Francesco Rutelli. Ve lo ricordate, Rutelli? Vi ricordate che a un certo punto siete persino arrivati a considerare il pensiero di votare per lui? Per molto tempo la sua figura dominò il dibattito politico: la sua scelta di campo prodiana, le sue sbandate centriste, riempivano le prime pagine. Poi successe qualcosa. Lentamente, molto prima che scomparisse dalla scena, Rutelli smise di essere interessante. Cos'era successo? Non si è capito bene, ma nessuno mi toglierà mai dalla testa che fu a causa delle Winx, le popolari bamboline. Ovvero, a un certo punto qualcuno pubblicò un sondaggio sui leader del centrosinistra (Rutelli era evidentemente tra i candidati), qualche buontempone tra i leader inserì le Winx, che non sbancarono, ma guadagnarono un dignitoso uno o due per cento, attestandosi – questo è importante – molto al di sopra del dato di Francesco Rutelli. A quel punto forse anche ai vertici capirono. Continuarono a candidarlo, perché l'autolesionismo a sinistra è un dato oggettivo: riuscirono persino a perdere il municipio di Roma: però ormai era andata, dopo il confronto con le Winx Rutelli non è più stato lo stesso. Era già antipatico più o meno a tutti, ma tutti davano per scontato che fosse il candidato adatto a qualcun altro. I comunisti pensavano ai cattolici, i cattolici pensavano ai radicali, i radicali pensavano mboh, mal che vada ce lo siamo tolti di dosso. Le Winx ci hanno liberato dal sortilegio, grazie Winx. E infatti poi Rutelli è persino uscito dal PD, e sapete quanto ha perso nei sondaggi il PD quando Rutelli è uscito con tutti i suoi teodem? Niente, anzi, ha guadagnato un po'. Grazie Winx.

Ecco, forse il caso, o il destino, o il complotto plutomassogiudaicofacebookiano, mi ha dato la possibilità di essere la Winx di Walter Veltroni. Credo sia mio dovere giocare il mio ruolo fino in fondo. Non sono nessuno, sono un personaggino inutile che scrive pezzi lunghi e seriosi. Però su facebook forse sono più popolare di Walter Veltroni. Quindi, cari giornalisti, non pretendo certo che mi prendiate sul serio. Ma la piantiamo piuttosto di prendere sul serio Walter Veltroni?
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Se non ora, dopo.

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Dunque, come forse già sapete ieri Walter Veltroni - un rappresentante del PD che questo blog segue con un certo interesse - si è domandato su facebook perché nessuno va a riempire le piazze per manifestare contro il cattivo Gheddafi. L'episodio credo che farà storia, anche soltanto per le modalità con cui Veltroni ha deciso di intervenire in un argomento delicato che sta tormentando molte coscienze pacifiste e non: cosa dovremmo fare per i libici? Ecco, mentre noi stavamo a tormentarci le coscienze, Veltroni ci ha scritto che dovremmo darci da fare, che una volta eravamo più attenti, che siamo rifluiti al "nostro giardino", e lo ha fatto su Facebook, così, senza filtri. A questo punto è cominciato il tiro al piccione, che su Facebook viene benissimo.

Mentre Veltroni veniva ingiuriato in vari modi, io ho scritto la mia teoria del lunedì (qui la copia cache), nella quale in sostanza gli spiegavo che Gheddafi non è quel tipo di persona che se riempi una piazza a Roma se ne va; che è un po' semplicista affrontare i problemi in questo modo; che un leader politico si vede anche dalla capacità di offrire a un movimento di piazza delle proposte concrete, invece di lagnarsi perché la gente in piazza non ci va e la domenica preferisce stare a casa a innaffiarsi il giardino. Il pezzo sull'Unità.it stava andando abbastanza bene, ma adesso c'è un problema tecnico e i blog dell'unità risultano (spero momentaneamente) inesistenti. Così per ora lo ricopio qua sotto (update: è tornato, andate a leggerlo di là).


Caro Veltroni, ecco perché non scendo in piazza contro Gheddafi è on line (spero) sull'Unita.it. Si commenta su facebook oppure qui.

Caro onorevole Veltroni, chi le scrive è uno dei tantissimi che manifestarono, tra il 2002 e il 2004, contro l'invasione dell'Afganistan e soprattutto dell'Iraq. Le scrivo perché mi sento tirato in ballo da quello che ha scritto ieri sul suo profilo Facebook. “Perché nessuno scende in piazza al fianco dei patrioti libici?”, si è chiesto. "Perché era così facile mobilitare giustamente milioni di persone contro Bush e gli americani per la guerra in Iraq e nessuno prova a riempire le piazze contro il dittatore Gheddafi?"

Dunque, non so gli altri, ma io non provo a riempire le piazze contro il dittatore Gheddafi principalmente perché non sono uno stupido; non credo che una o cento piazze piene in Italia possano avere qualche effetto sulle scelte del dittatore Gheddafi, proprio perché è un dittatore e se ne frega persino delle piazze dei libici (che hanno dovuto sparare per cominciare a farsi sentire), si figuri di quelle degli italiani. Non è neanche esatto che io abbia manifestato “contro Bush e gli americani”. Io manifestavo per dimostrare la contrarietà mia, e di moltissimi italiani, a due guerre alle quali l'Italia avrebbe partecipato. Sì, ero contro la guerra di Bush, ma era davanti a Berlusconi che sventolavo la bandiera arcobaleno, e non me ne pento. Si è pentito invece Berlusconi, che anche a causa di quelle guerre perse sonoramente le elezioni regionali del 2005 e, di misura, le legislative del 2006. Al suo posto arrivò Prodi, e una delle poche promesse che fece in tempo a mantenere fu il ritiro del contingente italiano dall'Iraq. Siamo rimasti in Afganistan, è vero, ma lo stesso Berlusconi non si ricorda più il perché.

