Il vuoto incolmabile

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Come forse qualcuno avrà notato, da alcuni giorni a questa parte il Partito Democratico, il suo vertice, i suoi militanti, stanno in qualche modo cercando di sopravvivere alla notizia della defezione di Mario Adinolfi.


Lui nel frattempo gioca a carte. Sull'Unità.it comunque c'è un tentativo di prendere Adinolfi un po' sul serio (H1t#93), giusto per non lasciare nulla d'intentato. Si commenta laggiù.

(Ci si vede forse a Riva stasera).

Ma insomma perché nessuno vuole prendere sul serio Mario Adinolfi che abbandona il PD? Forse ha ragione il direttore di Europa Menichini, che dietro alle ironie e alle battutine sulla stazza e sul peso del personaggio intravede una certaarroganza togliattiana. Oggi stavo quindi cercando di rispondere alle critiche di Adinolfi nel modo meno togliattiano possibile, entrando nel merito delle importanti questioni sollevate eccetera, quando su twitter è arrivato un messaggio del Mario:

giornate di novità: ho firmato per i miei nuovi colori pokeristici, esordio all'Ept di Londra con il TeamPro1128

Allora, mettetevi anche un po' nei panni di noi togliattiani. Non siamo mai veramente riusciti a digerire la barca a vela di D'Alema (né l'appartamento newyorkese di Veltroni): cosa potevamo pensare di un giornalista che conciliava la militanza attiva in un partito di sinistra con l'esercizio professionale del gioco d'azzardo? Saremo provinciali, saremo vecchi, ma quando Adinolfi nel suo blog alternava i consigli al segretario sulla linea del PD con quelli ai lettori sulle squadre su cui scommettere, a noi cedevano un po' le ginocchia.

È sempre stato oggettivamente difficile prendere sul serio Adinolfi. Per prima cosa è una persona obesa, e noi a sinistra, sempre pronti a schizzare in piedi di indignazione alla prima barzelletta omofoba e sessista, non abbiamo nessuna difficoltà a ridere degli obesi (“ciccioni”) e dei bassi di statura (“nanetti”): Berlusconi e Ferrara ci hanno allenato bene, in questo senso. Poi è stato militante democristiano e non se ne è mai vergognato, e questo è parecchio destabilizzante. Aggiungi questa cosa del poker e delle scommesse che avrebbe destabilizzato anche i democristiani. Infine, nel momento in cui tutti i politici di sinistra cercavano di presentarsi all'elettorato nel modo più rassicurante e grigio possibile, Adinolfi non ha mai pensato di nascondere una personalità eccentrica e debordante. Nonché una mania di protagonismo che, se in parte era giustificata dalla necessità di restare a galla nel mondo difficile e competitivo dell'infotainment radiotelevisivo, dall'altra spiega il perché le non-dimissioni di Adinolfi (non ricopriva nessun incarico) siano quasi una non-notizia, che in linea teorica non avrebbe meritato più spazio di quella di un volontario della festa dell'unità di Reggio Emilia che oggi decidesse di stracciare la tessera. Certo, è pur vero che nessun volontario reggiano della festa dell'Unità si è mai presentato alle primarie del PD, ma probabilmente se lo avesse fatto avrebbe raccolto più voti di Mario Adinolfi. Quindi, insomma, di che stiamo parlando?

Stiamo parlando di un quarantenne che, a furia di accreditarsi come rappresentante di una generazione, in qualche modo è riuscito a impersonarne almeno alcuni difetti: Adinolfi, che pure è uscito di casa abbastanza presto e ha sempre in qualche modo lavorato, sembra morso dallo stesso demone di tanti trenta-quarantenni italiani che il precariato lo hanno interiorizzato, fino ad elevarlo, in mancanza di meglio, a filosofia di vita: e dopo un decennio passato a corteggiare diverse carriere, senza sceglierne veramente nessuna, si ritrovano a quarant'anni bloccati a un bivio, consapevoli che scegliere una via, una carriera, un mestiere, una vita, significa rinunciare ad altre vie, ad altri mestieri, altre vite. Per carità, qui non si giudica nessuno, ma posso dire che nel continuo saltabeccare di Adinolfi tra editoria politica e gioco d'azzardo un po' mi riconosco (in sedicesimo, diciamo). E in fondo sono contento che lui abbia saputo finalmente scegliere: e anche che non abbia scelto la politica, per la quale, non me ne voglia, forse non era troppo tagliato.

Anche la sua difficoltà a integrarsi nel PD si può leggere in modo generazionale. Un altro problema di noi trenta-quarantenni è che ci siamo sposati tardi, dopo fidanzamenti esageratamente lunghi. Allo stesso modo, dopo aver inseguito per anni il miraggio del grande partito di centrosinistra, quando finalmente l'impossibile si è avverato, Adinolfi ha scoperto sulla sua pelle i dolori e i fastidi della convivenza. Il motivo per cui oggi decide di divorziare è in fondo molto semplice: dalle ultime primarie in poi, Adinolfi si è ritrovato in una corrente di minoranza, e questo gli è insopportabile. È il paradosso per cui proprio gli alfieri del Grande Partito sono quelli che appena un partito abbastanza grandino prende forma non riescono ad accettare gli oneri che esso comporta: l'inevitabile nascita delle correnti, la dialettica interna tra maggioranza e minoranze, il triste centralismo democratico: tutte cose che l'ex democristiano Adinolfi dovrebbe conoscere bene – non ci fossero stati quei vent'anni di caos tra popolari, asinelli, margherite, ulivi, unioni, con tutte quelle intercapedini e quei margini di azione per capitani coraggiosi e un po' spavaldi. Ora il tempo dei corsari è finito: bisognerebbe indossare la giacca e la cravatta dell'uomo d'ordine, ma in quella giacca Adinolfi proprio non ci sta (e questa è l'unica battuta sulla sua taglia che farò, già una di troppo).

A proposito di partitini è buffo che Adinolfi ricordi di aver cercato il “coinvolgimento organico” di radicali e socialisti, oltre a Grillo, che avrebbe voluto candidato alle primarie. Ora, se c'è qualcosa che radicali, socialisti e Grillo hanno in comune, è di non avere mai realmente creduto nel PD, anche quando hanno cercato di usarlo per ottenere un po' di visibilità (il tentativo di Grillo di candidarsi) o per arrivare in Parlamento eludendo gli sbarramenti (la “delegazione radicale”, quei nove posti blindati ottenuti dal PD di Veltroni, la cui lealtà è ben provata dall'assenza di ieri alla Camera, e dalle dichiarazioni di Pannella). Quanto ai socialisti, parliamo di quel partito inesistente che negli ultimi dieci anni ha sempre fatto perdere punti in percentuale a qualsiasi lista con cui si è aggregato (memorabili le batoste di Rosa nel Pugno e Girasole)? Eppure Adinolfi dovrebbe sapere che i socialisti a centrosinistra non hanno mai trovato la porta chiusa, da Occhetto a D'Alema (che fece entrare almeno Amato) fino a quando Boselli, segretario di un partito da prefisso telefonico, fu invitato da Prodi alla costituente del PD e rifiutò sdegnosamente quello che definì il “compromesso storico bonsai”. Poi andò alle urne da solo e riprese il suo zero virgola per cento. Certo, esistono tante cose nell'universo; esistono i neutrini che hanno così poca massa che possono arrivare dal Gran Sasso a Ginevra senza tunnel; così può darsi anche che esista ancora un partito in Italia che si chiama socialista. Ma anche un bonsai non è che debba preoccuparsi di coinvolgere tutti i batteri che transitano nei pressi: la maggior parte sono innocui.

C'è poi la questione "omosex", come la chiama lui, che negli ultimi mesi è diventata una sua piccola ossessione - proprio mentre la passione per la militanza nel PD rapidamente scemava. Non è una coincidenza. Sui diritti civili dei gay ho una teoria: c'è un motivo per cui qualcuno ne parla oggi, quando in Italia governa la destra più becera e omofoba e nessuna reale messa in discussione dello status quo è praticabile. Ed è un motivo che purtroppo ha ben poco a che fare coi gay, e molto a che fare con la storia del PD, e la sua doppia anima catto-diessina. In sostanza si riparla di gay, e soprattutto di matrimoni di gay e di adozioni di gay, semplicemente perché di tutti gli argomenti al mondo è quello più pericoloso per la coesione del PD: quello che davvero rischia di farne cedere le giunture, tanta è la distanza tra le posizioni di cattolici e progressisti. Ora io sarò anche un togliattiano dentro: me lo hanno detto anche i miei quattro lettori, quindi c'è del vero. Però per me proporre un “referendum sul matrimonio omosex”, come Adinolfi dice di aver fatto, equivale a dichiarare di aver tentato di sventrare il PD, proprio nel punto dove la cucitura è più fragile. Solo così si spiega poi l'ossessione per questo argomento in un'estate in cui anche molti gay, più che al matrimonio, probabilmente pensavano ai loro risparmi, all'IVA e alle pensioni.

