I blog, ehm, ecco

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Stanotte a mezzanotte (cari amici della notte) su wr8.rai.it c'è un intervista a me stesso medesimo; così chi si sentisse in crisi di astinenza può finalmente sapere cosa ne penso dei blog, del rapporto tra blog e giornalismo, tra blog e social network, eccetera. Che non fraintendetemi, gli intervistatori in generale sono gentilissimi a venirmi ancora a cercare, e fanno benissimo a farmi le stesse domande, visto che io continuo a fare più o meno le stesse cose.



Io nel frattempo sto lavorando sulle pause, cioè cerco di farne sempre di meno, chissà che in un'altra decina d'anni di applicazione io non diventi un intervistato affabile, uno che fa anche piacere ascoltare quando parla, hai presente. Se a mezzanotte avete altro da fare (buon divertimento), la trasmissione replica alle sei del mattino, e poi a mezzogiorno, e poi alle 18, e poi troverò modo di linkarvi il podcast, insomma arrendetevi.

UPDATE: Ecco il podcast.
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Da porcospino a icona gay

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Se sarete così gentili da perdonare il mio omofobico ritardo, sul Post c'è il pezzo su San Sebastiano (20 gennaio), il protettore dei vigili urbani e degli appestati, di cui si sussurra in giro che abbia anche qualche riguardo per i gay. Son tutte chiacchiere messe in giro tra Rinascimento e '800, lui in realtà non ha fatto niente...


...A parte offrire il torso a frecce tutt'altro che metaforiche. Comunque se avete notizie più precise, potete commentare sul Post. Alla prossima.

20 gennaio – San Sebastiano (256-288).
Bozzetto di Léon Bakst per il Martyre de St.Sébastien
Tutti i Santi sono icone, ma uno solo è icona gay. Capire come ci sia riuscito, Sebastiano, non è semplice: anzi se qualche altro esperto volesse intervenire con una lunga spiegazione ne sarei contentissimo (nel frattempo segnalo la più completa, a cura di Giovanni Dall’Orto) Quel che sono riuscito a capire è che (1) la Chiesa nega tutto; (2) probabilmente ha ragione, (3) l’associazione tra Sebastiano e omosessualità, anzi, tra Sebastiano e comunità LGBT (oh, lo dice wikipedia) è moderna, ma non modernissima: è già abbastanza data per scontata quando nel 1911 D’Annunzio scrive il Martyre de Saint Sébastien per le musiche di Claude Debussy e le mosse di Ida Rubinstein, ballerina dal fascino androgino. Per l’occasione la Rubinstein vendica i secoli di attori efebici prestati a ruoli femminili. C’è qualcosa di più scabroso di una ballerina russa bisessuale che interpreta un Santo che si fa trafiggere il torso denudato? Sì, una ballerina russa bisessuale ebrea. Pare che quella fosse la vera goccia che fece traboccare il vaso: il Sant’Uffizio mise all’Indice tutte le opere di D’Annunzio, che comunque in Italia non pensava di tornare: troppi ricordi, troppe storie finite male, e soprattutto troppi creditori insistenti e volgari. Ma come gli era venuto in mente di trasformare il pretoriano “favorito” di Diocleziano nel “favorito” nel senso di amante?
Guido Reni: più torso che anima
Mettiamo in chiaro una cosa: D’Annunzio non si inventa mai veramente nulla. È solo un enorme frullatore di cose che esistevano già. L’omosessualità di Sebastiano è probabilmente un’invenzione dei pittori italiani rinascimentali, che accantonano il santo adulto e villoso dell’iconografia medievale e si concentrano su un solo dettaglio: il torso. Più del seno di Agata, più degli occhi di Lucia, dal Cinquecento Sebastiano è per prima cosa il suo bel torso di soldato romano con una doppia vita (guardia imperdiale di giorno, cristiano di notte). Aggiungi una posa languida, una colonna a cui legarlo; aggiungi qualche freccia – ma non troppe: è vero che Iacopo di Varazze parlava di un santo ridotto a porcospino (“ut quasi hericium videretur”), ma quello era il medioevo truculento, ai nuovi artisti interessa altro. Il torso, perlopiù. A un certo punto dipingere un bel Sebastiano doveva equivalere quasi a un coming out. Prendi il Sodoma, che in verità si chiamava Giovannantonio di Vercelli. Il soprannome non è un caso: Vasari perlomeno non lascia molto margine alle interpretazioni.
Era oltre ciò uomo allegro, licenzioso, e teneva altrui in piacere e spasso, con vivere poco onestamente; nel che fare, però che aveva sempre attorno fanciulli e giovani sbarbati, i quali amava fuor di modo, si acquistò il sopranome di Soddoma, del quale, non che si prendesse noia o sdegno, se ne gloriava, facendo sopra esso stanze e capitoli e cantandogli in sul liuto assai commodamente. (continua…)



San Sebastiano, di Giovanni Antonio da Vercelli detto il Sodoma. E qualcuno là dietro sta molestando un cavallo.
Sodoma vive perlopiù a Siena, dove le sue stravaganze sono più tollerate che altrove, in una casa piena di animali (“tassi, scoiattoli, bertucce, gatti mammoni, asini nani, cavalli barbari da correre palii, cavallini piccoli dell’Elba, ghiandaie, galline nane, tortole indiane”), e un corvo canterino che gli fa da segreteria telefonica. I benedettini di Monte Oliveto lo chiamano mattaccio, lui si vendica infilando un gruppo di donne nude nelle storie di San Benedetto, poi pur di farsi pagare le riveste. L’impressione è che un gay abbastanza estroso nel Cinquecento potesse anche cavarsela, purché dipingesse bene a prezzi vantaggiosi, ed evitasse certe città meno aperte di altre: Firenze, per esempio, dove già Leonardo da Vinci aveva rischiato parecchio, e dove allo stesso Sodoma capitò un incidente spiacevole, quando un suo cavallo vinse un palio.
Onde, avendo i fanciulli a gridare come si costuma dietro al palio et alle trombe il nome o cognome del padrone del cavallo che ha vinto, fu dimandato Giovan Antonio che nome si aveva gridare, et avendo egli risposto Soddoma, Soddoma, i fanciulli così gridavano. Ma avendo udito così sporco nome certi vecchi da bene, cominciarono a farne rumore et a dire: “Che porca cosa, che ribalderia è questa, che si gridi per la nostra città così vituperoso nome?”. Di maniera, che mancò poco, levandosi il rumore, che non fu dai fanciulli e dalla plebe lapidato il povero Soddoma, et il cavallo e la bertuccia che avea in groppa con esso lui.
Il Perugino, figurati, di dipingere le frecce non aveva cuore.
Povera bertuccia. Ma insomma nei pittori della generazione del Sodoma l’omoerotismo di Sebastiano è già ben più che latente: la cosa diventa più sottile nei secoli successivi e torna a scatenarsi nell’Ottocento. D’Annunzio ha il ‘merito’, consentitemi le virgolette, di mettere la storia nero su bianco: da lui in poi il dado è tratto, anzi, la freccia è scoccata: i gay trovano il loro Santo protettore e non lo molleranno più. Lungo il Novecento il nome viene utilizzato da scrittori di area anglosassone per creare intorno a certi personaggi almeno un dubbio, un alone sessualità ambigua: è il Sebastian di Ritorno a Brideshead (Evelyn Waugh) o quello di Improvvisamente l’estate scorsa (Tennessee Williams). A dire il vero un giovane Sebastian oggetto di attenzioni omoaffettive c’era già nellaDodicesima notte di Shakespeare… Infine, quel che D’Annunzio poteva solo suggerire nel suo Martyre, ci pensa Derek Jarman a esplicitarlo nel suo film del 1976: pensavate che Diocleziano ce l’avesse con Sebastiano per via del Cristianesimo? ma no, macché, la verità è che prima della conversione erano amanti, insomma, più che un martirio un dramma della gelosia. A me personalmente questo ridurre qualsiasi conflitto a questione passionale irrita un po’, però probabilmente non sono il target di un film di legionari che si baciano e parlano latino con un accento inglese. Da Jarman in poi l’associazione tra Sebastiano e gay è diventata così comune che alcuni hanno iniziato a costruire teorie per giustificarla un po’ più seriamente: le frecce che feriscono ma non uccidono come simbolo della penetrazione? Mah.