Ora una breve digressione, che spero mi perdonerà. il mio pacifismo militante è cominciato con la prima guerra del Golfo, ero al quarto anno di liceo e lo occupai. Mi piace pensare che non fossi stupido nemmeno allora. Avevo molti brufoli e una cotta imbarazzante per una compagna, ma non ero stupido, quindi votai una mozione che dichiarava la contrarietà del mio liceo all'intervento militare dell'Italia. Era una minuscola cosa, certo, ma molti miei compagni non erano d'accordo nemmeno su quella, e preferivano sostenere una mozione vaga, che era contraria alla Guerra con la G maiuscola, la guerra in generale, non a quella guerra specifica e non all'intervento italiano. Ecco, per me occupare il liceo così, contro la guerra in generale, mi sembrava solo una perdita di tempo. Non ho cambiato idea: le manifestazioni, le occupazioni, gli scioperi, secondo me si fanno per ottenere obiettivi minimamente concreti: non si manifesta contro un dittatore, ma per chiedere al proprio governo di troncare i rapporti con quel dittatore. Faccio questo esempio perché su facebook c'è adesso chi le chiede con insistenza dov'era quando in Parlamento si votava il Trattato Italia-Libia, il perno dell'asse Berlusconi-Gheddafi. In quell'occasione i voti contrari, anche tra le file dell'opposizione, furono davvero pochi.

Caro Veltroni, quello che io ho imparato occupando per qualche giorno un liceo nel gennaio del '91, è che le persone che manifestano contro la guerra si possono dividere in due gruppi. Ci sono quelli che vorrebbero cambiare le cose, anche di poco: quelli scenderanno in piazza solo se credono di poterci riuscire, e ci resteranno solo finché ci credono, non un solo momento di più. Di solito avranno obiettivi precisi: convincere l'opinione pubblica che la tal guerra è sbagliata, spingere un partito a votare contro un intervento, mostrare al governo che questo eventuale intervento andrebbe contro la volontà popolare, eccetera. Sono queste le persone che hanno fatto grande il movimento pacifista che riempiva le piazze otto anni fa. Sono questi che possono andare fieri del nostro ritiro in Iraq: lo hanno chiesto, hanno spostato un po' di opinione pubblica dalla loro parte, e alla fine lo hanno ottenuto.

Poi c'è un altro gruppo di persone: quelli che manifestano per il gusto di farlo: perché in un corteo c'è sempre qualcuno che sta davanti, e può diventare uno importante. Costoro di solito non hanno obiettivi precisi, anzi, hanno la necessità di restare sul vago, perché l'obiettivo preciso si può raggiungere o si può fallire, ma una Manifestazione contro la Guerra in Generale si può convocare sempre (guerre ce ne sono sempre) e farà sempre sentire tanto buoni tutti quelli che vi partecipano. Ecco, nel 1991 ho imparato a non fidarmi di quelle persone. Sono passati vent'anni e continuano a tormentarmi su facebook, hanno sempre qualche oscuro senso di colpa su cui far leva, qualche oscuro dittatore contro il quale non ho manifestato e di cui quindi dovrei sentirmi complice. Qualche anno fa volevano che sfoggiassi uno straccetto verde per l'Iran, o uno rosso per la Birmania, o era il Tibet, non ricordo. Ma io non ho mai pensato che uno straccetto indossato a mille miglia di distanza possa influire sul karma di un dittatore: mi sbaglio?

Magari mi sbaglio, caro Veltroni, ma quando mi chiede di scendere in piazza contro Gheddafi, mi pare che lei si guardi bene dal mostrarmi un obiettivo concreto. A parte un sostegno generico a chi si batte contro un dittatore, cosa dovremmo chiedere, e a chi? Dobbiamo mostrare vicinanza a chi si batte, dice. Va bene, ma quelli più che della nostra vicinanza hanno bisogno di armi e munizioni: apriamo una sottoscrizione? “Ci vuole un grande impegno politico e umanitario”, ha detto ai microfoni del tg3. Ovvero? Caro Veltroni, ribadisco: non siamo stupidi, e sappiamo che nessun impegno umanitario è possibile, in un teatro di guerra, senza una copertura militare. Quindi, concretamente, vogliamo chiedere all'Unione Europea (o alla Nato, o all'Onu) una “missione di pace”, di quelle che di solito si fanno con le forze armate? Se ritiene che sia una buona idea lo faccia, caro Veltroni: se ne prenda la responsabilità, e poi proponga a chi è d'accordo di riempire una piazza con lei. Forse a quel punto accetterei il suo invito.

Ma lei in questo momento non sta facendo questo. Si sta lamentando perché non manifestiamo contro la Guerra in Generale, contro il Dittatore in quanto tale, e si permette pure di darci degli egoisti, di parlare di riflusso (“Anche le coscienze di tutti noi sono rifluite dal mondo al " nostro giardino" ?”) come se fosse l'egoismo a toglierci la voglia di scendere in piazza per obiettivi vaghi che nessuno centrerà mai. "Ho la sensazione che nessuno si mobiliti per la Libia perché tutti aspettano chi vince", dice. In realtà siamo confusi: non dovremmo esserlo? La situazione non è chiara, e non siamo tutti esperti di geopolitica. In casi come questi un leader politico dovrebbe fornirci un'interpretazione convincente di quello che sta succedendo, e proposte concrete per cui lottare. Lei invece si lamenta perché non abbiamo le idee chiare, e ci accusa più o meno di disertare le piazze per egoismo.

Vede, caro Veltroni, è vero che noi pacifisti abbiamo famiglie, lavori, impegni, quel famoso “giardino” che in sostanza è la nostra vita, nella quale possiamo pure trovare qualche fine settimana per manifestare, ma per obiettivi concreti. Non per il gusto di farlo, non per dimostrare semplicemente di essere in tanti, e di sicuro non per portarla sugli scudi, caro Veltroni, senza che lei si prenda neppure la briga di proporci una direzione precisa. A proposito: ha letto quanti commentatori su facebook le chiedono piuttosto di manifestare contro Berlusconi? Non li snobbi: rifletta bene se è più concreto chi chiede a Roma di manifestare contro Tripoli. 
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Ruby è un ologramma (e pure noi)

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Quando racconti una storia – e ne va del tuo onore – devi farla il più possibile semplice, senza sbavature, con pochi snodi, perché ogni snodo è un punto critico, una chiave di volta, e ne basta una sola fasulla a far crollare tutto quanto.