Già, le pensioni. Ad Adinolfi non è piaciuta l'adesione allo sciopero della CGIL, il sindacato dei pensionati eccetera. Non è una sorpresa che l'eterno precario della politica si trovi più vicino alle posizioni di Ichino: quanto agli ammortizzatori sociali, lui ha sempre rivendicato di trovare meno rischiose le ricevitorie delle banche, e a questo punto la cosa terribile è che non sembra avere tutti i torti. Ma insomma la posizione di Adinolfi la conosciamo da anni: i nostri padri pensionati ci rubano il futuro. Nel frattempo però (dovrebbe essersene accorto) cominciamo ad andare anche noi per la quarantina, e alla pensione iniziamo a pensarci, se non altro perché l'idea di ottenerla a ottant'anni un po' ci spaventa. Forse per Adinolfi il problema non si pone, forse sarà ancora un brillante bluffatore, o forse avrà già raggranellato abbastanza col suo personalissimo sistema integrativo. Noi però non siamo altrettanto capaci, né al tavolo verde né alla vita in generale. Così ci attacchiamo a quel che possiamo: un mestiere piuttosto che un altro, un sindacato piuttosto che un altro, un partito con tanti difetti ma che è meno peggio di tanti altri, eccetera. Nel frattempo Marione se n'è andato verso altre partite, altre sfide, altre avventure. Ci perdonerà se non siamo abbastanza togliattiani da non invidiarlo un po'. http://leonardo.blogspot.com
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Perché non sapete il giorno e l'ora

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Qualcosa di terribile sta per succedere


La blogpalla italiana non sarebbe così male, se solo non fosse quel nido di ateismo, laicismo e agnosticità che tutti ben conoscete. Forse è tempo di emendarsi e aggiungere, in mezzo a tante stridule voci di laicisti esasperati, la voce flebile ma giocosa del viandante nella fede.

Questione di giorni, ormai. Vegliate dunque!
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Com'è profondo il mare

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Siamo pochi. Comunque siamo troppi. Siamo vecchi e autoreferenziali. Siamo anche un po' aggressivi. Ci nascondiamo di notte per paura degli automobilisti e dei linotipisti. Siamo insomma i blog italiani, e ormai dovremmo averlo capito: se non ci prendiamo un po' sul serio da soli, nessun altro lo farà.

La Blogfest si celebra questa settimana: la stagione di caccia alla blogfest si è aperta da un pezzo. Sparare ai BlogAwards è relativamente facile: i premi sono troppi, i candidati sempre gli stessi, eccetera eccetera eccetera. In realtà dal 2008 a oggi sono cambiate parecchie cose, forse un po' più lentamente di quanto era lecito aspettarsi, ma poteva andare peggio. Nel 2008 la festa era una cosa alla buona, dove ci si premiava quasi a vicenda, all'ombra dei convitati di pietra Grillo e Travaglio che mietevano migliaia di suffragi ma non avevano neanche considerato l'idea di venire a ritirare un fantasmino. L'anno successivo trionfò Spinoza. Nel 2010 è spuntato il Post (ma anche i400calci hanno strappato un premio meritatissimo dalle grinfie del solito Cineblog). Ecco: Spinoza, il Post, i400calci sono esempi diversissimi di siti di qualità che nel 2008 non esistevano e che in tempi relativamente brevi si sono creati un seguito importante. L'obiezione me la faccio da solo: in tutti e tre i casi non si trattava di blog di esordienti (anzi). È vero: l'esperienza è un fattore importante. E le relazioni coltivate per cinque o dieci anni sono ancora un patrimonio che fa la differenza. Però non è vero che la blogpalla italiana è sempre identica a sé stessa. Può darsi, questo sì, che continui a evolversi intorno a uno zoccolo duro un po' troppo ristretto di persone e di esperienze, ignorando tante cose che accadono ai margini e non riescono ad attirare l'attenzione. E questo è un peccato, visto che negli ultimi quattro anni è tutto cambiato davvero.

Nel 2008 aggiornare un blog italiano significava luccicare in una costellazione di un migliaio di individui che si leggevano e lincavano tra loro (più la cometa Grillo che era sostanzialmente un corpo estraneo). Nel 2011 la blogosfera non è che una regione periferica nella galassia dei social network. Oggi un post riuscito può uscire dalla nostra piccola costellazione e ritrovarsi sul desktop di decine, non sto esagerando, decine di migliaia di persone. È una cosa che capita magari una volta all'anno, o nella vita, ma oggi può capitare: nel 2008 era fantascienza. È una questione di fortuna e di un po' di autopromozione. La fortuna non è il mio forte: per l'autopromozione i BlogAwards fanno quello che possono. È giusto cercare di assegnarli a chi non ha ancora vinto: cerchiamo di allargare un po' l'occhio di bue, facciamo vedere che non siamo i soliti quattro gatti. Da questo punto di vista non riesco a biasimare Gianluca Neri, che pure ci ha complicato la vita mantenendo in vita tantissimi premi, e raddoppiando le nomination, col risultato che a Riva 250 blogger hanno la possibilità di ritirare almeno un fantasmino. Se alla fine saranno i soliti, non prendetevela troppo. In alcuni (rari) casi i soliti potrebbero davvero essere i più bravi.

Io sono candidato anche stavolta, nelle stesse categorie dell'anno scorso (con due post candidati nella stessa categoria, proprio come l'anno scorso). Il che ci dice qualcosa sull'abitudinarietà di chi in estate vota le nomination. Tra l'altro non ho fatto nessuna campagna: però il fatto che centinaia di persone continui a votare per me lo apprezzo tantissimo. Anche se quest'anno mi sa che perdo. Però, appunto, a questo punto è una questione di serietà: mi avete candidato, perderò combattendo.

Seguono le non-indicazioni di voto (se volete votare più o meno come me, fatemi il favore di cambiare qualche blog qui e là, altrimenti rischiate di passare per truppe cammellate – cosa che in realtà siete, miei valorosi cammelli: si tratta di mimetizzarsi un po'). Come probabilmente sapete, è obbligatorio votare in tutte le categorie, compresi i blog erotici che nessuno si fila e i blog con la miglior grafica, che di solito ti cavano gli occhi appena li carichi. Ringrazio Many che con le sue spudorate indicazioni mi ha alleggerito un po' il compito.
Si vota qui, fino a domani. Grazie a tutti

Miglior sito o blog 2011.
Appunto, votate per me. Nessuna possibilità, ma cadrò combattendo. Sofri esporrà la mia testa mozzata in salotto, no, forse nella cantinetta, boh, sarà comunque una fine degna (Il grande escluso: forse questo è stato l'anno di Sempre un po' a disagio)

Personalità in rete dell'anno
Giuliano Pisapia è la personalità dell'anno, fuori e dentro la rete. La storia d'Italia per quanto mi riguarda comincia il 29 maggio del 2011... sì, scusate, mi commuovo appena ci ripenso. Sennò c'è Makkox, un altro che quattro anni fa non conosceva nessuno, e adesso guarda che roba che fa; e poi venitemi a dire che nei blog non succede niente. (Il grande escluso: Mazzetta ha fatto impazzire Pontifex, credo che sia un titolo sufficiente).

Sito o blog rivelazione dell'anno
Voterei Barabba anche se non sapessero il mio indirizzo e dove parcheggio. Anche loro si sono sbattuti parecchio, hanno fatto due o tre libri, vanno in tour, sono instancabili. E poi sanno dove parcheggio.


Migliore community o sito collettivo
Questa potrebbe essere la categoria da sacrificare ai potenti numi di Spinoza, ma tanto loro vinceranno tutto e ci lasceranno le briciole, quindi... quasi quasi Leganerd. (Il grande escluso: Io ricordo Genova l'avrei messo qui)

Miglior sito o blog di opinione
L'anno scorso ho vinto io, Travaglio è ancora lì che si domanda dove ha sbagliato. Stavolta c'è Gramellini e c'è la Murgia. Più Gilioli che è una potenza. E anche Bordone e Zoro si fanno più insidiosi, insomma la vedo durissima, però ci provo. (Il grande escluso: Malvino, anche se s'incazza).

Miglior blog o testata giornalistica online
L'unità. Avevate dei dubbi? (Il grande escluso: L'espresso, forse).

Miglior sito o blog tecnico-divulgativo 
Beggi e Attivissimo hanno già avuto il loro meritatissimo quarto d'ora: Keplero ancora no, e se lo merita.

Miglior sito o blog televisivo
Ecco, io di solito votavo Dave, più per una questione di affetto. Italiansubs mi sembra un servizio notevole. (Il grande escluso: Tutto fa media?)

Miglior sito o blog culinario
Allora, giusto perché stavolta nella dicitura non c'è solo blog, io potrei valutare di devolvere il mio voto a Dissapore, immutata restando la stima a Cavoletto.