Senz’altro le frecce continuano a evocare un sostrato pagano: le guardiamo e pensiamo a Cupido, non c’è niente da fare. Una bella ironia per un santo che si dedicava con zelo a distruggere gli idoli pagani: alla fine ha perso, quando contempliamo il suo glorioso martirio ci viene ancora in mente l’antico Eros. L’associazione funzionava ancora nel medioevo, stilnovisti e petrarchisti sono lì per mostrarcelo. E tuttavia ce n’è un’altra fondamentale, che da Omero arriva fino al secolo scorso e poi svapora un po’: la freccia come allegoria del contagio, dell’epidemia. Un umanità che ignorava l’invisibile, che non conosceva l’esistenza dell’infinitamente piccolo, del batterio, del virus, di fronte al mistero del contagio ricorreva all’immagine della saetta, che un attimo è qua e il momento successivo è là. Già nel primo canto dell’Iliade, se gli Achei muoiono a frotte è perché hanno fatto arrabbiare Apollo Arciere.
St. Sebastian, Osthorst Niels, 2005
Nella Passio Sancti Sebastiani le frecce non sono allegoriche o metaforiche, sono frecce e basta: e tuttavia saranno sufficienti a rendere Sebastiano il santo da invocare contro i bubboni della peste, almeno finché a Trecento inoltrato non arriverà San Rocco a dargli una mano. I secoli passano, ma le epidemie si rinnovano, finché a fine Novecento Sebastiano si ritrova in piena emergenza AIDS: vedi come tutto si tiene? È anche patrono degli arcieri, dei volontari delle pubbliche assistenze e dei vigili urbani, il che può creare un problema di conflitto di interessi nel caso non raro di un vigile che ferma un trans.
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Come i funghi

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(2002-2012)

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La terra delle metafore

Magari ci sono altri Paesi là fuori - almeno io voglio sperare che ci siano - Paesi qualsiasi, anormali o più semplicemente imperfetti, dove tra tante navi che ogni giorno tornano a un porto senza intoppi, ce n'è una ogni tanto che cola a picco in circostanze non chiare, lentamente: così che c'è tutto il tempo per i cronisti di accorrere sul posto, o fare ricerche serie sui precedenti della compagnia, degli ufficiali, se la nave aveva avuto altri incidenti in passato eccetera. Intanto i soccorsi procedono, si contano le vittime, le circostanze si chiariscono sempre più, si fa un processo, i quotidiani ne parlano. Magari qualcuno decide di schierarsi contro il comandante, appoggiando le tesi di chi ritiene il suo atteggiamento criminale; altri invece (anche solo per cercare di dire qualcosa di diverso, che è un impulso istintivo del commentatore) si domanderanno se non sia il caso di allargare il quadro, e magari troveranno storie collaterali, che arricchiranno effettivamente la conoscenza collettiva dei fatti. Io credo, voglio credere, che in altri Paesi funzioni davvero così. Ma non nel mio, che si chiama Severgninia.

In questo Paese, se una nave cola a picco, per le prime dodici ore i cronisti non si preoccupano troppo di documentare la cosa: tanto c'è twitter, e per i telegiornali c'è youtube con tutti i filmati di repertorio che vuoi, puoi anche mandare un naufragio di qualche anno fa, nessuno farà caso alla differenza. Nel frattempo le nostre penne da prima pagina non è che stiano a giocare al solitario, anche se da fuori sembrerebbe così: in realtà stanno elaborando. Fuori c'è una nave che sprofonda, sì, un equipaggio che cerca di salvare i passeggeri, sì, e sarebbe anche interessante parlarne, se al pubblico interessasse questo, ma al pubblico non interessa questo, bensì, ci credereste? le metafore. I lettori di giornali nel mio Paese ne vanno matti, si può dire che li comprino esclusivamente per le metafore, e così, capite, i giornalisti sono costretti a dargliene. Loro magari vorrebbero parlare della nave che affonda, ma riescono a metterla in prima pagina solo se precisano che è una metafora del Paese incagliato e alla deriva. Che ci volete fare, a Severgninia è così. Non erano nemmeno finiti i soccorsi, e già si leggevano colonnine sulla metafora del Paese incagliato e alla deriva. Evidentemente ci interessano, sennò non ce le scriverebbero. D'altro canto, una metafora così delicata, così sofisticata, quando ti si ripresenta. Ehi, la sapete la novità? Il nostro Paese è incagliato e alla deriva.

(Ma parla per te, @coglione)
C'è un comandante che, da quel che abbiamo visto e sentito, ha dato prova di un atteggiamento irresponsabile e quasi criminale. Magari domani emergeranno prove che lo scagioneranno, lo riabiliteranno, magari si scoprirà che con la sua manovra ha salvato migliaia di persone, non lo so. Non me ne intendo. In altri Paesi parleremmo di lui, litigheremmo su di lui, per giorni e giorni. Non a Severgninia. A Severgninia riusciamo a parlare di lui per pochi secondi, poi diventa immediatamente qualcos'altro. Una metafora (e ti pareva). Dell'Italia e degli italiani - pardon, della Severgninia e dei severgniniani. Ha fatto una manovra pericolosa? Perché noi severgniniani siamo fatti così, chi di noi non è mai stato tentato di passare vicino agli scogli mentre manovra una nave da crociera. Ha minimizzato il rischio e il disastro? Tipico di noi severgniniani, avanti, confessate: stamattina il termometro segnava meno uno e siete partiti senza catene, tali e quali il comandante. Lui scappa dalla nave che affonda, noi ci diamo malati per non andare a trovare la suocera, una faccia una razza. Gramellini si guarda allo specchio e vede il comandante, ecco perché è interessante il comandante: perché ci aiuta a cogliere qualche sfaccettatura del carattere di Gramellini. Se ce l'abbiamo con lui è soltanto perché ce l'abbiamo con noi stessi. O pensavate che ce l'avessimo con lui perché affonda le navi e scappa? No, macché. Ce l'abbiamo solo con noi stessi, noi severgniniani siamo fatti così. Viviamo nel nostro ombelico e ci lamentiamo della lanugine tutto il tempo.

Avete parlato del Titanic, per inciso complimenti, non è da tutti saper pescare riferimenti storici così originali. Ma appunto, quando sprofondò il Titanic, che voi sappiate i giornali sulle due sponde dell'Atlantico si riempirono di elzeviri sul carattere sfrontato e improvvido degli anglosassoni? Sarebbe valsa la pena di scriverli? Sarebbe valsa la pena di leggerli?