Detto questo, cerchiamo di riassumere il caso Ruby. Silvio Berlusconi è accusato di averla pagata per una prestazione sessuale mentre era minorenne (e di aver concusso alcuni pubblici ufficiali affinché fosse affidata a Nicole Minetti, ma di questo al massimo parliamo un'altra volta). Questa è la tesi dell'accusa; ma Berlusconi non può avere avuto una prestazione sessuale con Ruby, perché è un ultrasettantenne anziano che è stato operato alla prostata, e quindi "addio rapporti", come scrisse Vittorio Feltri un paio di anni fa. Il caso quindi è chiuso.

Però insomma, non è detto, esistono operazioni costose che recuperano la funzionalità urogenitale, e lo stesso Feltri qualche giorno dopo titolava “Siamo tutti Berlusconi”, e non intendeva “siamo tutti ultrasettantenni impotenti”, ma qualcosa piuttosto del genere “siamo tutti puttanieri”. Però, nel caso Berlusconi fosse in grado di avere prestazioni sessuali, non le avrebbe avute con Ruby, e con tutte le professioniste e semiprofessioniste del magico mondo del Bunga-bunga, perché lui è fidanzato, dice, e questa fidanzata ovviamente lo tiene d'occhio.

Però Berlusconi (che è impotente) (ma se non lo fosse sarebbe fidanzato) questa fidanzata è ormai da due mesi che dice di avercela e non ce la mostra; una cosa che se Silvio fosse stato un nostro amichetto di cortile a dodici anni, saremmo ancora lì a sfotterlo a quaranta, ehi Silvio, salutaci Gertrude (la mano rude). Comunque Silvio, (che è impotente) (ma se non lo fosse sarebbe fidanzato), anche se avesse fatto sesso con Ruby, non lo avrebbe fatto a pagamento... perché insomma, guardatelo, nel vigore dei suoi 80 anni lui è quel tipo di uomo che le donne deve pagarle perché gli stiano alla larga. Quindi il caso è chiuso.

D'altro canto sembra dimostrato che Ruby si prostituisse prima di conoscere Berlusconi; che prostitute erano molte sue conoscenti, tra le quali anche la signora che chiese aiuto a Berlusconi quando Ruby era in questura; la stessa da cui Ruby andò a vivere dopo che Nicole Minetti dalla questura la fece uscire. Si sa che alla fine dei suoi ricevimenti chic Berlusconi distribuiva cospicue bustarelle anche alle tipe che non gli avevano fatto nemmeno un mezzo sorriso. Dunque Silvio (che è impotente) (e se non lo fosse sarebbe fidanzato) (e se avesse tradito la fidanzata con Ruby non lo avrebbe fatto a pagamento) potrebbe in effetti aver pagato Ruby. Ciò comunque non costituirebbe reato, perché... (rullo di tamburo) Ruby in realtà è maggiorenne! Lo dice un documento in Marocco. Bene.

D'altro canto ci sono documenti e testimonianze dei famigliari che dicono il contrario. E quindi Berlusconi – che è impotente – ma se non lo fosse sarebbe fidanzato – ma se avesse tradito la fidanzata comunque non avrebbe pagato Ruby – ma se l'avesse pagata, comunque Ruby era maggiorenne... Silvio, diciamo, probabilmente dovrà inventarsene un'altra. Non dubitiamo che ci riuscirà, e magari sarà la volta buona. Però stasera mi andava di partecipare al brainstorming. Nella speranza che qualche membro del suo staff legale legga leonardo, ehi tu, senti un po' qui cos'ho per voi:


  • Ruby era sì minorenne, ma in realtà era una minorenne cyborg (segue documentario curato da Daniele Bossari). Il sesso coi cyborg non è ancora regolamentato per legge, e quindi Berlusconi (che è impotente) (e se non fosse impotente sarebbe fidanzato) (e se avesse tradito la fidanzata con Ruby, comunque non l'avrebbe pagata) (e se l'avesse pagata, comunque sarebbe maggiorenne) non può essere punito per aver fatto sesso con un cyborg, ancorché minorenne (ma cosa significa minorenne per la comunità cyborg? Adesso dobbiamo aspettare la maggiore età per adoperare gli automi? Oddio, quanti anni ha il mio minipimer? Tre? E l'ho adoperato per frullare il passato di verdure? Sfruttamento minorile! Ergastolo!) E qualora una banalissima visita medica dovesse dimostrare che non si tratta di un cyborg, potremmo aggiungere che...
  • Ruby è un ologramma di un cyborg, e fare sesso con un ologramma equivale più o meno a farlo con sé stessi... e quindi spiegatecelo, uomini della giuria: volete punire un uomo (che tra l'altro è impotente) (e se non fosse impotente sarebbe fidanzato) (e se avesse tradito la fidanzata con Ruby, comunque non l'avrebbe pagata) (e se l'avesse pagata, comunque sarebbe maggiorenne) (e se non fosse maggiorenne, comunque sarebbe un cyborg) (anzi, l'ologramma di un cyborg) perché si dedica a un po' di sano autoerotismo con delle illusioni percettive hi-tech? Però ci sarà sempre qualche ficcanaso convinto di poter dimostrare che la mora mascellona che iersera si è divertita un sacco al ballo delle slavate silfidi viennesi non è un ologramma, ma una ragazza in carne e ossa, e allora sentite questa:
  • Siamo tutti un ologramma. Lo dicono alcuni scienziati (segue interessante articolo in comic sans). Altri non sono d'accordo, ma a questo punto, scusate, cos'è la realtà? Ha un senso preoccuparsi di un caso particolare, quando filosofi e scienziati non sono ancora arrivati a un accordo sull'esistenza del mondo tale quale lo percepiamo coi sensi? Quindi Silvio (che tra l'altro è impotente) (e se non è impotente sarebbe fidanzato) (e se avesse tradito la fidanzata con Ruby, comunque non l'avrebbe pagata) (e se l'avesse pagata, comunque sarebbe maggiorenne) (e se non fosse maggiorenne, comunque sarebbe un cyborg) (anzi, l'ologramma di un cyborg) non può avere fatto sesso con Ruby perché lui stesso non esiste, così come non esisto io, non esistete voi, cari lettori, e tutta la realtà così come noi la immaginiamo (magistrati inclusi: anzi, sono quelli che esistono meno). Siamo soltanto ombre sulla caverna, riflesso di una caleidoscopia di causalità e casualità che possono e non possono intrecciarsi, e a questo punto se ci coglie la vertigine, di fronte all'ignoto, e ci nascondiamo sotto le coperte con la prima che passa, chi può biasimarci? Tanto più che siamo impotenti. E se non lo fossimo, saremmo fidanzati. E se avessimo tradito la fidanzata, comunque non lo avremmo fatto pagando. E se anche avessimo pagato, avremmo pagato una maggiorenne. E se anche fosse stata una minorenne, eccetera.
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Il vassoio era trattabile