Sito o blog con la migliore grafica
Io credo che qui ci sia un problema generazionale. Cioè, la fase in cui i siti ce li scrivevamo da soli è finita: nel momento in cui i template più leggibili ed eleganti te li regala Wordpress gratis, mettersi lì a cercare di impressionare i lettori con la grafica è un po' l'equivalente 2.0 di truccarsi il motorino. Detto questo si distinguono grosso modo due categorie: quelli che continuano ad addobbare il loro albero di natale con qualsiasi lucina colorata e gadget, e non c'è nulla di male (salvo pretendere che sia grafica e candidarsi a un premio di grafica, ma non è tutta colpa loro) e quelli che invece si capisce che sotto c'è un'attenta strategia, c'è qualcuno che ha studiato e magari ha preso pure dei soldi. Ecco, questi ultimi sono il male. Il grafico di Beerhunters che lascia l'ottanta per cento dello schermo nera. Quello di Pensoscrivo che impagina le foto in modo molto elegante ma poi mette i testi in grigio su nero. Random blog che continua a mettere i post brevi su tre colonne. Eccetera eccetera. Voto Malapuella per dare un segnale: meglio testi grossi su sfondo rosa che colonne inutili e iconcine pervasive.

Miglior sito o blog cinematografico
I400calci ha avuto la gloria che meritava (ampiamente). Io ci riproverei con Kekkoz, che anche stavolta è presente con due blog. A occhio chi è sulla metà alta della classifica ha più possibilità, così magari è il caso di votare per Friday Prejudice. Che sarebbe ancora uno dei pochi motivi per alzarsi al giovedì, se uscisse di giovedì. (L'escluso: Secondavisione).

Miglior sito o blog erotico
Non ce la faccio. Mi fido di Many e voto Lindalov. (Dania è brava e non è un blog erotico)

Miglior sito o blog musicale
Eh, indovinate un po'. Ce ne sono di bravissimi, eh, però solo Enzo mi fa mettere su i dischi.

Miglior sito o blog letterario
Qui più che altrove vedo pere gareggiare con mele (e carote, e grattugie, e spinterogeni). C'è una certa difficoltà a individuare la categoria, evidentemente. Barabba l'ho già votato altrove; Geova non vuole che mi sposi non so quanto sia “letterario”, ma è una storia interessante.

Miglior disegnatore / vignettista
Se non se lo merita Makkox quest'anno, davvero non saprei chi. Di bravi ce ne sono parecchi, ma lui ha davvero inventato qualcosa che prima non c'era. Non mi era mai capitato di veder crescere un talento così, praticamente in diretta.

Miglior sito o blog politico
Premio ambiguo. Bisognerebbe mettersi lì a capire quale dei politici sappia usare meglio lo strumento (Civati?) Credo che la maggior parte dei votanti andrà invece a simpatia, e a questo punto mi tiro fuori dalla mischia e voto Io ricordo Genova.

Miglior post o articolo dell'anno
Io non è che lo faccio apposta, a candidarne ogni anno due. Non so perché succeda. Comunque non credo che il pezzo in cui propongo di castrare il 99,9% della popolazione maschile abbia tutte queste chances (ma siete matte? Ehi, scherzavo). Insomma vi chiedo di votare per il lodo Ligabue, che comunque a suo modo sempre di castrazione si tratta.

Miglior podcast / trasmissione radio online
Non le sento. Voto Economìca per simpatia.

Miglior social network / servizio per i blog
Liquida è una gran cosa, però blogger è qualcosa che mi accompagna da dieci anni, e in dieci anni mi ha tradito davvero pochissimo.

Miglior tweeter italiano 
Appurato che Dania non è una blogger erotica, rimane da capire cos'è. La migliore tweeter? Proviamo. (Grande escluso: Riott@!)

Miglior sito o blog personale
Visto che è candidato qui, Sempre un po' a disagio

Miglior web agency / digital PR online
Questa è la categoria più discutibile: immagino che l'80% dei votanti (me incluso) non abbia la minima idea di cosa si tratti – e non ha nemmeno molto senso andare a guardare i siti, non è da questi particolari che si giudica un digital PR online, o no? Boh. Voto di protesta: il primo della lista, così magari vince e gli altri diranno che ha vinto perché era il primo della lista.

Cattivo più temibile nella rete
Questa cosa di dividere buoni e cattivi mi lascia sempre un po' perplesso, come se non fossimo tutti a nostro modo stronzi. La cattiveria tira, ma chi spinge? Bucknasty ha una media di tre pezzi all'anno. Qualcosa del Genere butta fuori un pezzo al mese un mese ogni tanto. Facci o la Soncini non ce li vedo a stare al gioco. Voto il morto del mese.

Miglior sito o blog andato a puttane
Si parlava di prendersi sul serio, ecco, questo premio non aiuta, e se fossi in Neri lo toglierei. Nel frattempo voto Macchianera, e auspico il ritorno di Betty.

Miglior sito o blog a sfondo sociale
Anche qui: bisogna votare l'iniziativa a sfondo sociale o l'efficacia del sito o blog? Nel dubbio, scelgo l'isola dei cassintegrati.

Miglior sito o blog fotografico
Per una volta ce l'ho: Kimota. Vai Gualtiero.

Miglior sito o blog di satira
Considerato che Makkox ha già vinto a Forte dei Marmi, e scusate se è poco, io voto In coma è meglio, che probabilmente non è nemmeno un sito di satira, però è un sito che ti fa ridere mentre ti spiega un po' di fisica quantistica per farti passare la paura della morte, se fosse candidato a blog erotico lo voterei anche lì.

Miglior sito o blog turistico
Mi fido di Many: NoBorders

Qui sotto la scheda per votare. Grazie ancora!

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La dipendenza della Padania

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Allora se volete un parere (interessato), per me la Padania non sarà mai indipendente.


Finché la rappresentano dei buffoni, almeno. E questo ci lascia almeno dieci, quindici anni di tempo per organizzarci. La Lega per la dipendenza della Padania (H1t#92) si legge sull'Unita.it, e si commenta laggiù.

Ma perché i leghisti parlano di “secessione”? La risposta sembra scontata: ne parlano perché intuiscono che l'esperienza di governo è ormai finita, come nel 1994: e oggi come allora un bel battesimo nell'acqua del Padre Po può lavare via la puzza di compromessi e fallimenti romani che ha impregnato il partito negli ultimi anni. Il secessionismo può riportare molti delusi alle urne, rinsaldando lo zoccolo duro che nel 1996 regalò ai leghisti il risultato nazionale migliore di sempre: quel 10% che determinò la sconfitta di Berlusconi e l'arrivo di Romano Prodi a Palazzo Chigi. Può anche darsi che stavolta la base leghista non ci caschi: d'altro canto Bossi e compagni non hanno molte alternative. Probabilmente il secessionismo per ora è un'opzione, un piano B, in attesa che a qualcuno venga in mente un piano A per il dopo-Berlusconi. Nel frattempo gridare la parola ai comizi fa notizia e non impegna.

Ma perché la parola è proprio “secessione”? Perché non il più nobile “indipendenza”? In fondo “secessione” è una parola che contiene già in sé una segreta consapevolezza della sconfitta. Un lapsus pesante, perché parlare di “secessione” significa ammettere che una nazione da cui secedere, l'Italia, esiste. Di solito, quando i secessionisti vincono, ottengono il diritto di scrivere la Storia, e nei libri si fanno chiamare indipendentisti. Se invece perdono, chi li ha sconfitti continuerà a chiamarli secessionisti: un nome che quasi sottointende il fallimento. Tanto più che nell'inconscio collettivo della generazione di Bossi e Maroni la parola “secessione” è indissolubilmente legata ai film western con le battaglie tra casacche grigie e blu (e i grigi le prendono quasi sempre). Non è l'unico caso in cui l'immaginario leghista si lega, consapevolmente o meno, a un precedente storico 'perdente': un altro esempio, anche questo derivato dai western, è quel famoso manifesto che istituiva un parallelo tra leghisti e pellerossa americani, condannati a vivere nelle riserve per non aver varato anche loro una legge Bossi-Fini. Questa predilezione per i perdenti può sembrare curiosa, specie se confrontata con l'immaginario berlusconiano, ossessionato da modelli di successo e autorealizzazione. In realtà, oltre a essere in un qualche modo complementare al berlusconesimo, il culto leghista per la sconfitta nobile ha precedenti illustri in altri movimenti nazionalisti: si pensi all'importanza che riveste per i serbi la battaglia – persa – di Kosovo Polje. La sindrome dell'accerchiamento, la percezione della sconfitta inevitabile che genera l'impulso al revanscismo, sono elementi costitutivi dei piccoli nazionalismi europei: quello che il leghismo è stato per una breve stagione (1996-2000) e che potrebbe ridiventare in tempi brevi. Ma funzionerà?