Viene divulgata una telefonata tra il comandante e la capitaneria di porto. Sarebbe molto interessante anche se riguardasse un incidente della marina mercantile, ma in realtà ormai si è capito che parla di noi, la capitaneria di porto è nostro padre, o Mario Monti, o il nostro superego, o le tre cose insieme, mentre invece il comandante è Berlusconi, ma è anche un po' tutti noi, che manovriamo navi da crociera come quando facevamo le penne in motorino, che ci vuoi fare, cambiarci è inutile, lo dice anche la pubblicità della schiuma da barba.

Siamo severgniniani. Tutto quello che succede, ha senso soltanto se è il primo termine di una metafora di cui noi siamo il secondo. Tutto è interessante, a patto che parli di noi, della nostra storia e dei nostri difetti che sono così tanti che le metafore non ci bastano mai - ci vogliono più alluvioni, più terremoti, più naufragi, più dirette di Mentana.

A me poi Severgnini sta mediamente simpatico, e onestamente non so neanche cos'abbia scritto sulla tragedia in questione. Non ce l'ho con lui, diciamo che me ne basterebbe uno solo, ecco. E un altro migliaio sui blog, dove non danno fastidio, per esempio adesso sto severgninizzando al quadrato, ma mica mi pagano. Quello che mi atterrisce, quello che mi atterra proprio, è il severgninismo fatto sistema, la riduzione di ogni evento a metafora per cui se ti capita di affondare una nave non è colpa tua, ma di tutto un popolo, una cultura, una storia che ti hanno portato a manovrare vicino agli scogli, povero capro espiatorio di tutti gli italiani che la mattina non allacciano le cinture. Ecco, secondo me altrove non è così. Spero non sia così. Voglio crederci, che non tutto il mondo è Severgninia.
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Di anacoreti e porci

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Oggi è Sant'Antonio non-di-Padova, l'eremita, che viveva nel deserto ed è diventato patrono degli animali di cortile, ma anche un po' del surrealismo.


E siccome su di lui ho già preso topiche clamorose, sul Post è intervenuta l'esperta mondiale. Mica un blog di cani e porci, è il caso di dire.

17 gennaio – Sant’Antonio d’Egitto, eremita e abate (250-357).
1946, Dalì è tentato di fondare Métal Hurlant con 30 anni di anticipo, ma resiste.
La prima tentazione, con Sant’Antonio, è lasciar perdere. Non è uno di quei santi da due cartelle e via, Antonio è qualcosa di immenso, non sai neanche da che parte prenderlo. L’anacoretismo. Gustave Flaubert. Salvador Dalì. L’herpes zoster. Viene davvero voglia di far finta di niente e pescare qualche altro santo poco impegnativo, per esempio Santa Neosnadia vergine, lo sapete che il 17 gennaio è anche la festa di Santa Neosnadia vergine? Scommetto di no, è una santa moderatamente venerata nel Poitou-Charentes, la quale
non ha lasciato della sua vita, conclusasi nel sec. V, altra traccia che la reputazione di una grande virtù e di una grande umiltà.
La patrona della noia, insomma. Sant’Antonio invece viveva in un deserto popolatissimo di demoni che non sempre apparivano in forma di generose donne nude, magari: a volte erano goblin capricciosi che lo sorprendevano in massa in una buca e lo randellavano a ripetizione, con Dio che dall’alto sta a guardare e interviene col raggio laser solo all’ultimo momento, “volevo prima vedere come te la cavavi”.
Martin Schongauer (1550 ca.). Questo deserto è un vero inferno.
Ecco, si potrebbe trattare Sant’Antonio come il protagonista di un action movie – come in quella leggenda medievale in cui irrompe all’inferno col suo maialino, compagno di mille avventure: mentre quest’ultimo distrae i demoni coi suoi grugniti, il Santo brandisce la sua mazza a forma di Tau a destra e a manca liberando un po’ di dannati. Sì. Ma a proposito del maiale. Quand’è che si sono incontrati? Un anacoreta egiziano del terzo secolo e un pacioso suino da cortile, chi è stato a presentarli?
Ne approfitto per fare un atto di contrizione: qualche tempo fa ho scritto una cazzata. Sì, mi rendo conto, non è questa gran notizia. Ma è una cazzata che più di altre grida vendetta, perché mina alle fondamenta la mia già traballante reputazione di agiografo. In novembre,parlando di Cecilia, ho accennato en passant al maialino di Sant’Antonio, affermando come “nei vecchi dipinti” raffigurasse “il demonio tentatore nel deserto”. Ecco. Era una cazzata, che chissà da chi avevo sentito, chissà quante volte avevo già ripetuto a scolaresche ignare di trovarsi davanti a un cialtrone. Ma siccome stavolta l’ho scritta sul Post, non è che se n’è accorto un lettore qualunque, no: mi ha scritto direttamente la massima autorità su Sant’Antonio e i suini – direttamente dal Warburg Institute dell’Università di Londra, Laura Fenelli, che ringrazio e saluto, visto che poteva semplicemente dirmi: “leggiti il mio libro costato anni di ricerche, cialtrone”, e invece no, è stata anche così gentile da raccontarmi la storia: (continua…)
È tipo l’XI secolo, Antonio è morto da mò, è già stato portato dall’Egitto a Costantinopoli, ma anche lì tira una brutta aria, sostanzialmente l’anacoreta non se lo caga più nessuno. Arriva un cavaliere francese (mercenario?), combatte per l’imperatore, è così  valoroso che l’imperatore gli dice: ah ma ti regalo quello che vuoi da portare in patria. Lui ovviamente non sceglie le 86 figlie vergini, ma la cassa con le ossa di Sant’Antonio e la porta in Francia, nel Delfinato. Se la tiene un po’ per sé, stile Palladio in battaglia, finché il papa non se ne accorge e lo cazzia, e lui allora regala ai benedettini di un convento vicino ad Arles (St. Pierre de Montmajour) delle terre vicino a Vienne (Lione). Questi ci costruiscono una chiesa che ha come attrazione principale le reliquie dell’anacoreta. Solo che, sfiga vuole – o fortuna, dipende – che proprio in quella regione, proprio in quegli anni tutti si ammalino di una cosa che loro chiamavano “fuoco sacro” e noi oggi ergotismo, un’intossicazione alimentare che si prende mangiando la segale parassitata da un fungo. Alla ricerca di un qualsiasi rimedio, gli abitanti della zona cominciano ad accorrere in massa nel luogo dove sono arrivate le nuove reliquie (la località inizia a farsi chiamare, appunto, st. Antoine). Arrivano anche dei laici intraprendenti che dicono: beh, tutti ‘sti malati, tutti ‘sti pellegrini, ospitiamoli, no?
Ecco, questi sono gli antoniani. All’inizio son nobili laici, ma nel 1297 Bonifacio VIII, stufo di casini, li fa diventare un ordine di canonici regolari. I casini gli antoniani li hanno soprattutto con i benedettini che conservano il corpo, più che altro per questioni di soldi: ti pare che gli antoniani si sbattono in mille per i malati di fuoco sacro (ormai fuoco di Sant’Antonio) e poi le elemosine vanno ai benedettini che hanno il corpo? Eh, no. Quindi non solo diventano un ordine, ma si pigliano anche il corpo. Gli antoniani si mantengono in due modi. Sono mendicanti, anzi questori, e… allevano maiali. Ovunque. In città soprattutto, li mandano a giro con la campanella (altro attributo antoniano) e poi li danno da mangiare agli ammalati negli ospedali. Soprattutto fanno un balsamo per curare il fuoco di Sant’Antonio con il grasso di maiale. La cosa va avanti fino al Cinquecento, poi per gli antoniani comincia un periodo di crisi nera: riforma, problemi di soldi, da qualche parte spunta pure un altro corpo di Sant’Antonio, i comuni impediscono la circolazione di bestiacce per le strade, e soprattutto un gruppo di medici capisce da dove viene il fuoco sacro, e la gente smette di ammalarsi (quello che oggi si chiama fuoco di sant’antonio è un’altra malattia, con sintomi simili). In tutta questa crisi (fino all’autosoppressione dell’ordine), tutti sembrano scordarsi che gli antoniani allevano maiali, e quindi tutti, dal Seicento in poi, interpretano il maialino come simbolo del demonio. Almeno fino al novembre scorso. Ora la verità storica è ristabilita, anche sul Post. Grazie ancora alla professoressa Fenelli.
Domenico Morelli, 1878. La mondana seminuda è tentata in sogno dall'aitante anacoreta.
Io a questo punto sarei tentato di chiudere qui, con Sant’Antonio è meglio non esagerare. Come ben sapeva Flaubert, che… Ecco, potrei concludere raccontando la storia del giovane Flaubert, che quando incontra la figura dell’eremita capisce di aver trovato il personaggio giusto per evadere dalle gabbie del tetro realismo balzacchiano: un anacoreta immerso in un deserto di visioni! C’è tutto lo spazio per spingere a mille l’acceleratore dell’estetismo orientaleggiante, divagare su positivismo e misticismo, e magari scoprire il surrealismo con quei settant’anni di anticipo.  Flaubert decide di scriverci il suo capolavoro, come succede effettivamente a molti scrittori sotto i trent’anni, che si siedono a tavolino e si dicono: ora scrivo il mio capolavoro. Lo termina entro il settembre 1849, e subito invita in campagna i suoi amici più fidati, Bouilhet e Du Camp: non vede l’ora di leggerglielo. Tutto. Una lettura integrale di quattro giorni, che deve avere spossato i due amici più di quarant’anni nel deserto, più di quaranta diavoli che ti bastonano in una cava. Gustave tiene molto al giudizio dei due, ma vuole che prima apprezzino il poema in versione integrale, senza interruzioni.
Félicien Rops, 1878. Niente fatwa, ormai è in prescrizione.
Arriva il quarto giorno. Finalmente Gustave pronuncia la sillaba tanto attesa: “Fin”. “A noi tre adesso”, soggiunge: “ditemi con franchezza che ne pensate”. Risponde il timido Bouilhet: “Nous pensons qu’il faut jeter cela au feu et jamais n’en parler“, (Pensiamo che bisognerebbe bruciare questa roba e non parlarne più). Flaubert fa un salto e getta un grido. Ma dopo mille proteste deve arrendersi: il capolavoro non finisce nel camino ma in un cassetto; gli amici gli propongono di ripartire da qualcosa di meno ambizioso, magari un fatto di cronaca in provincia, più noioso è meglio è, niente più Antoni, una Neosnadia qualunque. Quando lessi questa storia, da ragazzino, decisi che Gustave Flaubert sarebbe stato il mio scrittore preferito. Non conoscevo ancora né Emma Bovary né Frédéric Moureau, ma mi bastava immaginare questo giovane scrittore che fa un salto e lancia un grido per volergli bene. Poi l’ho tradito, come tutti gli amori di ragazzo. La Tentazione di Sant’Antonio, per esempio, non l’ho mai letto, non credo che sarei in grado. Davvero, il deserto non è per tutti.
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Don't feed the Pannella