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Nell'interesse nazionale
- Nel futuro prossimo, in un buio palazzo di Roma:

“Presidente, buongiorno, mi aveva chiamato?”
“Buongiorno, sì, è probabile, ma in questo momento non ho la minima idea di chi tu sia, scusa”.
“Sono un agente dell'intelligence del Ministero della Difesa, nome in codice...”
“...lascia perdere, tanto me lo dimenticherò tra un istante. Ma insomma, secondo te perché ti ho mandato a chiamare, non ti viene in mente un motivo...”
“Presidente, è Lei stesso ad avermi incaricato recentemente di svolgere una missione in Libia...”
“Io stesso? Faccio il ministro degli esteri, adesso?”
“No, Presidente, tecnicamente il ministro è Frattini”.
“Frat... ok, ho capito. Di cosa ti avrei incaricato, insomma?”
“Di prendere contatti riservati con la dirigenza del movimento di liberazione libico, che ormai controlla il novanta per cento del Paese”.
“Ah, ecco! Giusto! La Libia! Scusa, eh, ma al mattino ci metto un po' a ingranare. Senti, nome in codice... vabbe', chissenefrega. Se ho chiamato te, è perché nel momento in cui ti ho chiamato ero perfettamente in grado di intendere che tu sei il migliore uomo che abbiamo...”
“Beh, grazie, Presidente, in realtà io...”
“Perché la missione che stai per compiere è maledettamente complicata. Ora, quello che ti sto per dire non deve uscire da questi muri, intesi? Cala le braghe”.
“Qui, presidente?”
“Ma no, sciocco, intendevo in senso figurato. Cala le braghe, accetta qualsiasi richiesta ti chiederanno. Non possiamo assolutamente permetterci di perderla, la Libia. È fondamentale”.
“Sì, presidente, infatti mi aveva già...”
“Non è solo il petrolio. Ma comunque è anche quello. Con i rincari che ci sono in giro io non posso passare alla storia come quello che si è fatto soffiare il petrolio dietro casa. E poi c'è il discorso gas. Certo, abbiamo pur sempre quello di Putin...”
“Riguardo al gas, presidente...”
“Però, se poi domani casca Putin? Non si può mai sapere, mai. Anche Gheddafi sembrava immortale, e adesso guardalo. No, no, la Libia ci serve, costi quel che costi. Non tanto per gas e petrolio, quanto per il discorso respingimenti”.
“Beh, presidente, anche per quanto riguarda i respingimenti, io...”
“Che è una cosa fondamentale, capisci, tizio, l'Italia la governi se sei in grado di nascondere sotto il tappeto i problemi, e noi con Gheddafi avevamo fatto un affarone, gli mollavamo tutti i derelitti del mediterraneo, e lui li faceva sparire nel deserto che era un piacere. Un servizio così, chi ce lo farà più...”
“Ma vede, appunto...”
“Appunto, cala le braghe. Tutto quel che vogliono. Per dire, vogliono una moschea a Roma? Io gliela faccio anche a Roma, non guardo in faccia a nessuno”
“Presidente, in realtà, una moschea, a Roma...”
“Ratzinger s'incazza? E lascia che si scazzi, Ratzinger, mica mi fa il pieno di benzina, Ratzinger, mica se li può prendere Ratzinger i barconi. Senti, tu a questi nuovi colonnelli libici digli che se hanno figli in età giusta glieli faccio giocare in serie A, ma mica nel Perugia, stavolta, digli che li metto in rosa al Milan, non c'è veramente problema”.
“Presidente...”
“E buona fortuna, ché ne avrai bisogno”.
“Fortuna? Perché, presidente?”
“Ma che domande, per il viaggio che stai per fare, nella Libia sconvolta dalla guerra civile...”
“Ma io ci sono già stato in Libia, Presidente, sono tornato l'altro ieri”.
“Ah sì? Ma scusa, chi ti aveva briffato?”
“Ma lei, Presidente, la settimana scorsa. E mi aveva detto più o meno le stesse cose”.
“Di calare le braghe?”
“Non aveva usato proprio la stessa espressione, ma il senso era quello”.
“E quindi sei già tornato”.
“Sì, probabilmente lei mi ha fatto chiamare per sapere com'era andata. Anche se gliel'ho già spiegato ieri”.
“Ecco, bravo, com'è andata? Magari oggi sarò più attento di ieri, proviamo”.
“È andata molto bene”.
“Hai calato le braghe?”
“Ma non c'è stato davvero bisogno. Hanno un Paese da ricostruire e sono ansiosi di fare affari con noi, che restiamo un partner naturale. Certo, bisognerà essere discreti, perché la nazione è ancora percorsa da un fortissimo sentimento anti-italiano. Purché...”
“Quindi con petrolio e gas siamo a posto? Stesse tariffe?”
“Sarebbero anche disposti a un piccolo sconto, purché...”
“E i respingimenti?”
“Non vedono l'ora di diventare i nostri secondini, anche lì, sono dispostissimi a riaprire i campi di concentramento nel deserto a prezzi modici, purché...”
“Perché continui a dire purché?”
“C'è quella clausola, Presidente... ne avevamo parlato ieri...”
“E tu riparlamene. Potrà anche capitarmi di avere qualche vuoto di memoria, ogni tanto, alla mia età... con tutti i miei impegni... le preoccupazioni...”
“Insomma, Presidente, loro sono dispostissimi a fare affari con noi, ma prima di sedersi a un qualsiasi tavolo ufficiale vogliono una cosa. Una sola cosa... piccola... o grande, a seconda del punto di vista”.
“E cosa vorranno mai, questi beduini”.
“La testa di Calderoli su un vassoio d'argento”.
“La che?”
“Informalmente hanno ammesso che il vassoio d'argento è trattabile, probabilmente si accontenterebbero di un contenitore di plastica. Ma è fondamentale, è d'interesse vitale che contenga...”
“La testa di Calderoli, ma perché? Ma scusa, questi qui come fanno a conoscerlo, Calderoli?”