Potrebbe anche funzionare. Abbiamo un bel da ripetere che la Padania non esiste: certamente fino al 1996 non esisteva il concetto di nazione padana. Ma non è necessario guardare al passato, alla ricerca di chissà quale sostrato celtico, per vedere qualche crepa nell'unità nazionale. Concentriamoci sul futuro prossimo: le tensioni a cui la crisi economica sottoporrà l'Italia nei prossimi mesi e anni accentueranno ancora di più il dislivello già grave tra Nord e Sud. Se la situazione dovesse degenerare (default, uscita dall'Euro, eccetera), molti abitanti del nord potrebbero essere tentati da un partito indipendentista o secessionista che dir si voglia. Così, dopo aver perso vent'anni a dividerci tra filo e antiberlusconiani, potremmo buttarne altri venti dividendoci tra secessionisti e unionisti.

Insomma, nella situazione difficile che abbiamo davanti, lo spazio per un partito indipendentista della Val Padana c'è. Il problema (per i secessionisti autentici) è che questo spazio è occupato dalla Lega. E la Lega non è nata indipendentista, ma autonomista; ha scoperto l'indipendentismo abbastanza tardi, al termine di una prima burrascosa esperienza di governo. Persino negli anni ruggenti dell'invenzione della Padania, quando le camicie verdi si davano aria di milizia popolare e marciavano sul Po, mentre a Mantova apriva una specie di parlamento e il leader lanciava accorati inviti a uno sciopero fiscale che molti elettori leghisti praticavano già nel segreto dei loro reparti commerciali...  anche allora tutte queste iniziative somigliavano più a una messa in scena per spaventare Roma che ai prodromi di una vera lotta di liberazione. 

Tutto questo non poteva che deludere gli indipendentisti veri, che in effetti nei loro manifesti e blog parlano sempre piuttosto male della Lega. Ma in breve tempo il secessionismo di Bossi deluse anche il grosso degli elettori, che alle europee del 1999 – appena tre anni dopo il successo del '96 – punirono il partito con uno dei risultati peggiori, un misero 4,5 per cento che mise temporaneamente fine alla parabola secessionista. Bossi tornò nella tana del “mafioso massone” Berlusconi (parole sue), ottenendo un'alleanza che forse gli permise anche di risistemare le casse del partito. Da allora gli esponenti della Lega sembrarono dimenticarsi che il partito si chiamava, e si chiama ancora “Lega Nord per l'indipendenza della Padania” (un nome approvato da Luciano Violante, allora presidente della Camera, che lo trovava più costituzionale di Padania Indipendente). Ma domani?

Domani è un altro giorno. Ribadisco: un po' di spazio per un movimento indipendentista c'è. La teoria è che non ci sarà mai un indipendentismo vero, qui, finché quello spazio sarà occupato da un partito come la Lega, e da leader come Bossi e Maroni, che all'indipendenza e alla Padania non hanno probabilmente mai realmente creduto, nemmeno per un istante. E questa forse è una buona notizia. http://leonardo.blogspot.com  
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(Contiene un coming out)

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L'incoerenza è un diritto.

"Quindi se ho capito bene voi siete un gruppo di omofobi anonimi".
"Assolutamente no".
"Non siete anonimi?"
"Sì, siamo anonimi. Ma non siamo omofobi".
"Come no, scusa".
"Anzi, stiamo lottando contro l'omofobia".
"Voi?"
"Sì".
"Contro l'omofobia?"
"Certo".
"E il vostro modo di lottare contro l'omofobia è aprire un blog e..."
"Pubblicare una lista di parlamentari omosessuali".
"A me sembra una cosa omofoba".
"Assolutamente no".
"Scusa, eh, io non è che me ne intenda, voglio dire, alcuni dei miei migliori amici sono omofobi, ma non bazzico tantissimo l'ambiente".
"Meglio per te".
"Però lavoro in una scuola e mi hanno insegnato questa cosa: che se un mio alunno A dà del gay a un suo compagno B, l'alunno A è omofobo".
"Esatto".
"Ed essere omofobi è sbagliato".
"Giusto".
"Essere omofobi è giusto?"
"No, intendevo sbagliato".
"Insomma dare del gay a un bambino è omofobia".
"Esatto".
"Ma anche dare del gay a un adulto è omofobia".
"Se quell'adulto non è d'accordo".
"Se quell'adulto non è d'accordo".
"Sì, è omofobia".
"Allora vedi che ho ragione. Voi avete dato del gay a dieci adulti che non vorrebbero essere chiamati gay. Quindi siete omofobi".
"Ma no, noi non siamo omofobi".
"E perché no, scusa?"
"Perché siamo gay anche noi".
"E questo cosa cambia".
"Cambia tutto. Se lo facciamo noi non è omofobia".
"Cioè, un gay non può essere omofobo".
"No".
"E i dieci parlamentari della lista?"
"Loro sì, sono omofobi".
"Ma li avete messi in una lista di gay! Hai appena detto che i gay non possono essere omofobi".
"Loro sono omofobi perché sono gay che si nascondono".
"I criptogay".
"Esatto".
"Loro possono essere omofobi, mentre voi invece no".
"Guarda che è molto semplice. Quelli sono gay che vanno in parlamento e votano leggi che penalizzano i gay. Quindi sì, loro sono omofobi. Noi invece lottiamo per i diritti della comunità gay. Non possiamo essere definiti omofobi".
"Anche se in concreto state inchiodando dieci persone alle loro preferenze sessuali private, che di solito è una cosa da omofobi".
"Può darsi che sia una cosa da omofobi, in generale".
"Ah, ecco".
"Guarda, te lo concedo. A volte ci sono medicine che assomigliano molto alle malattie che curano".
"I vaccini, insomma".
"I vaccini, giusto".
"Voi inoculate un po' di omofobia per combattere contro l'omofobia".
"Sì, potremmo dire così".
"Ma cos'è che hanno fatto di così omofobico questi dieci criptogay? Scusa, non è una domanda retorica, è proprio che ne sono successe così tante negli ultimi mesi che non ricordo più..."
"Per esempio hanno votato contro la proposta di legge che proponeva di istituire l'aggravante di omofobia".
"Ah, mi ricordo! Cioè, se picchio un gay scatta l'aggravante perché è gay".
"Non proprio. Se picchi un gay perché è gay, scatta l'aggravante".
"Giusto. Io poi in questura direi che l'ho picchiato non perché gay, ma perché era interista, così non scatta l'aggravante, almeno finché una lobby di parlamentari interisti..."
"Non è detto che il giudice ti creda".
"Sì, va bene, però era una legge un po' discutibile, no?"
"Mi sembri un po' omofobo nelle tue argomentazioni. Non è che per caso sei uno di quelli che..."
"No, guarda, in realtà io ero d'accordo"
"Sì?"
"Cioè, mi sembrava una legge che istituiva una specie di steccato intorno ai gay, insomma, un gruppo di persone che unicamente per la loro scelta di genere diventavano meno picchiabili degli altri, nel senso che se li picchiavi rischiavi di più, però..."
"Però?"
"Però d'altro canto riconosco che ci troviamo in una situazione di emergenza, cioè in questo Paese picchiare i gay è una specie di atto dovuto, a momenti c'è gente che chiede la pensione d'invalidità perché picchiando i gay si è lussato una spalla, credo che la situazione richieda una legislazione emergenziale".
"Esatto, bravo, vedo che hai colto il fulcro del problema. C'è un'emergenza e noi siamo esasperati, non vediamo riconosciuti i nostri diritti".
"E quindi ne chiedete di più".
"Siamo una minoranza che ha bisogno di essere riconosciuta e rispettata".
"E quindi mettete alla gogna dieci parlamentari che sono gay".
"Non fare il furbo".
"Tra l'altro non è nemmeno sicuro che siano gay, cioè, nessuna fonte, è la classica letterina anonima, tanto valeva usare indymedia roma".
"Il problema non è che siano gay. Ma sono persone incoerenti".
"Siete incoerentofobi, insomma?"
"Hanno una doppia morale: in casa loro sono gay, in parlamento sono omofobi. Questo non va".
"Perché parli di doppia morale, magari hanno una morale sola che è omofoba, mentre invece la loro estetica è gay. Succede".
"Non è giusto. Vorremmo che fossero coerenti".
"Magari sono coerenti, nel senso che hanno smesso di essere gay e sono passati del tutto dalla sponda omofoba. Una scelta come un'altra. Oppure se uno è stato gay dieci anni fa non può cambiare idea mai più?"
"Certo che può cambiare idea, ma quei dieci lì..."
"Potrebbero anche averla cambiata la scorsa settimana. Sarebbero fatti loro".
"Stai ragionando per assurdo. Quello che risulta a noi è che quei dieci sono gay. Omofobi".
"E quindi incoerenti".
"Giusto".
"Ed essere incoerenti è sbagliato".
"Sì".
"Ho una brutta notizia".
"Sentiamo".
"L'incoerenza non è un reato".
"E questo che c'entra".
"C'entra tantissimo. Non c'è una sola legge dello Stato che chieda al cittadino di avere comportamenti privati coerenti con le idee prefissate in pubblico. Non una sola riga di Costituzione. Neanche un comma di codice penale. Niente. L'incoerenza è un diritto".
"E' comunque un comportamento esecrabile".
"Secondo chi?"
"Secondo la nostra cultura".
"Cattolica".
"No, non cattolica".
"Altroché. Farisei, sepolcri imbiancati. Dite una cosa e ne fate un'altra. Tutto Vangelo. L'incoerentofobia è una malattia senile del cattolicesimo".
"No, senti, scusa, non ci sto. E' una cosa normalissima, moderna, pretendere da un uomo politico un comportamento coerente con le proprie idee".
"Quindi, siccome questi dieci erano gay, è normalissimo e moderno che chiedano un'aggravante per omofobia".
"Sì".
"E se non la chiedono vanno alla gogna. Ma se semplicemente non erano d'accordo? Un gay può anche pensare che l'aggravante per omofobia sia un provvedimento esagerato o controproducente, che rischia di alzare uno steccato irreale tra i gay e il resto del mondo".
"Ma tu non la pensi così".
"No, io penso che tutto sommato uno steccatino nell'emergenza ci possa anche stare".
"Ecco, vedi".
"Ma uno può anche non pensarla così, no? Se uno non la pensa così diventa subito un omofobo? Uno può anche pensare che i gay devono fottersene dell'emergenza, stringere i denti e chiedere esattamente gli stessi diritti degli altri. Un gay potrebbe pensarla in questi termini?"
"Sì, in effetti alcuni gay la pensano così".
"E non sono omofobi".
"No, non necessariamente".
"Tranne quei dieci. Quei dieci lo sono necessariamente".
"Senti, lo abbiamo già detto prima. Può darsi che sia una porcata, in generale, ma in questo momento difficile è tutto quello che potevamo fare".
"Una letterina anonima".
"Credi che sia facile?"
"No. In effetti no. Comunque senti. Vorrei dirti una cosa. Io e te siamo amici. Siamo amici, vero?"
"Certo".
"Senti, devo dirtelo. Penso di essere gay".
"Ma dai! Complimenti".
"Beh, mica tanto, vista la situazione".
"Sì, sì, va bene, è difficile, però è anche bellissimo, sai..."
"Però vorrei che tu non lo dicessi a nessuno".
"Ma naturalmente, scherzi?"
"Eh, appunto, su queste cose non si scherza mica".
"Infatti, no".
"Quindi non lo dirai a nessuno, perché sarebbe come tradirmi".
"Assolutamente no".
"Neanche se volessi scendere in politica, per dire..."
"Che c'entra? No".
"Non mi tradiresti neanche se per assurdo finissi in parlamento".
"Dove vuoi arrivare".
"E neanche se una volta in parlamento mi chiedessero di votare per l'aggravante di omofobia e io dopo una lunga riflessione votassi contro, neanche in quel caso mi tradiresti?"
"Sei sleale se la metti giù così".
"Sì, vabbe', fa lo stesso, tanto ho già cambiato idea".
"Non sei gay?"
"No, non sono tuo amico".
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Now I've said too much