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Allora, di quelli che sputano addosso a Marco Pannella, di persona o su facebook, o sul sito dei Radicali, o dovunque, sappiamo già cosa pensare: vergogna, villani, un uomo anziano, dopotutto ci ha le sue idee, senza di lui avremmo divorziato e abortito ugualmente ma ci saremmo divertiti meno eccetera.



Ma cosa pensare invece di Marco Pannella che va in un corteo apposta per farsi sputare, e poi carica il video su internet? Dei suoi seguaci che passano ore a collezionare i commenti infamanti sul suo profilo facebook e poi li recitano, ci montano un video, scelgono il Bolero di Ravel come sottofondo manco fosse la vhs di un bukkake, lo caricano su youtube, ne approfittano per una riflessione su internet e la democrazia? Che fenomeno è esattamente? Secondo me è un fenomeno interessante. La politica come prosecuzione del trolling con altri mezzi. Pannella e il Partito dei Troll si legge e si commenta sull'Unita.it (ma diciamo che si commenta anche qua sotto, vah. H1t#109).

L’ondata di messaggi volgari e violenti che giovedì hanno inondato il profilo facebook di Marco Pannella, o il sito dei Radicali Italiani, è tutto tranne che uno tsunami inaspettato. Certo, è il risultato di una combinazione micidiale: nelle stesse ore in cui i cinque seguaci pannelliani votavano contro la carcerazione dell’onorevole Cosentino (decisione assolutamente prevedibile e coerente con la loro storia), la Corte costituzionale bocciava il referendum contro la legge elettorale. Come dire: non solo abbiamo un parlamento corrotto e inetto, incapace di distinguere tra infiltrazioni camorristiche e fumus persecutionis: ma siamo condannati a tenercelo com’è, sapendo che anche il prossimo che eleggeremo entro il 2013 sarà altrettanto imbottito di incapaci che non devono rendere conto a nessuno, inseriti in lista dai leader di partito per motivi e dinamiche che a noi poveri elettori spesso sfuggono.
Di queste dinamiche i Radicali sono un esempio classico. Se tanti elettori di sinistra mostrano di avercela con loro, in modi che spesso su internet oltrepassano i limiti dell’educazione e della decenza, è anche perché nel 2008 li hanno votati, e tuttora si domandano il perché. Non fu certo una scelta condivisa e partecipata, bensì l’esito di una trattativa tra due segreterie, quella dei radicali e quella del loft, al termine della quale i radicali accettarono di sostenere il PD in cambio di nove posti sicuri in lista (più un po’ di rimborsi elettorali). Veltroni, il segretario di allora, che giovedì su twitter si stracciava le vesti “per il voto su Cosentino“, accettò: già ai tempi alcuni blogger incazzosi si domandavano che senso avesse imbarcare un partito che rifiutava di sciogliersi nel PD e rivendicava una storia diversa, i cui esponenti avevano già dato diverse prove di inaffidabilità. Ma nel loft avevano deciso che i radicali valevano tot seggi in Parlamento, ed ebbero tot seggi in Parlamento. Quello che non ebbero mai fu la simpatia degli elettori PD a cui furono imposti. Questa simpatia non è che abbiano fatto molto per conquistarla, anche in seguito. D’altro canto che bisogno c’è di piacere ai propri elettori, se i seggi sicuri te li garantisce già un accordo privato col Veltroni di turno?
Con questo non intendo giustificare le minacce di morte e le perle scatologiche che internet ha prontamente recapitato agli indirizzi dei radicali. Mi sembrano tristemente prevedibili, un effetto collaterale del Porcellum. Quel che invece è interessante è l’atteggiamento assunto da Pannella e compagnia in questi e in altri casi. Perché un sito si può sempre ripulire: i commenti esagitati e violenti si possono sempre moderare e cancellare, o bloccare nel momento in cui infuriano più numerosi. Non è un lavoraccio, e ai radicali il tempo e i fondi non dovrebbero mancare. Quel che invece hanno fatto è prendere gli insulti più violenti, farli leggere a un paio di oratori inespressivi con notevole effetto straniante, confezionarci un video e caricarlo su youtube. Ecco, questo sì che è un lavoraccio: però evidentemente dal loro punto di vista ne valeva la pena. Che a nessuno sfuggisse la “valanga di insulti” rovesciata sui poveri radicali.
Tornano in mente alcune uscite dell’anziano patriarca. Quando poco più di un anno fa si mise a flirtare apertamente col Berlusconi azzoppato dal Bunga Bunga e dalla fuoriuscita di Futuro e Libertà: il Pannella che avvisò Luca Telese di essere pronto a fare l‘“escort” di Berlusconi, anche se almeno in quel caso Berlusconi evidentemente declinò. Lo stesso Pannella che in autunno si presentò a un corteo antiberlusconiano, salvo che i suoi deputati avevano appena ostacolato in Parlamento un tentativo del PD di sfiduciare il governo. Ci voleva insomma una bella faccia tosta a venire lì, e bisogna riconoscere a Pannella che non gli è mai mancata. Sappiamo tutti come andò: gli sputarono in faccia. Lo sappiamo anche perché Pannella fece tutto il possibile per farsi sputare in faccia, e non mancò di farsi inquadrare mentre veniva bersagliato, e di esibire poi il filmato. Chi in quell’occasione si indignò per come veniva trattato un anziano signore, non colse del tutto il punto: l’anziano signore è e rimane un grandissimo professionista della provocazione.
La sensazione è che i radicali, su queste manifestazioni incivili di odio e intolleranza, ci stiano un po’ campando. Su quello, e sui cospicui fondi stanziati ancora una volta per la loro emittente radio, una presenza che Internet rende ogni anno più anacronistica. Però su Internet, si sa, c’è l’odio, ci sono quelli che ti infamano, ti linciano, ti sputano… nulla che non succedesse già ai tempi in cui Radio Radicale apriva i microfoni al pubblico, per la verità. Del resto chiunque viva e lavori un po’ su internet, ne conosce una delle più elementari norme di comportamento: Don’t Feed The Troll, non dare corda al commentatore violento, incivile e vigliacco. Proprio quel che invece Pannella & co. sembrano voler fare da qualche anno in qua, con comportamenti e messaggi che gridano a gran voce ‘sputateci addosso’: una paziente e deliberata opera di allevamento di troll. A che scopo? Beh, i troll tornano utili ogni volta che si serve dimostrare di essere una minoranza minacciata, e non una mini-lobby foraggiata e super-rappresentata in Parlamento.