“Eh, è una lunga storia...”
“Faccio fatica a ricordarmelo io, Calderoli”.
“È il ministro della semplificazione normativa”.
“La semplifi... ho davvero inventato un ministero così?”
“Sembra di sì”.
“Sono davvero fighissimo. Ed è un leghista, no?”
“Sì, ecco, probabilmente lei ha dimenticato quel che successe nel 2006... prima delle elezioni in cui vinse Prodi”.
“Chi?”
“Vabbè, insomma, durante una trasmissione televisiva Calderoli, che a quel tempo era il Ministro per le Riforme, mostrò in diretta una maglietta con una caricatura del profeta Maometto. Come saprà per molti musulmani il volto del profeta non è raffigurabile. La scena fu trasmessa anche in Libia e generò dei moti spontanei di protesta contro le sedi diplomatiche italiane. In particolare, a Bengasi, davanti al nostro consolato, la polizia di Gheddafi sparò sulla folla dei manifestanti e fece una decina di morti. Era il diciassette febbraio”.
“Tutto qui? Vogliono la sua testa perché ha mostrato una maglietta?”
“Presidente, per loro l'episodio è diventato simbolico... una specie di piazza Tiennammen, la data era commemorata da tutti i dissidenti libici, che ogni anno si incontravano nella piazza del nostro consolato... e cinque anni dopo l'insurrezione contro Gheddafi è partita proprio da lì, dalla commemorazione del 17 febbraio, che con ogni probabilità diventerà la nuova festa nazionale. Insomma, Calderoli è diventato un simbolo per loro, e chi riuscirà a mostrare la sua testa su un vassoio, beh... avrà il consenso del 90% della popolazione per molti, moltissimi anni”.
“Una questione mediatica, insomma”.
“E chi meglio di lei potrebbe capire...”
“Capire posso anche capire, ma non sono mica un selvaggio, insomma, vogliono la testa? Mica gli posso dare una cosa così, voglio dire, che figura ci faccio?”
“Erano più o meno le sue obiezioni di ieri”.
“Cioè, capirei se parlassimo di un omicidio mirato... farebbe comodo anche a me, magari dare la colpa ad Al Qaeda, un po' di strategia della tensione sotto le elezioni...”
“Questa fu infatti la mia controproposta”.
“Bravo”.
“Non ne vogliono sapere. Non vogliono sembrare mandanti di terroristi, loro vogliono dimostrare che se chiedono una cosa la ottengono, quindi la testa o niente. Dicono che possono benissimo vendere il gas a qualcun altro. Magari è un bluff”.
“Perché io, insomma, nell'interesse nazionale, potrei anche capire... il sacrificio di un uomo per l'intera nazione... dovrei chiedere a Bossi, comunque”.
“Abbiamo già chiesto”.
“E che dice?”
“Non si capisce bene, ma sembra non abbia obiezioni articolate”.
“E certo, si libera un posto per la famiglia. Però che figura ci facciamo con l'elettorato... un beduino islamico ci chiede una testa e noi gliela diamo... non fa molto difesa dei sacri valori dell'Occidente... anche se... ma sei sicuro che non ci siano alternative? E se gli faccio una moschea a Roma?”
“Presidente, la moschea a Roma c'è già”.
“Ah sì?”
“Bella grande, anche”.
“Roba da matti, uno si sveglia un giorno e... Ma senti, al giorno d'oggi la chirurgia estetica fa miracoli. Nel senso che...”
“Ho capito, Presidente”.
“Lo dico così, sto pensando ad alta voce... prendiamo un pirla qualsiasi, un figurante di Forum con l'accento varesotto”.
“Calderoli è bergamasco”.
“Quel che è... gli cambiamo i connotati quanto basta, e in ventiquattr'ore potremmo avremmo un nuovo ministro della semplicità, lì”.
“Della semplificazione normativa”.
“Al posto dell'altro che spediamo ai libici nell'interesse nazionale. Che ne pensi?”
“Presidente, questa idea non mi è nuova, se non altro perché le è venuta identica ieri”.
“Sì? È un segno che è una buona idea”.
“E ieri non ho avuto il coraggio, ma oggi le faccio questa obiezione: scusi, eh, ma a questo punto non avremmo potuto dare il figurante con i connotati di Calderoli ai libici, e al ministero tenerci il Calderoli vero?”
“Ah già, buffo, non ci avevo pensato”.
“Neanche ieri”.
“E Bossi...”
“Non ci aveva pensato neanche lui”.
“Buffo davvero. Beh, sì, potremmo fare come dici tu, dopotutto è più semplice”.
“Temo che sia tardi, Presidente”.
“Ah sì?”
“Già”.
“E Bossi...”
“Non una piega”.
“Beh, allora siamo a posto, no?”
“Se la pensa così”.
“Probabilmente ti avevo chiamato per complimentarmi per l'esito della missione”.
“Grazie, Presidente”.
“Oppure, senti, visto che sei qui, potrei mandarti a fare un giretto nell'Asia centrale... in Afganistan diciamo. Potresti andare a sentire cosa vogliono quei beduini per lasciare in pace i nostri ragazzi? Mi raccomando...”
“Calo le braghe?”
“Più che puoi. In bocca al lupo”.
“Crepi, Presidente”
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Ma chi vi si inculca

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Solo un arguto calembour per farvi sapere che c'era un mio pezzo sull'Unita.it anche oggi:

Le scrivo innanzitutto per confortarLa, perché sono convinto che questa storia dei cattivi maestri che inculcano gli studenti innocenti non sia una semplice trovata da propaganda: no, Lei un po' in questa cosa ci crede. Probabilmente ci immagina uno per uno, nelle nostre aule, il lunedì mattina, mentre parliamo male di lei e del suo governo agli studenti... (continua laggiù, ma potete commentarlo anche qui sotto).