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Perdendo religioni

Prometto che non vi annoierò - stavolta - con ricordi che sicuramente non sono più interessanti dei vostri. Colgo soltanto l'occasione per condividere un curioso fenomeno sul quale rifletto da tempo, senza aver mai trovato il coraggio di scriverci sopra tre o trecento righe. Ma oggi è un giorno particolare, è il primo giorno senza REM da trent'anni a questa parte, e i REM erano uno dei gruppi americani più popolari in Italia. Ora, mi dispiace dover sempre generalizzare; purtroppo non esistono statistiche e fonti attendibili per questo genere di dati, e così uno naviga a vista, pensando di galleggiare sulla contemporaneità, mentre magari ha in mente solo la sua classe di liceo. Però secondo voi qual è la canzone dei REM più famosa? La più programmata in radio? Quella – avete presente? – che più facilmente rischia di passare inosservata quando te la ritrovi in sottofondo su una pubblicità di pellicce in un canale privato, perché ormai è parte del paesaggio e ha perso ogni sapore, ogni referenzialità originale, come l'immagine della Gioconda su una tazza di caffè? Qual è quella canzone dei REM che nessuno ascolta più, perché ormai è veramente consumata dall'uso e dall'abuso, come Imagine dopo che l'adottarono i Tories della Thatcher; il pezzo che neanche sparandocelo in cuffia a massimo volume riusciremmo a sentire davvero, con quel groppo al gola e quella gioia di ballare storpi allo Spirity di Ponte Motta all'aria fresca delle tre del mattino, scusate, avevo detto niente ricordi? Qual è la canzone dei REM che conosciamo veramente tutti e non ascoltiamo più? Magari mi sbaglio.

Ma secondo me è Losing my religion.

E non ha senso. Cioè, è veramente un mistero. Io non sono un fanatico dei REM, massimo rispetto, ma li ho sempre trovati un po' legnosi, americani: professionali ma un po' troppo seriali, in trent'anni devono avere fatto il doppio di album degli U2. Che in tutto questo tempo abbiano scritto centinaia di volte più o meno la stessa canzone lo trovavo inevitabile, era già un problema con le prime cassettine che mi facevo prestare da Gianluca, ma è un po' come prendersela perché Andy Wharol aveva una fissa con le conserve. In realtà ho proprio smesso di seguirli, non saprei dire quando, più o meno una trentina di videoclip fa. Però sono pronto a mettere una mano sul fuoco sul fatto che abbiano scritto quaranta, cinquanta canzoni migliori di Losing my religion, prima e dopo Losing my religion. E più orecchiabili, più (non so se si dica ancora) “commerciali”. Perché LMR non era neanche così commerciale: un pezzo in minore con un mandolino e senza un vero ritornello, io nei panni del discografico mi sarei preoccupato.

Non so se abbia venduto più di Everybody Hurts. Non so se sia passata in radio più volte di Orange Crush. Di sicuro Ligabue non ha sentito l'impellente necessità di coverizzarla – anche se sono fermamente convinto che non sarebbe stato lo stesso Ligabue, senza LMR. E sono abbastanza sicuro di aver ascoltato Michael Stipe cantare That's me in the spotlight come sottofondo di qualche spogliarello di telefonista erotica, in un qualsiasi momento dei profondi anni '90. Quando già LMR era stata masticata e rimasticata fino a perdere ogni ricordo di sapore. Va bene. Ma perché proprio Losing My Religion? In quel periodo i REM ci stavano provando sul serio, a diventare mainstream. Avevano scritto cose talmente orecchiabili da risultare scandalose per i fan del tempo (molto più refrattari ai compromessi di quelli di adesso). Avevano fatto Stand, che per capirci è un giro di do. Nello stesso disco di LMR era stata sparsa abbondante melassa, in particolare in quel duetto imbarazzante con la cantante dei B52's, (che poi in realtà a me è sempre piaciuto, ammazzatemi) Shiny Happy People. Tutte quelle hit potenziali restarono potenziali, e i REM sfondarono con un brano in la minore quasi senza ritornello, registrato in un giorno, impreziosito da un mandolino scolastico (per ammissione di Peter Buck, che stava ancora imparando a tenerlo in mano), e io ancora oggi mi domando il perché. Fu il video immaginifico e un po' pretenzioso? In realtà era una fase di stanca per i clip, qui da noi: Dee Jay Television aveva chiuso, Videomusic era in crisi e MTV ancora al di là dell'orizzonte. E allora, insomma, cos'è che ci prese così tanto? Non ci crederete mai, ma io ho una teoria.

La prendo un po' alla lontana. A voi piace cantare? Anche le canzoni in inglese? A me piace. Certo, c'è sempre il problema delle parole. Specie con le canzoni della nostra prima adolescenza, che magari amiamo di più, ma a quel tempo non sapevamo l'inglese e quindi non le abbiamo veramente imparate. Se le ripeschiamo dalla memoria profonda, ci vengono in mente costruzioni insensate, parole inventate, tutto un borborigmo che riproduceva i suoni che sentivamo. Donseva preffor minau: sevi fordemor ninaffe.

Più in alto, nel carotaggio della nostra memoria, troviamo le canzoni che abbiamo amato in un periodo relativamente più recente, quando eravamo già abbastanza grandi per conoscere un po' di inglese, ma avevamo ancora amore e memoria da investire sulle canzoni. Quelle le cantiamo quasi senza vergogna. Magari non ricordiamo tutte le parole; sicuramente ogni tanto prendiamo cantonate imbarazzanti ma chissenefrega, mica passa la Soncini. Ecco, secondo voi qual è la prima di queste canzoni? Ognuno ovviamente ha la sua. Young teacher, the subject of schoolgirl fantasy. One man come in the name of love. Relax, don't do it. I was born in the USA.