Poi, dal momento che entro il 2013 si voterà con questa legge elettorale, e che i vertici attuali del PD non danno l’idea di voler comprare lo stesso pacco che si prese Veltroni… in un qualche modo bisogna proporsi alla concorrenza: senza però dare troppo l’aria di offrirsi al migliore offerente. Il giorno che Pannella e compagnia dovessero spiegare l’ennesimo, ormai prevedibile voltafaccia, la folla di linciatori anonimi di questi giorni tornerebbe loro molto utile: un modo per dire ‘Vedete, non siamo noi che ce ne siamo andati, erano loro che non ci sopportavano’. Vabbe’, diciamo che questa è solo una mia teoria.http://leonardo.blogspot.com
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Certi gatti sono più bigi di altri

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Ma voi mettetevi nelle squame del direttore del Giornale, che finalmente aveva trovato la campagna giusta, e probabilmente pregustava di farci prime pagine su prime pagine, Malinconico Dimissioni, Malinconico Vergogna!, Malinconico ancora lì? Gli ozi di Malinconico... più tutti i più vieti giochi di parole che il triste cognome può suggerire al fantasioso titolista, insomma immaginatevi l'eccitazione, l'entusiasmo, il brio col quale si stava apprestando a scrivere per cinquanta giorni in cinquanta diversi modi "chi non ha mai peccato scagli la prima pietra"...


...e invece al primo titolo, Malinconico che fa? Si dimette davvero. E adesso? Ci si ributta su Fini, ovviamente. Le dimissioni che spiazzano Sallusti (e Ferrara) si leggono sull'Unita.it e si commentano là (H1t#108).

Tutta la mia solidarietà allo sfortunato direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, che probabilmente già pregustava una lunga campagna per chiedere le dimissioni del sottosegretario Malinconico: gli è andata male, il sottosegretario si è dimesso subito. Ora toccherà inventarsi qualcos’altro per dimostrare che tutti sono corrotti, tutti sono inquisibili, eccetera. Mal che vada ci si può ributtare sui vecchi classici, per esempio le dimissioni di Gianfranco Fini – è da un po’ che non si sente parlare del suo interessantissimo appartamento a Montecarlo (NB: scherzo. Sul famoso appartamento monegasco Feltri e Sallusti ci fecero prime pagine per un mese, nell’autunno 2010. Bei tempi. Belle notti. Tutti i gatti erano bigi, tutti erano inquisibili, nessuno si dimetteva…)
Un po’ di solidarietà anche per lo sfortunato opinionista di Rai1, Giuliano Ferrara, che ieri sera è andato in onda in uno stato un po’ più confusionale del solito, perlomeno mi è parso così. Dopo averci riassunto l’affaire Malinconico per sommi capi, ci ha spiegato che i giornalisti dovrebbero smetterla di cercare storie del genere e di gioire, addirittura, quando le trovano, perché nessuno è mondo dal peccato(mi sembra che abbia detto proprio detto così), tutti possono fare degli errori, anche il presidente della Repubblica Federale Tedesca ne ha fatti, eccetera eccetera, ci vediamo domani, ah no scusate domani c’è la Champions, boh. Forse Ferrara è semplicemente nei postumi dell’Epifania, la maledetta festa che spazza via le altre e ci lascia soli davanti a un terribile anno nuovo.
O forse è rimasto anche lui spiazzato da questo governo, che fa cose incredibili. Questi sottosegretari, per esempio, che si dimettono per cosucce da nulla, vacanze non pagate, appena i giornalisti se ne accorgono… E a proposito, maledetti giornalisti, ma perché indagano? E addirittura, quando qualcosa salta fuori, gioiscono? Ferrara non se ne capacita, evidentemente secondo lui il giornalismo dovrebbe servire a qualcos’altro. Probabilmente a spiegarci che tutti pecchiamo, come Berlusconi, e quindi non dobbiamo attentarci a scagliare la prima pietra contro il prossimo, che in nove dei dieci casi che interessano a Ferrara è Berlusconi. Ecco, magari ieri pomeriggio Ferrara aveva già pronta una predica di questo tenore. Anche Malinconico si faceva offrire le vacanze, tutti si fanno offrire le vacanze, tutti sono corrotti, anche voi, anche io, e il presidente della Germania Federale, e quindi non prendetevela (con Berlusconi). Poi però Malinconico si è dimesso – e a Ferrara è toccato cambiare la forma della predica in fretta e furia. Non la sostanza, che rimane la stessa: siamo tutti peccatori. Difficile dargli torto. Abbiamo tutti qualcosa negli occhi: chi travi, chi pagliuzze, nessuno ha la vista del tutto sgombra.
Ma non siamo nemmeno del tutto ciechi; perlomeno, la differenza tra l’ultimo governo Berlusconi e quello guidato da Monti la notiamo. Magari non è il governo che vorremmo o voteremmo, ma è un governo decente. Se emergono storie non chiare su di un sottosegretario, quello se ne va senza troppe manfrine. Com’è giusto che sia. Perché forse è vero, di notte tutti i gatti sono bigi. Ma alcuni sono molto più bigi degli altri, più della notte stessa; forse senza di loro tra i piedi si comincerebbe a vedere un po’ d’alba.http://leonardo.blogspot.com
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Né tre, né re, né magi

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Non solo, ma lo vedete questo ragazzo qui sotto, e questo cane? Ecco, non esistono. Non sono mai esistiti.
Revisionismo storico, sul Post! Oro incenso e kryptonite per tutti! (Tranne per i giuslavoristi, per loro ho solo carbone, mi spiace).