Egregio Presidente Berlusconi, sono un insegnante della Scuola Media pubblica. Le scrivo innanzitutto per confortarLa, perché sono convinto che questa storia dei cattivi maestri che inculcano gli studenti innocenti non sia una semplice trovata da propaganda: no, Lei un po' in questa cosa ci crede. Probabilmente ci immagina uno per uno, nelle nostre aule, il lunedì mattina, mentre parliamo male di lei e del suo governo agli studenti. Egregio Presidente, insomma, può anche darsi che in qualche aula della Repubblica ci siano insegnanti che si comportano così. In fondo l'Italia è grande e le scuole sono tante, e un professore che invece di fare lezione perde tempo a criticare Berlusconi ci sarà, come c'è quello che commenta i risultati delle partite o si lamenta del mal di testa. Vorrei però che mi credesse se le dico che sono trascurabili minoranze, delle quali non si deve assolutamente preoccupare perché, se non lo sa, è proprio il professore antiberlusconiano a creare lo studente berlusconiano del futuro. È una cosa automatica, creda a me che avevo una professoressa bravissima, disponibile e gentile, con l'unico difetto di militare in Comunione e Liberazione: e vede dove sono andato a finire? All'Unità, appunto. Ma in generale, si è mai chiesto a che scuole fossero andati i nostri Padri Costituenti, per diventare così tanto antifascisti? Alla scuola dei fascisti, esatto. Per cui egregio Presidente, davvero, di solito non siamo così fessi da criticarLa in classe: e se lo facciamo, è tanto di guadagnato per Lei. In generale però abbiamo altro di meglio da fare, davvero. Non so se ha mai dato un'occhiata ai programmi. Lei non ha idea a quante cose ci sono da fare, quanti argomenti da approfondire, lontani dall'attualità politica. Il problema è che a un certo punto i ragazzini in questa attualità ci sguazzano, si nutrono davanti ai telegiornali, e poi si fanno domande, e sono abituati a pretendere le risposte da noi. Ecco, Presidente, vorrei che si mettesse un po' nei panni di un insegnante che a scuola vorrebbe parlare di Gandhi, o di Rosso Malpelo, o della Triplice Intesa, mentre gli studenti gli domandano cos'è il Bunga Bunga. Si fidi: quando nel programma c'è l'Inferno dantesco o il crollo dell'Impero Romano, il Bunga Bunga è davvero l'ultima cosa di cui vorremmo parlare. C'è tanto di meglio in cielo, in terra, persino nella nostra filosofia. Questo è un po' il motivo per cui preferirei che al suo posto ci fosse un politico un po' più noioso, uno di quelli che in tv ci finisce soltanto quando spiega un decreto legge. Di solito nessuno mi chiede niente sui decreti legge. Per fortuna. Niente di personale, eh, ma Lei ha trasformato il dibattito politico in una rissa tra tifoserie, e ormai entrando nelle aule il grido “viva Berlusconi” o “abbasso Berlusconi” ha un po' la stessa profondità ideologica di quando sentivi urlare “viva Inter” o “abbasso Juve”. Sarà pure che il campionato è diventato un po' noioso, ultimamente. Egregio Presidente,sono un insegnante tra tanti, che lavora nella scuola pubblica ma non ha nulla, davvero, contro la scuola privata: sono convinto che chiunque debba esser libero di mandare i propri figli alla scuola che preferisce. Anche i cattolici. Purché non lo facciano a spese mie. Invece non capisco, e nessuno è ancora riuscito a spiegarmi, perché devo contribuire ai buoni scuola, perché devo finanziare io con le mie tasse la scuola privata dei cattolici. Non possono pagarsela loro? Dicono che hanno bisogno di un rimborso, perché i loro figli non usufruiscono dei servizi della scuola pubblica. È un po' come se io pretendessi un rimborso perché preferisco andare a scuola in macchina anziché in autobus. Ma l'autobus fa bene a tutti, anche a chi prendendo la macchina troverà meno coda ai semafori. E una scuola pubblica bella, efficiente, con un personale qualificato, è un'ottima cosa per tutti: anche per chi liberamente decide di non usarla, o per chi non ha figli ma ha comunque bisogno di bravi medici, bravi ingegneri, persone competenti che abbiano fatto studi seri. Vede, Presidente, io non so esattamente quando sia nato questo equivoco, per cui le tasse sono diventate per molti un semplice ticket da scambiare con un servizio. Ma io non pago le tasse per mio figlio, io le dovrei pagare per la collettività nella quale mio figlio si troverà a vivere. E non posso pagare per la scuola cattolica, la scuola musulmana, la scuola buddista. Posso pagare per una scuola sola e voglio che sia il più possibile adatta a tutti. Se poi qualcuno ne desidera una migliore, se la paghi coi soldi suoi. Infondo le sto chiedendo anch'io di tagliarmi le tasse, dopotutto: quella parte che pago e finisce in buoni scuola, mentre un ente privato che non mi rappresenta (la Chiesa cattolica) continua a godere di sgravi fiscali. La trova una posizione così tanto ideologica? Si rassicuri, non ne sto parlando in classe. Ne parlo con Lei. Coi miei studenti ho di meglio, davvero, da fare. 