Però, se allarghiamo il campione, se sovrapponiamo migliaia di esperienze, se cerchiamo di individuare la prima canzone in lingua inglese che abbiamo cantato in coro, assieme, conoscendo le parole o credendo di conoscerle, anche equivocando il significato, forse, chissà, scopriremmo che questa canzone è Losing My Religion. Che non è orecchiabile, non è divertente, non è neanche particolarmente commovente: è poco più di una lagna, ma ha un testo semplice che è messo in evidenza.

Ovviamente è un testo che non abbiamo mai davvero capito. Per anni siamo stati convinti che parlasse di religione. Ecco, quel che mi affascina del successo italiano (ma anche mondiale, forse) di LMR, è che è basato sul fraintendimento. “Losing my religion” è un'espressione che a quanto pare significa perdere la calma, la ragione, ma noi non lo sapevamo (e il video faceva tutto il possibile per mantenere l'equivoco). Eravamo sicuri che Stipe avesse perso la sua religione, che ce lo stesse raccontando, e la cosa ci risuonava dentro, toccava le corde giuste. Sono convinto che Ligabue lo abbia capito, anche solo a livello preconscio: non si doveva per forza cantare di birrerie e amori sfortunati, anche la religione poteva vendere dischi. Bastava affrontarla in controluce, come una cosa che bisogna lasciarsi alle spalle per diventare grandi. Stavamo appunto diventando grandi e avevamo sempre meno voglia di alzarci presto alla domenica: volevamo perdere la nostra religione e Stipe ci mostrava una via elegante. Con qualche etto di eleganza in meno, cantando Libera nos a malo, tre mesi dopo Ligabue avrebbe inaugurato il suo filone anti-Dio, abbastanza prolifico ma del tutto assente dal primo disco. Magari era solo Zeitgeist, ogni tanto ci sono periodi in cui tutti si mettono a cantare che Dio è morto. Poi passa. Ma no, a noi non è mai veramente passata. Losing my religion non è mai stata una gran canzone. Non era la più bella di quel disco, né di quel gruppo, né di quell'anno. Ma forse è stata la prima canzone che abbiamo avuto l'impressione di capire, senza bisogno di consultare le infedeli edizioni Arcana. E non importa che in realtà non avessimo capito nulla, e che quella risata misteriosa non provenisse nelle intenzioni dell'autore da un Dio distratto e indifferente. L'importante è che abbiamo avuto l'impressione di farcela, di capire: forse potevamo davvero imparare quella lingua arcana e maledetta che a scuola dopo anni di dialoghetti ci era rimasta intimamente aliena. Varrebbe la pena di essere riconoscenti a Stipe e soci anche solo per questo.
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Meglio triumviri che niente

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Sei matto a metterti con quei due, dicono, non capisci niente, loro non rispetteranno le tue scelte, bestia, non avranno nessun rispetto per te, cretino, lo capisci che se vai con loro passerai tutto il tempo a litigare? Ma resta qui a casa con noi che ti vogliamo bene, ti facciamo tanti regali, tante sorprese, stavamo giusto scegliendo un set nuovo di coltelli


Sì vabbe', insomma, ho una teoria (#91): il Pd non ha bisogno di alleati (per litigare). Si legge e si commenta, indovinate un po', sull'Unità.it

Quando qualche giorno fa il triangolo Bersani-Di Pietro-Vendola ha preso forma, abbiamo assistito a un fenomeno che potremmo definire paradossale se non fosse, in realtà, abbastanza ricorrente: diversi esponenti del PD, alcuni perfino della maggioranza, hanno espresso il loro dissenso, o perlomeno il loro scarso entusiasmo, nei confronti dell'iniziativa del segretario. Walter Veltroni ha richiamato esplicitamente l'Unione, quella caotica alleanza di dieci partiti, guidata da Romano Prodi, che nel 2006 sconfisse Berlusconi (visti i margini ristrettissimi sarebbe più corretto dire che pareggiò) ma non riuscì a dare al Paese un governo stabile.

Il dissenso, sia ben chiaro, è legittimo, e mostra la distanza tra il PD e altri partiti in cui discutere apertamente delle scelte del leader non è semplicemente concesso. Invece nel PD il dibattito c'è, non è mai troppo – al limite ci si potrebbe domandare se le divisioni ai vertici rispecchiano reali posizioni nella base, ovvero: questa fobia per l'Unione è condivisa dagli elettori? Gli attivisti che si sono dati da fare fino a pochi giorni fa nelle feste di paese, quelli che stanno raccogliendo firme per il referendum antiporcellum, gli elettori delle primarie, insomma, il popolo democratico condivide questo terrore di ripetere la famigerata alleanza a dieci (anche se stavolta gli alleati sarebbero soltanto tre, e tutto sommato già abbastanza rodati)?

Io direi di no, anche se non ho nessun serio titolo per rispondere. Sono soltanto un blogger, il mio parere vale quanto il vostro: in ogni caso a occhio i partiti di Vendola e Di Pietro mi sembrano gli alleati naturali del PD, quelli meno indigesti (se non addirittura simpatici) all'elettore democratico medio. A differenza di Casini, che alla travagliata storia del centrosinistra dall'Ulivo in poi è sempre rimasto estraneo, e di cui non siamo ancora riusciti a dimenticarci i trascorsi berlusconiani: ecco, un'alleanza con lui sarebbe molto più difficile da digerire per l'elettore democratico che ho in mente io (e forse anche per quello che ha in mente Civati). Ma magari ho in mente l'elettore sbagliato.

Cosa c'è dunque di paradossale nel fatto che qualche dirigente del PD paventi il ritorno di un'accozzaglia stile Unione? Il fatto è che chi critica l'alleanza con Vendola e Di Pietro teme che essa possa annacquare le proposte del partito e nuocere alla sua leadership. E proprio per questo motivo, per salvare questa eventuale leadership del PD... si criticano apertamente proprio le scelte del leader, dimostrando una volta ancora che il PD non ha nessun bisogo di allearsi con qualcuno per poi litigare. No, ci riesce benissimo da solo.

Questo paradosso non ha niente di nuovo: lo abbiamo visto in opera da quando è nato il PD. Per Veltroni, che trionfò alle primarie del 2007, il partito doveva ambire a diventare la forza egemone del centrosinistra, rifiutando alleanze e ricatti dei vari cespugli, emarginandoli anche a costo di essere sconfitto alle prime elezioni (come infatti avvenne). Quello che avrebbe perso in quantità, il nuovo partito lo avrebbe dovuto guadagnare in compattezza. Ma fu proprio qui che Veltroni perse la vera scommessa: lo si vide con chiarezza quando, a pochi mesi dalla sconfitta elettorale, il partito decise di astenersi alla Camera su un caso spinoso e cruciale come quello dell'alimentazione forzata a Eluana Englaro. 

L'episodio dimostrò definitivamente a molti elettori del PD – tra cui il sottoscritto – che il nuovo partito non riusciva a trovare una sintesi tra le sue nature, esattamente come l'Unione: non era meno eterogeneo, non era più compatto: era solo più piccolo
Ma al suo interno, tra uno Scalfarotto e una Binetti, continuava a esserci più o meno la stessa inconciliabile distanza che ai tempi dell'Unione c'era tra un deputato della Margherita e uno di Rifondazione. Cosa avevamo perso? Verdi e comunisti erano stati cacciati dal parlamento: l'arco parlamentare si era inclinato vistosamente verso il centrodestra. Cosa avevamo guadagnato? Me lo sto ancora chiedendo.

È passato qualche anno. Il PD mi sembra relativamente migliorato: ha guadagnato qualche punto nei sondaggi e ha perso per strada la Binetti. Continua a essere diviso in correnti, che non vogliono essere chiamate così (vecchio vezzo del PCI) ma che in sostanza portano avanti progetti divergenti. E non c'è niente di male, purché scontri e alleanze non si consumino nei corridoi di una segreteria o di un loft, ma alla luce del sole, davanti agli attivisti ai quali, grazie alle primarie, dovrebbe spettare l'ultima parola. Io, ripeto, sono semplicemente un blogger e non pretendo di spiegare ai vertici del partito quello che la base pensa. Quel che penso io è che il PD le prossime elezioni potrebbe vincerle, alleato con chiunque o perfino da solo, purché riuscisse a proporre a un blocco sociale preciso un programma semplice con priorità ben definite. Questo programma è oggettivamente difficile scriverlo a tre mani, specie se due delle mani sono quelle di Vendola e Di Pietro. Ma non è affatto detto che sia più semplice da scrivere se invece le mani fossero quelle di Veltroni, Renzi e D'Alema (per tacere di Casini). Se si tratta di litigare, di dividersi, di non arrivare a una sintesi, il PD può fare benissimo da solo, e lo ha abbondantemente dimostrato in questi anni. http://leonardo.blogspot.com
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Fischiasse un po' di vento

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2° UPDATE Troppa pioggia, non si fa più. Ce lo hanno detto adesso. Chiedo scusa a tutti.
UPDATE: Non solo fa freddo, ma spioviggina. L'incontro è spostato al Palaconad (pochi metri più in là al coperto).