6 gennaio – Epifania e Adorazione dei Magi
Guarda che ori, che broccati, che levrieri... Gentile da Fabriano è un po' tamarro, diciamolo.
Non erano necessariamente tre (Matteo non dice mai il numero: lo si desume dai tre doni, oro incenso e mirra). Non erano re, anche questo l’evangelista non lo scrive; e la situazione geopolitica del primo secolo ci è abbastanza nota da permetterci di escludere l’esistenza di re itineranti, con molto tempo da perdere dietro a stelle e profezie. Non erano neanche “magi”, perché se ci pensate bene la parola in italiano non ha molto senso, è stata coniata apposta per loro: diconsi magi i tre re venuti ad adorare Gesù. Matteo in greco scrive magoi, termine imbarazzante, perché ai cristiani i maghi non piacciono: sin dall’inizio li percepiscono come i loro più insidiosi concorrenti (a partire da quelSimon Mago che negli apocrifi tormenta Simon Pietro come un gemello cattivo). “Magoi” erano chiamati dai greci i sacerdoti zoroastriani, il che lascia pensare che i non-re provenissero dalla Persia, oggi Iran. Non seguivano una cometa, perlomeno non necessariamente: Matteo si limita a parlare di una stella (“vidimus enim stellam“, 2,2). Non arrivarono a una grotta, né a una capanna: Matteo scrive che trovarono il bambino entrando in una “casa” (“intrantes domum invenerunt puerum“, 2,11). Insomma se Matteo vedesse un presepe moderno, con la cometa in cima alla grotta e i tre re cammellati, non riconoscerebbe la scena. Anche a causa di tutti quei pastori nei dintorni, di cui nel suo Vangelo ovviamente non v’è minima traccia. Che cosa è successo?
Ci sono state delle contaminazioni, evidentemente. La prima è col Vangelo di Luca (posteriore?), che dipinge una scena molto più familiare: c’è il censimento “di tutta la terra”, c’è almeno un albergo tutto esaurito, la mangiatoia, i pastori, gli angeli cantano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli”… ecco, siamo già in pieno presepe. Tranne un piccolo dettaglio: i magi. Luca non ne parla, e sì che dei tre sinottici è quello che sembra aver fatto più indagini. Suona quasi come una smentita. Luca, poi, lo abbiamo visto, è il più liberal degli evangelisti, quello di “beati i poveri” (non “in ispirito”: beati i poveri e basta): il suo Gesù deve per forza nascere in un contesto di disagio sociale ed essere adorato dai pastori: si capisce che questi maghi venuti dal nulla che portano doni preziosi non rientrano nel suo quadro. Si capisce altresì che Luca non è un vero povero, perché ai poveri i re bardati d’oro venuti da lontano non dispiacciono affatto, sono i punti luci del presepe. Alla fine i natali di Matteo e di Luca si amalgameranno, assorbendo altri dettagli dalla fervida fantasia degli apocrifi: così scopriremo per esempio che i magi erano re – giusto per realizzare un altro paio di profezie veterotestamentarie – che si chiamavano Gaspare Melchiorre e Baldassarre, che ognuno rappresenta un continente diverso, eccetera. Gli esegeti arricchiranno il brodo spiegandoci che l’oro allude alla regalità (Gesù Cristo è Re, non scordiamolo), l’incenso al sacerdozio, mentre la mirra, questa benedetta mirra che assomiglia a uno di quei regali di Natale che nessuno vorrebbe, i calzini di lana, la cravatta à pois… la mirra rappresenta effettivamente il ruolo più difficile, di vittima sacrificale: l’olio di mirra era adoperato per l’unzione sacerdotale, ma anche per l’imbalsamazione. Ancora oggi i magi fanno discutere astronomi e fantastorici: sulla questione della “stella” si sono riempite biblioteche di congetture (era una cometa o una supernova? O un banale allineamento planetario?) Alla fine insomma la nostra concezione dei “re magi” dipende molto più dal folklore del presepe che dalla lettera del Vangelo. La cosa interessante è che il folklore non si è sostituito alla lettera. Vi si è per così dire incrostato, ma chiunque sappia leggere può rimuovere gli addobbi posticci e ritrovare il testo di Matteo. In altre religioni non è successo così. Miti e racconti si sono contaminati e mescolati per secoli, prima di arrivare alla forma che conosciamo (e che magari non è nemmeno la definitiva). (Continua…)
Nella sua Vita di Maometto, Muhammad Ibn Garir al-Tabari (IX secolo) racconta più di una storia sulla tormentata infanzia del profeta. Un giorno, al pascolo, il suo fratello di latte vede tre uomini vestiti di bianco che aprono il ventre del piccolo Maometto e ne svuotano il contenuto. Il bambino torna a casa a dare l’allarme, ma quando gli adulti accorrono, trovano il bambino vivo, anche se il suo aspetto “era alterato”.
Lo presero, lo baciarono sulla testa e sugli occhi e gli chiesero: “Maometto, cosa ti è accaduto?” Egli rispose: “Tre uomini, con un catino e una bacinella d’oro, sono venuti e mi hanno aperto il ventre, hanno preso tutte le mie viscere e le hanno messe in quel catino; poi me le hanno rimesse in corpo dicendomi: “Tu sei nato puro e ora sei più puro”. Poi uno di loro ha immerso la mano nel mio corpo, ne ha strappato il cuore, lo ha tagliato e ne ha levato il sangue nero, dicendo: “È la parte di Satana che c’è in tutti gli uomini, ma io te l’ho tolta dal petto”. Poi mi ha rimesso il cuore a posto. Uno di loro aveva un anello, col quale mi ha marchiato. Il terzo ha immerso la mano nel mio corpo e tutto è tornato in ordine”.
Qui ci starebbe una bella immagine del giovane Maometto, ma curiosamente non sono riuscito a trovarne.
Al-Tabari è un biografo molto generoso: qualsiasi storia o storiella sul profeta è per lui degna di essere raccolta. Come facciamo a capire che la leggenda dei “tre uomini” è una sovrapposizione di molto posteriore ai racconti più antichi sulla vita di Maometto? Per prima cosa, è inutile. lo dicono anche i tre maghi-macellai: “tu sei nato puro”. A che pro allora tutto questo sviscerare, marchiare, sigillare? Sono tutti particolari ridondanti, tipici delle fiabe. E, come le fiabe, somiglia in qualche modo a tutte le altre: altrove al-Tabari mostra di conoscere la leggenda dei magi che visitarono Gesù, e che nell’800 sono già stati fissati nel numero di tre. Come nel vangelo di Matteo, siamo davanti a una precoce epifania, o manifestazione del divino, che però confligge lievemente con l’idea che Maometto riceva la sua rivelazione soltanto a quarant’anni. Del resto anche tra i cristiani non c’è accordo sulla prima epifania della divinità di Gesù: gli ortodossi preferiscono partire dal battesimo nel Giordano, quando si sente distintamente una voce dal cielo affermare “tu sei il mio figlio prediletto”. Il vangelo più breve (il più antico?), Marco, comincia appunto da lì. Tutto quello che a Gesù è successo prima potrebbe anche essere stato aggiunto dopo.
In generale, i racconti sull’infanzia degli eroi e dei profeti sono sempre posteriori al mito portante. Nascono come per riempire un vuoto: cosa è successo al Profeta nei suoi primi quarant’anni, al Messia nei suoi primi trenta? Possibile che il divino non si fosse già manifestato in lui? Così è tutto un fiorire di miracoli grandi e piccoli, ma spesso anche minimi, come in quell’apocrifo in cui il giovane Gesù rimedia coi suoi miracoli agli errori di falegnameria di mastro San Giuseppe. Gli autori di questi racconti e raccontini sono ovviamente anonimi, ma è lecito supporre che molti di loro siano donne, e che stiano raccontando fiabe davanti a un focolare, a bambini troppo curiosi: com’era Gesù (o Maometto) quando era piccolo come me? Non sembra un caso che in primo piano si trovino spesso personaggi femminili, come Maria nel vangelo di Luca, o la balia Halimah che salva il piccolo Maometto dalle grinfie di un altro mago malvagio. Quando poi gli eroi e i profeti diventano grandi, le donne passano in secondo piano.
Diventati adulti, poi, molti uomini mostrano di non gradire questo prolificare di racconti e favolette sull’infanzia dei personaggi importanti. Il più delle volte sono inutili: distraggono dal racconto fondamentale, la predicazione dell’adulto agli adulti. Persino gli autori di Superman hanno più volte cercato di disfarsi di Superboy (e del cane Krypto), senza successo: le nuove generazioni continuano a chiedere dettagli sull’infanzia degli eroi e degli Dei, e finché non gliele inventi non si addormentano.
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Lettera a un vecchio Ichino