Distinti saluti, suo Leonardo. 
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Uno spettro si aggira nel Nordafrica

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Pensate che c'è gente che, di fronte ai moti che scoppiano tra Maghreb e Medio Oriente, continua a porsi il problema se avesse o no ragione Bush. Ma chissenefrega di Bush, scusate, e poi chi era questo Bush, in fin dei conti. Qui c'è bisogno di idee nuove. Per capire una realtà in rapido movimento. Nuove teorie. Pensatori originali. Per esempio, questo signore:


sulle rivoluzioni, ha dei punti di vista molto interessanti. Lo spettro che si aggira nel Nordafrica è sull'Unita.it, e chi non vuole condividerlo e commentarlo su facebook (cosa vi avrà poi fatto di male facebook), può farlo qui sotto.

Io delle ultime rivoluzioni del Nordafrica non ho capito un bel niente. Tanto vale ammetterlo. Non le avrei mai previste, fino a qualche mese fa; quando Ben Ali scappò pensai che una cosa del genere non sarebbe potuta accadere a un leader potente e universalmente rispettato come Mubarak; quando se ne andò pure Mubarak pensai che questo poteva succedere in una società dinamica come l'Egitto, mentre in quella caserma stagnante che era la Libia Gheddafi avrebbe conservato il suo potere per sempre. Insomma, non ne capivo niente, continuo a non capirne niente, difficilmente migliorerò in futuro.

Mi consola l'essere in ottima compagnia. I più grandi esperti di geopolitica. I diplomatici più consumati. Gli statisti più potenti. Nessuno di loro ha previsto quello che sta succedendo. L'inverno del 2011 è stato ancora più sorprendente dell'autunno 1989; a quei tempi la glasnost di Gorbaciov aveva già fatto annusare un po' di aria diversa a chi se ne intendeva. Ma chi avrebbe scommesso tre mesi fa un euro o un dollaro sull'esilio di Mubarak? Voi no? Complimenti, ve ne intendete più o meno come i consulenti della Casa Bianca. O gli opinionisti del New York Times. Siamo tutti cascati dalle nuvole, insieme.

Ma davvero era così difficile prevedere tutto questo? Ora confesserò una colpa grave, anche se credo che i lettori dell'Unità saranno comprensivi. Senza essere uno studioso di Marx – perché davvero, non lo sono – io mi ritengo di impostazione marxista, anche se di un marxismo imparaticcio, di terza o quarta mano. Davanti a una rivoluzione, per esempio, sarò portato a domandarmi quali siano le classi sociali in lotta tra loro, chi detenga i capitali e i mezzi di produzione, e se per caso non ci sia una carestia in giro, perché già nel 1848 in Europa l'andamento delle rivoluzioni sembrava legato all'aumento dei prezzi dei cereali. Sembra infatti che la gente scenda in piazza quando ha fame. Poi trova anche altri argomenti (costituzioni democratiche, diritti civili, diritti del lavoro, nazionalità, libertà religiose...), altri spettri da agitare, però la fame ha tutta l'aria di essere un elemento scatenante. Tutto questo io lo so – credo di saperlo – semplicemente perché l'ho studiato nei testi di persone che avevano studiato su testi di persone che avevano studiato Marx, quindi non è affatto detto che la cosa funzioni. Eppure.

Eppure un marxista vecchio stampo in questo caso avrebbe potuto prevedere qualche rivolta nel mediterraneo con qualche anticipo sui teorici della Jihad mondiale o del complotto CIA (sì, c'è pure chi crede che sia tutto un complotto CIA, con Barack Obama che finge di non sapere dov'è la Libia sulla cartina, ma nell'ombra trama ghignante; Marcello Foa sul Giornale ha scritto dei pezzi molto divertenti sull'argomento). È un peccato che non li facciano più, questi marxisti vecchio stile, perché con tutti i loro enormi difetti, forse sarebbe bastato mettergli in mano i prezzi dei cereali quattro mesi fa, e avremmo avuto una previsione di rivolta nel medio-breve termine. E invece cosa abbiamo? Analisti e opinionisti che si guardano smarriti e si affidano più o meno alle loro emozioni. Com'è possibile che tutto accada nel giro di pochi mesi, si domandano? (in realtà accade sempre tutto nel giro di pochi mesi: basta leggere i manuali di Storia... ah, già, ma li hanno tutti scritti i marxisti, maledizione). Stimati osservatori traggono auspici dal fatto di non avere ancora visto bruciare una bandiera americana; in Libia per la verità si vede poco o niente, ma se domani da qualche fotoblog uscisse fuori una bandiera bruciacchiata del genere, cominceremo a gridare Mamma li jihadisti? Se qualche migliaio di egiziani posta la rivolta su Twitter, la rivoluzione diventa un affare di Twitter; poi torna dall'esilio un imam, fa un comizio davanti alle telecamere, e improvvisamente la Twitter generation cede il passo alla Repubblica Islamica. Un esercito depone il dittatore? Un sacco di pensosi opinionisti si precipitano a scrivere che non è mai una buona notizia quando un esercito depone qualcuno. Già, di solito quando si fanno le rivoluzioni l'esercito rimane neutrale, consegnato nelle caserme. È un peccato che costoro non fossero già in servizio attivo ai tempi di La Fayette, o della Rivoluzione dei Garofani, o quando Badoglio sostituì Mussolini: avrebbero potuto gridare al golpe già allora.