Per una volta forse riesco a dare un annuncio in tempo: domenica 18, a partire dalle 19, alla Festa del Partito Democratico di Modena (spazio Cabò) il collettivo Barabba presenterà Schegge di Liberazione. Ci sarà il Coro delle Mondine di Novi (che pare si sposi molto bene) e ci sarò persino io; dovrei leggere un brano che nel libro non c'è (ma nel blog sì). Speriamo faccia fresco.
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Vacanze senza fine

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L'estate ormai è alle spalle. Non importa che l'abbiate trascorsa in una spiaggia gremita o chiusi in casa ad aggiornare i vostri social network: prima o poi sarà capitato anche a voi uno dei più strazianti fra i classici argomenti da ombrellone: le vacanze degli insegnanti. Pare proprio che ne facciano troppe, no? Non si potrebbero tagliare in qualche modo? Specie quest'anno, quando a un certo punto per saltarci fuori sembrava che si dovesse amputare un po' di tutto – le province, i seggi in parlamento, le tredicesime, tutto – possibile che nel frattempo torme di laureati vadano in giro da giugno a settembre a spese nostre?

Ma è vero che gli insegnanti fanno troppe vacanze?

Sì, cioè no, cioè... è complicato. Di solito chi tira fuori l'argomento “troppe vacanze” tende a non considerare alcune cose.

La prima banalissima cosa è che gli insegnanti lavorano in un'istituzione, la scuola, che non gira attorno alle loro esigenze. Non è per far piacere agli insegnanti che si è stabilito di chiudere le scuole in luglio e in agosto. Semplicemente viviamo in un Paese mediterraneo soggetto a estati torride, e non disporremo mai di abbastanza risorse per climatizzare tutte le scuole pubbliche della Repubblica, nemmeno se volessimo. È molto più conveniente, per la serenità delle famiglie e la cassa dello Stato, salutarsi a metà giugno e rivedersi a metà settembre. L'insegnante non fa che adattarsi, e non è detto che si adatti bene. Io ad esempio soffro un po', come spiegherò più sotto.

La seconda cosa è che le nostre scuole aprono i cancelli agli studenti per un numero netto di giorni più o meno in linea con la media europea, e in particolare con la media di quei Paesi civili che hanno uno spread rispettabile e un'istruzione decente. Anche se altrove non è difficile vedere studenti sui banchi fino al trenta giugno, e dal primo settembre in poi. Il trucco è che in altri Paesi le ferie sono spalmate con più uniformità sull'intero anno scolastico: i famosi quindici giorni di vacanze di primavera in Francia o in Germania, eccetera. Noi no, noi facciamo questo enorme blocco in estate che sembra fatto apposta per far incazzare i contribuenti sotto l'ombrellone, per poi tuffarci a capofitto in uno studio matto e disperatissimo tra ottobre e dicembre e tra gennaio e aprile (da lì in poi cominciano i famosi ponti, che a seconda dell'anno possono toglierci da due a dieci giorni di lezione, ma pare che non si possa razionalizzare la cosa sennò il comparto turistico crepa sul colpo, il che mi sembra demenziale, ma tant'è).

È meglio il nostro sistema o quello francese o tedesco? Senz'altro quello francese o tedesco, se vivessimo in quei Paesi (e in qualche regione contigua a Francia ed Europa centrale varrebbe la pena di ricalcarlo). Ma siamo più a sud, e – banalmente – fa più caldo. La scuola italiana si può certo riformare e migliorare in mille modi, ma non è che si possa trasferire a un'altra latitudine. Forse un passo avanti come nazione lo faremo quando accetteremo la nostra condizione mediterranea, come dire quasi tropicale, ormai. Se uno va a vedere le nazioni zavorra dell'Unione europea, i famigerati PIIGS, scopre che a parte l'Irlanda si tratta di Paesi fortemente soggetti a questo clima mediterraneo che forse duemila anni fa poteva incubare la civiltà occidentale, ma era il periodo in cui l'aratro era uno spunzone di ferro e l'olio d'oliva il prodotto d'igiene personale più cool, gli atleti se lo spalmavano su muscoli e capigliatura. Sono cambiate tante cose e adesso, oggettivamente, è più difficile mantenere determinati standard di efficienza e civiltà intorno al quarantesimo parallelo. I tedeschi dovrebbero accettare questa semplice evidenza, stampare i maledetti eurobond e non rompere ulteriormente, che a questo punto un minimo di servizi efficienti tra Monaco di Baviera e Taormina interessa più a loro che a noi.

Ora confesserò una cosa imbarazzante. C'è un momento, verso la seconda metà di agosto, in cui comincio a pensare alla scuola, e all'inizio faccio un po' di fatica a metterla a fuoco. A quel punto, per aiutarmi, cerco di fare l'appello mentale di una classe: mentre mi aggiro in moto browniano in un negozio senza sedie, o giaccio inerte su uno sdraio, provo a ricordare i nomi dei miei studenti in ordine alfabetico. Ecco, è imbarazzante, ma non riesco mai a chiamarne ventotto su ventotto – c'è sempre qualcuno che manca, qualcuno di cui non ricordo più né il nome né il volto. E dire che ho lavorato con lui per almeno nove mesi. Probabilmente è qualcuno che credevo di conoscere abbastanza bene, semplicemente perché vedevo il suo faccino tutti i giorni e ogni tanto gli correggevo qualcosa. E invece non so più chi sia. Lontano dai banchi, lontano dal cuore. Maledette vacanze lunghe.

A me il calendario scolastico italiano non piace. Le lezioni della mia scuola addirittura partono lunedì prossimo, e oltre il dieci giugno probabilmente non andranno. Secondo me allungando un po' la coperta ai bordi si potrebbero tranquillamente inserire quindici giorni di lezione in più, senza aumentare lo stress di studenti o insegnanti. Nel mio caso specifico poi parte dello stress è dovuto proprio al fatto che non ho mai abbastanza tempo per interrogarli tutti o finire il programma, insomma 10-15 giorni di lezione in più li farei senza obiezioni. Questo non andrebbe in nessuno modo a influire sulle cosiddette “vacanze” degli insegnanti, perché in giugno e in settembre gli insegnanti a scuola ci sono comunque. Per dire, io ormai è da due settimane che vado a scuola quasi tutti i giorni, anche se i ragazzi li ho visti soltanto in foto. Cosa faccio? Perlopiù riunioni. Non dico che siano più stancanti delle lezioni – non lo sono – ma secondo me non funzionano. È come riaccendere un motore dopo due mesi, lasciarlo in folle e cominciare a scaldarlo sgasando abbondantemente. Non è il modo adatto di partire, anzi, possiamo stare sicuri che nei primi giorni di lezione lasceremo un bel po' di pneumatico sull'asfalto.

In un libro che non ho qui con me, devo citare a memoria – un curioso scrittore di fantascienza crepuscolare immagina il mondo invaso da una razza di formiche dotate di una tecnologia avanzata. Come hanno fatto a diventare così intelligenti? Secondo l'autore lo erano già. Il loro unico handicap era il letargo in cui andavano per alcuni mesi all'anno: quando si svegliavano dovevano ripartire da zero. A volte ho la sensazione che il problema di noi insegnanti italiani – e dei nostri studenti – sia proprio il letargo. Siamo come le formiche di Simak: non ci manca l'intelligenza, né l'organizzazione; il problema è che per tre mesi all'anno stacchiamo la spina, e quando torniamo non ci ricordiamo niente. Non si ricordano niente i ragazzi, che già a metà luglio fanno fatica a rammentare quello che hanno portato all'esame. E non ci ricordiamo molto nemmeno noi insegnanti. Facciamo riunioni e ci mettiamo a discutere di sanzioni e regole, di un'idea di scuola astratta, che esiste solo in questi giorni di settembre in cui le aule sono vuote. Ogni tanto pensi che lunedì avrai lezione e ti chiedi come farai, come si fa una lezione? Poi finalmente un mattino la campana suona sul serio, l'aula si riempie, e all'improvviso tutti i nomi degli studenti ti rientrano in testa, fai giusto in tempo ad accogliere tutti e dare due avvisi e la lezione è già finita. Per me almeno funziona sempre così, è davvero come svegliarsi da un letargo. Vorrei svegliami migliore ogni anno, ma non so come si fa. Forse è davvero impossibile, a queste latitudini perlomeno.


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La Bovary sarai tu!