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Insomma capita che la mia letterina (ina ina) al giovane ichino con la i minuscola abbia fatto il botto sull'Unità. Capita che l'abbia letta anche il professore Ichino con la I maiuscola, che a differenza di Renzi(*) l'Unità la legge ancora. Capita che non vi si sia riconosciuto - e giustamente. E così mi ha risposto, il giuslavorista. Perché di Ichino si possono dire cose brutte, ma se lo tirano in ballo lui risponde. Risponde anche ai bruchi, ai vermi e a me.


E allora io gli ho chiesto scusa. Più o meno. Sull'Unità. (H1t#107). E si commenta là.

Devo le mie scuse al professor Ichino per averlo coinvolto in una polemica superficiale, che in realtà non aveva come obiettivo lui. L’ambiguità era palese sin dal titolo: la mia “Lettera a un giovane ichino”, con la i minuscola, non era indirizzata a lui, ma a un certo tipo di commentatori in cui mi capita spesso di imbattermi su blog e social network, che usano il professore un po’ come bandiera per uno scontro generazionale con la “casta” dei protetti dall’articolo 18. In realtà il titolo originale avrebbe dovuto essere “lettera a un giovane ichiniano”, ma suonava proprio male, o “ichinodulo”, ma non lo avrebbe letto nessuno: e così mi sono permesso il dubbio omaggio di fare del cognome del professore un nome comune. Non mi aspettavo che l’Ichino, con la I mi replicasse sul suo blog, ma questo è un errore mio: continuo a pensare di scrivere per un pubblico di poche centinaia di persone. Invece il mio post è stato ripreso dall’Unità, sei giorni dopo la pubblicazione, e a quel punto ha fatto veramente il giro di Internet. Il professore ha tutto il diritto a non riconoscersi nel “giovane ichino” di cui parlo, e di respingere la caricatura delle sue idee.
Questo non significa che io non abbia diverse riserve su queste idee, di cui magari un’altra volta scriverò, con maggiore cognizione. Confesso subito però che non si tratta di riserve tecniche – non sono un giuslavorista, e come ho anche scritto in quel pezzetto, ritengo che in linea di massima potrebbe anche aver ragione lui. Quello che mi manca per abbracciare l’ichinismo è una grande dose di ottimismo della volontà, che non manca invece al professore, né a tanti suoi difensori. Me ne sono convinto definitivamente leggendo i commenti di molti “giovani ichini”, che mi assicuravano che la flexsecurity avrebbe aumentato i diritti, aumentato i posti di lavoro, trasformato l’Italia in una grande Danimarca eccetera. Anch’io, quando leggo Ichino con la I, devo ammettere che tutto sembra tornare: soltanto, non ci credo.
Non credo che il modello danese sia alla nostra portata, per una serie di parametri culturali e banalmente geografici su cui magari un’altra volta mi dilungherò; non credo che i sussidi di disoccupazione ridurranno gli sprechi – temo viceversa che molti lavoratori (e imprenditori) sommersi ne profitteranno; non credo, per usare le parole del professore, che ai lavoratori oggi privi di tutele verranno davvero estese “le altre protezioni essenziali, secondo i migliori standard internazionali (maternità/paternità, malattia, ferie retribuite)”: suona molto bene, ma purtroppo non ci credo. Non credo che il progetto del professore sarà realizzato nella sua totalità, come quello del povero Biagi prima di lui. Credo invece, da pessimista qual io sono, che la Confindustria avrà buon gioco a far passare le cose che le interessano (libertà di licenziare, non “per capriccio”, ok, ho esagerato: diciamo che basta affermare che altrove si possono fare affari migliori, come Marchionne a Detroit) cassando quelle che la impegnerebbero, visto che gli impegni nei confronti dei lavoratori i nostri industriali proprio non se li sanno prendere; credo che la flexsecurity sarà usata come una bandiera per togliere altre speranze ai giovani – e quasi soltanto ai giovani (anche se Ichino ha ragione, a livello di pensione qualcosa è stato rosicchiato anche ai cinquanta-sessantenni). Insomma, per dialogare alla pari con lo stimato giuslavorista non mi manca soltanto la dottrina, ma soprattutto la fede.
Nella sua risposta Ichino ribadisce che con la flexsecurity i diritti dell’articolo 18 non verranno eliminati, ma estesi: quando però scrissi il pezzetto (il ventun dicembre) non era di estensione dei diritti che si discuteva tra ministro e sindacati, ma di abolizione dell’articolo 18. La polemica poi rientrò, forse per farci passare almeno le feste tranquilli. Stamattina però ci siamo alzati con Libero che titolava “Più assunti solo se aboliamo l’articolo 18″. E dàgli. Però questo non è Ichino, d’accordo, è Belpietro… poi abbiamo scoperto che il governo pensa di sospendere l’articolo 18 per alcune categorie di neoassunti. Ora il professore ha un bel da dire che sospendendo l’articolo in realtà i diritti non diminuiscono, ma aumentano: probabilmente ha un senso, probabilmente se tutto andasse come vuole lui la cosa funzionerebbe.  È interessante tuttavia che si prenda sempre come punto di partenza (o come titolo in prima pagina) l’abolizione dell’articolo, non l’estensione dei diritti. Magari saremo prevenuti; del resto stiamo ancora aspettando di vedere gli ammortizzatori sociali che sarebbero dovuti seguire alla legge Biagi (e al pacchetto Treu). Certo, se è per questo stiamo ancora aspettando pure l’aumento dei posti di lavoro che Treu e Biagi auspicavano. Forse arriverà tutto assieme con la Fornero-Ichino. Forse. In fondo essere ottimisti non costa nulla e migliora l’appetito. Però poi bisogna anche avere qualcosa da mettere sotto i denti.