Ma i più buffi di tutti restano i Neocons – non quelli originali; diciamo quelli all'amatriciana che, come certi personaggi di telefilm, bloccati per anni su isole deserte, nel 2011 continuano a combattere una lotta senza quartiere per difendere fuori tempo massimo il loro eroe, che in caso ve lo foste dimenticato, era George W. Bush. Ancora lui? Ebbene sì, è lui il vero ispiratore della rivoluzione egiziana, scrivono. Come si fa a capirlo? Semplice: quand'era presidente finanziava gruppi egiziani anti-Mubarak (ma finanziava molto di più Mubarak). Poi Obama ha tagliato quei finanziamenti. Poi il prezzo dei cereali è andato alle stelle. Infine l'Egitto si è ribellato a Mubarak. Come si fa a non vedere che è tutta una geniale strategia di Bush e dei suoi sapienti consiglieri? Se poi dopodomani un partito islamico antisionista dovesse vincere le elezioni al Cairo, saranno pronti a scrivere che aveva ragione Bush a sostenere Mubarak, vicino affidabile di Israele. Ma in realtà i Neoconi più che aiutarci a risolvere un mistero, ne aggiungono un altro: cosa c'era di così affascinante in Bush per continuare a sostenerlo anche oggi che non è nemmeno più ricandidabile? Come se la pagina dell'Iraq non si riuscisse più a voltare. Bisogna assolutamente dimostrare che quella guerra lunga e sanguinosa sia servita a qualcosa, e allora si arriva a dimostrare che i rivoltosi egiziani hanno preso l'esempio da quelli iraniani, che a loro volta avrebbero cominciato a manifestare perché hanno visto che in Iraq un regime si poteva cambiare. È una congettura interessante: la guerra in Iraq che causa le manifestazioni in Iran che causano il crollo di Mubarak...  anche solo per l'acqua che perde in tutti i passaggi: a noi che non siamo neocons sembrava piuttosto che le invasioni di Iraq e Afganistan avessero portato l'Iran a un arroccamento intorno al suo commander in chief (Ahmadinejad); quando poi gli studenti delle città hanno manifestato sono stati repressi nel sangue: il che a rigor di logica avrebbe dovuto demotivare gli aspiranti rivoluzionari del Cairo, piuttosto del contrario... ma noi che ne sappiamo, in fondo? Niente.

Proviamo ad articolare questo niente, con le categorie che il nostro imparaticcio marxismo ci ha lasciato in eredità. Sappiamo che il prezzo di acqua e cereali aumenta, e continuerà ad aumentare per un po'. Le nazioni arabe sono mediamente ricche di risorse naturali, ma acqua e cereali li devono importare. Questo può avere avuto l'effetto di rendere insostenibili ai popoli quei governi che per decenni non hanno redistribuito le ricchezza del sottosuolo. Ora i prezzi non diminuiranno – non basta assediare i forni, questo prima di Marx ce lo aveva mostrato Manzoni – ma alcune sacche di corruzione erano insostenibili, dovevano sgonfiarsi. Cosa accadrà adesso? Dipende dai gruppi sociali, che in un primo momento vanno insieme sulle barricate per sconfiggere il tiranno, ma poi cominciano a lottare tra loro per il famoso controllo dei mezzi di produzione. Se nessun Paese arabo del Medio Oriente, fin qui, sembra essere riuscito a evolversi in una democrazia parlamentare nel senso europeo del termine, questo non è accaduto perché gli arabi siano etnicamente inadatti alla democrazia (come sostiene qualche criptofascista o qualche uomo di paglia dei neoconi) ma perché questi regimi parlamentari sono espressione del ceto medio, e in queste nazioni il ceto medio spesso non c'è. Talvolta l'unico vero ascensore sociale è l'esercito, l'unica ombra di 'classe media' è rappresentata da militari e funzionari statali: in questi casi molto spesso è l'esercito a gestire le rivoluzioni, dalla Turchia di Ataturk fino alla Libia del ventisettenne colonnello Gheddafi. Se in molte aree  la classe media è quasi inesistente (ma non nel popoloso e urbanizzato Egitto), esiste in questi Paesi un cospicuo bacino di abitanti sotto la soglia della povertà – proletari e sottoproletari, li avremmo chiamati – che sono il terreno più adatto alla diffusione del fondamentalismo islamico (un'etichetta un po' di comodo: confondere la Fratellanza Islamica ad Al Qaeda è una bestialità). In casi come questi, dunque, la seconda fase della rivoluzione potrebbe vedere la contrapposizione tra fondamentalismo nelle province ed esercito nei centri urbani, con il primo che cerca il consenso dei più umili sviluppando un welfare alternativo a quello statale, e il secondo che cerca di legittimarsi (anche all'estero) come difensore di istanze progressiste e laiche. Non sappiamo se andrà così: diciamo che è andato più o meno così in Turchia e in Algeria negli anni '90. Perché dovrebbe andare diversamente, per esempio, in Egitto? Perché l'Egitto è grande, giovane, ha ormai sviluppato un ceto medio che non può sottomettersi agli imam né ai colonnelli di turno, e ha insomma tutta l'energia per stupire i veteromarxisti con le loro categorie ottocentesche.

Ma in Libia? O in Bahrein? Chi lo sa. In realtà ne sappiamo veramente troppo poco. Alcuni dettagli – l'indipendentismo della Cirenaica – ci sfuggono del tutto, siamo già contenti di ricordare dove sta sulla mappa, la Cirenaica. La dialettica tra Sunniti e Sciiti, nel Bahrein, non è così facilmente riconducibile allo schemino marxista di ricchi e di poveri (anche se gli sciiti sembrano occupare ovunque il gradino più basso della società). Le teorie si elaborano a partire dalle informazioni, e informazioni ce ne arrivano poche. Finché continuiamo ad avere dieci opinionisti por ogni reporter sul campo... d'altro canto, i dieci opinionisti costano meno e riempiono più fogli...

In attesa di vedere cosa succede, almeno qualcosa lo abbiamo imparato. Che le rivoluzioni sono un po' più imprevedibili, specie da quando abbiamo smesso di leggere Marx. Se oggi Mubarak e Ben Ali non sono più al loro posto, se lo stesso Gheddafi potrebbe non esserci più da un momento all'altro non è grazie alla Cia, non è grazie a Bush, non è grazie ai leader europei che, con le tutte le loro meravigliose idee sulla democrazia d'esportazione, avrebbero continuato ad abbracciare e baciare questi tiranni finché non avessero ceduto il potere ai figli. La Storia non la fanno sempre i potenti con le loro idee: più spesso la fanno i popoli, soprattutto quando hanno fame. Ecco la mia teoria – assai poco originale.
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