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Traffico di senso: la parola bovarismo

Io ho sempre pensato che un giorno avrei avuto una casa, non grande, magari non bella, ma con una libreria interessante. Finché un giorno ho capito che non sarebbe successo mai, per più di un motivo. Non ho così tanti libri, in fondo, e quelli che ho non sono così decorativi. Invecchiano senza diventare nobili; non restituiscono l'immagine di una persona studiosa, piuttosto di uno che ha frequentato troppe edicole e bancarelle e non si vergognava a portarsi a casa un newton compton rosso fuoco (del resto quel Tutto Dante a 9900 lire non era un affare?) Non riescono nemmeno a restare in ordine, non capisco bene il perché; non li consulto quasi mai (sto quasi sempre su internet). Ma sono i miei libri, mi assomigliano. Non è che mi piacciano tanto, però non riuscirei a disfarmene nemmeno volendo. Li ho messi in una stanza a parte, quando vengono ospiti chiudiamo la porta. Perché vi racconto questa cosa.

Perché l'altro giorno ho letto questo pezzo del Corriere, in cui si cercava di ammucchiare nei confronti di Nicla Tarantini tutto il disprezzo possibile (si capisce che il giornalista si è recato a Bari apposta e ha condotto indagini estese), e il risultato è condensato appunto in quel titolo: "Brillanti e niente libri". Il massimo dell'ignominia, per un giornalista del Corriere (ma poteva essere la Repubblica, la Stampa, e tanti altri) è non avere una libreria in casa. Il che non è nemmeno sicuro, non è che Goffredo Buccini sia stato in casa di Nicla e abbia verificato l'arredamento. Ha solo raccolto le chiacchiere di amiche e conoscenti, e di una in particolare. Notate come la presenta:

«Però manco mezza libreria: loro stavano ai libri come io sto a una suora», ridacchia una delle fate della scuderia, la più spiritosa e, probabilmente, la meno ignorante.

E' "spiritosa" perché sa istituire il rapporto Tarantini:libri=io:suora. E' (probabilmente) "meno ignorante" perché intuisce la vacuità di una vita senza mezza libreria in casa. E va bene. Non è che io voglia fare lo snob al contrario, anche a me capita di entrare in case d'altri ed elaborare pregiudizi in base ai libri che vedo e al modo in cui sono accatastati. Una libreria non rende certo una persona colta o intelligente; però aiuta. La cosa veramente curiosa è che due paragrafi più su Buccini aveva definito la parabola dei Tarantini una "piccola storia di bovarismo del Terzo Millennio". Il che potrebbe anche starci, in fondo questi due trentacinquenni "perfino più immaturi della loro età", come li definiva Lavitola, qualcosa in comune con Emma Bovary ce l'hanno: il consumo compulsivo di beni voluttuari, l'esigenza di vivere al di sopra delle proprie possibilità (la difficoltà anche a capire quali siano effettivamente, queste possibilità).

Il bovarismo, però, come lo aveva isolato Flaubert, si verificava in presenza di determinati agenti patogeni: i libri. Emma, mi par di ricordare, ne leggeva troppi. Nicla (forse) neanche uno. Anche il bovarismo, insomma, non è più quello di una volta, e in realtà è proprio questo che m'interessa: notare come le parole cambiano continuamente di significato, ogni volta che le usiamo: e sì che le usiamo proprio perché vorremmo far forza su un bagaglio di nozioni date per scontate, un retroterra culturale solido, qualcosa dove metter radice, una bella libreria immobile, lucchettata: niente da fare. Le parole ci cambiano in mano, afferriamo un martello e ci troviamo in mano un cacciavite che c pone dei problemi: perché pensavate di usarmi come un martello? Cosa vi faceva pensare che io potessi pestare un chiodo? Cosa vuol dire oggi la parola "bovarismo"? Non lo so, probabilmente Buccini ha una sua idea che non è la mia. Ma non è così interessante. Quello che è interessante è cosa dice la parola "bovarismo" di noi che pretendiamo di usarla oggi.

Ci dice che siamo molto diversi da Flaubert, al punto che non lo capiamo quasi più. Lo si capisce anche solo dal modo in cui trattiamo i libri: ne apriamo molti meno, ma nel frattempo abbiamo sviluppato un'enorme fede in loro. La loro sola presenza, la semplice ostensione dei libri in una teca, avrebbe il potere di salvare la nostra vita, riscattarla sia dalla banalità della provincia, sia dai luccicori dei "coca-party". Se uno legge libri, se uno possiede librerie o perlomeno nota la loro assenza in un salotto, è "meno ignorante".

Ai tempi di Flaubert probabilmente non era così. I libri erano oggetti perfino pericolosi, che potevano portare alla perdizione: da assumere con prescrizione medica. Lo stesso Flaubert, se ricordo bene, a momenti ci crepava, sulla Tentazione di Sant'Antonio: e Madame Bovary lo scrisse anche per disintossicarsi, scegliendo la storia più banale e terra-terra, meno letteraria che riuscisse a trovare.

Tanti anni fa, ormai è quasi una vita precedente, visitai la casa di Balzac, che in realtà non era nemmeno la casa di Balzac, perché quel formidabile cialtrone riusciva a mettere il suo nome (falso) su tantissime cose che non possedeva: era una casa di amici e ammiratori in cui lui poteva arrivare quando voleva, entrare nella sua stanzetta e mettersi a letto e/o scrivere. Tra le incisioni alle pareti ne ricordo una che mostrava "il lettore" (dunque il cliente-tipo di Balzac). Voi subito immaginate un signore distinto che seduto su una poltrona aggrotta la fronte, magari per tener fermo il monocolo. Perché siete uomini del XXI sec., per voi leggere è cosa da nobili, e che nobilita. Invece "il lettore" dei tempi di Balzac è un vecchietto spiritato che siede a tavola col piatto pieno di cibo freddo (non riesce a staccare gli occhi dalla pagina) e che si versa il vino fuori dal bicchiere. Un poveretto, il "lettore". Totalmente succube di un'ossessione-compulsione che è simile a quella che noi lamentiamo nei ragazzini con playstation. Il "lettore" era un malato, un tossicodipendente. La lettura non lo nobilitava: lo estraniava dalla società. Naturalmente lo stesso Balzac si sarebbe ribellato a una tesi del genere, e avrebbe sostenuto che c'erano libri e libri: immondi feuilletons e accurati ""études philosophiques". Oggi no: oggi qualsiasi libro è comunque meglio di qualsiasi altro impiego del tempo libero: basta aprire un libro, qualsiasi libro, per sembrare più intelligente di qualcun altro che nello stesso momento sta guardando la tv,  o videogiocando, o cercando prove della propria esistenza su un social network, o cicalando su un cellulare. L'unica cosa vagamente paragonabile sono i film, ma qui conserviamo ancora qualche distinguo sul contenuto: la frase "in casa ha tanti dvd" in sé non vuol dir niente, resta da stabilire se siano Tarkovskij o Neri Parenti. Invece la libreria è indizio di cultura a prescindere. La persona che ha fatto una soffiata sui Tarantini, magari a casa ne ha una piena di Moccia o Fabio Volo; ma sono libri - parallelepipedi di fogli di carta rilegati su un lato, e quindi comunque la rendono "meno ignorante". Magari, per dire, ha tutti i pamphlet antislamici di Oriana Fallaci...

A proposito. Il giorno dopo lo stesso quotidiano, il Corriere, è uscito con una buffa versione "da collezione" per il decennale dell'11 settembre, il giorno che secondo loro ha cambiato tutto. Il che tra l'altro è sempre più discutibile: a distanza di dieci anni non c'è una sola notizia importante, in questi giorni (crisi europea, fine del berlusconismo, guerra in Libia, incidenti nucleari, riscaldamento globale) che sia facilmente riconducibile con un rapporto di effetto-causa agli attentati di dieci anni fa. Probabilmente se Mohammed Atta se ne fosse rimasto a casa oggi i nostri telegiornali ci racconterebbero le stesse cose. Però è ugualmente vero che per il Corriere dieci anni fa è cambiato tutto. E' stato il momento in cui i suoi lettori, un tempo maggioranza silenziosa, hanno tirato fuori dagli scantinati il loro razzismo fino a quel momento muto e un po' vergognoso, e hanno cominciato a vantarsene, a trovarlo giusto e interessante, sacrosanto addirittura, e a sfoggiarlo addirittura su una mensola in bell'evidenza, sotto forma di cartonato di Oriana Fallaci. La vecchietta, si è poi saputo (ma si poteva benissimo intuire), non era più molto padrona di sé, ma De Bortoli e RCS non si posero evidentemente il problema, spremendo il limone fino all'ultima goccia (acida). Una cosa del genere non sarebbe stata possibile fino al 10/9/01: dopo sì. Quindi, effettivamente, l'11 settembre ha cambiato qualcosa. Nelle nostre librerie, perlomeno. Che ci assomigliano. E a me non è che piacciano tanto. Agli ospiti non le mostrerei.
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