Devo infine altre scuse al professor Ichino per quello che lui chiama “il colpo basso finale”: l’aver cioè malignamente insinuato che “lui non lo licenzia nessuno”. Ecco, pare che io sia stato ingiusto, pare che anche il professor Ichino abbia vissuto, nel passato, l’esperienza scioccante (ma anche molto stimolante, non lo nego) del licenziamento. O perlomeno, è convinto di essere stato licenziato dal PCI, che nel 1983 gli fece il grosso torto di non riproporlo alle elezioni. Neanche adesso ha la garanzia che il PD lo ricandidi, dice. Sì, ammetto di avere una visione un po’ limitata, basata sulle mie limitate esperienze. Io per licenziamento intendevo quelle situazioni in cui un boss ti chiama e ti fa firmare una letterina, oppure quando lavori per un anno nello stesso posto tutti i giorni e alla fine dell’anno hai firmato quindici contratti diversi, anzi uguali. Per Ichino, invece, essere licenziati è perdere uno spazio sull’Unità senza “neppure un rigo di commiato” (solidarietà), ed essere prontamente ripresi dal Corriere della Sera. Posso capire che dal suo punto di vista un licenziamento non sia insomma una tragedia. Mi resta il dubbio di quanti giornalisti e pubblicisti che in questi giorni stanno temendo per il loro posto possano davvero sperare in un destino simile, ma è soltanto il solito dannato Pessimismo che parla per me. Mi scuso quindi, ho scritto una cosa cattiva. Mi perdonerà se allo stato attuale faccio tuttora fatica a immaginarmi il Corriere della Sera che lo licenzia, ecco. http://leonardo.blogspot.com
(*) via Soncini.
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San Silvestro non c'era, o dormiva

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A Si', chette serve?
Non è un Papa da veglioni. Non è neanche un Papa da donazioni. Un Papa che indicono il concilio di Nicea e lui manco si presenta. Effettivamente, Silvestro è famoso soprattutto per le cose incredibili che non ha fatto. La grande truffa della Chiesa d'Occidente è sul Post, buona notte (e buon anno).

31 dicembre – San Silvestro, Papa (†335)
“La notte di San Silvestro”. Non so chi abbia cominciato a chiamarla così. Non è un’espressione antica: nel medioevo i giorni cominciavano al tramonto, quindi si trattava piuttosto della notte della Circoncisione di Gesù (primo gennaio). D’altro canto fino al Settecento ognuno festeggiava il capodanno un po’ quando gli pareva, per la gioia delle cancellerie. Non c’era consenso nemmeno tra una città e l’altra: a Venezia l’anno iniziava il primo marzo, perciò dicembre era davvero il decimo mese. A Firenze cominciava il 25 marzo: a Pisa anche, ma c’era un anno di differenza, così, per il piacere di complicarsi la vita. In Francia si cominciava con la Pasqua. Esatto, era una festa mobile, quindi ogni anno aveva un numero di giorni diversi. A Bisanzio, ma anche nel meridione e in Sardegna, si cominciava il primo settembre, che in fondo anche oggi è il capodanno vero, quello senza spumante e con tanta tristezza. Ufficialmente però alla fine ha prevalso lo “stile moderno” – che in realtà adoperavano già i romani nel secondo secolo avanti Cristo, detto anche “della circoncisione”, perché gli ebrei venivano circoncisi nell’ottavo giorno dalla nascita, e quindi a Gesù sarebbe capitato il primo gennaio, appunto. E San Silvestro, in tutto questo?
Niente. Non c’entra niente. Eppure da bambini, a furia di sentire parlare di “veglione di San Silvestro”, finivamo per immaginare uno di quei santi bonaccioni che portano doni nottetempo: un Santa Klaus per adulti, niente regali per i bambini ma un magnum per mamma e papà, e poi danze, ricchi premi et cotillons. Ebbene no, San Silvestro non è quel tipo di Santo. Silvestro Papa è l’ultima persona che invitereste a un veglione, San Silvestro è uno dei santi più opachi del calendario, notevole non per quello che ha fatto (resse la Chiesa di Roma ai tempi di Costantino), ma per quello che non ha fatto. Per esempio non ha indetto il concilio di Arles (314) che condannò lo scisma donatista: ci pensò Costantino. Undici anni più tardi a Nicea si tenne il primo concilio ecumenico della Chiesa universale, che condannò lo scisma ariano, e Silvestro non lo organizzò: ci pensò anche stavolta Costantino. Il papa non trovò nemmeno il tempo di andarci. Insomma appare abbastanza chiaro che all’inizio del quarto secolo il vescovo di Roma era una figura di secondo piano. Più in generale, era Roma che stava perdendo colpi. Era ancora il simbolo dell’impero, da poco si era munita di mura, ma non era più capitale. Non reggeva il dinamismo delle ricche metropoli orientali, Alessandria d’Egitto e Antiochia in Siria. Ma anche i Cesari e gli Augusti d’occidente le preferivano città più prossime ai confini, come Milano o Treviri. Costantino le avrebbe dato il colpo di grazia, fondando Costantinopoli – lui in realtà pensava di chiamarla “Nuova Roma” o qualcosa del genere, non era quel tipo di tiranno che si dedica le città da vivo.
Silvestro è ricordato come un grande confessore: si tenne prudentemente alla larga dalle dispute cristologiche, e tutto lascia capire che accettò senza troppi patemi che Costantino, imperatore non battezzato, gestisse le pratiche conciliari senza di lui. Tutto qui? Tutto qui. Tranne un piccolo dettaglio. Qualche secolo dopo la sua morte, Silvestro diventa famoso come protagonista della più grande patacca della Storia europea (diciamo che se la gioca alla pari con i Protocolli dei Savi di Sion): la Donazione di Costantino, un documento falso scritto probabilmente nel nono secolo, ma attribuito a un cronista-notaio di cinque secoli prima. La Donazione racconta di come Costantino, colpito dalla lebbra (!), si fosse rivolto ai sacerdoti pagani, i quali prontamente gli suggerirono il rimedio: un bel bagno rigenerante nel sangue di neonati. Sdegnato, ma anche un po’ disperato, Costantino si riduce a chiedere aiuto a Silvestro, che prontamente lo guarisce. A questo punto l’imperatore decide di omaggiare il pontefice con una modesta elargizione di territorio: la città di Roma, tanto per cominciare; lo Stato della Chiesa tra Lazio e Ravenna, e poi… e poi, crepi l’avarizia, tutto l’Impero d’occidente, anzi tutto l’occidente, fino al mare e anche più in là. Tant’è che quando nel quindicesimo secolo nasceranno controversie tra spagnoli e portoghesi sulle colonie americane, sarà la Chiesa a fare da intermediaria, basando il proprio diritto proprio sul testo della Donazione.
E a questo punto sorge spontaneo l’interrogativo: come hanno potuto crederci davvero, per tutto quel tempo? Ci voleva davvero l’acume filologico dell’umanista Lorenzo Valla per notare qualcosa di sospetto in un testo classico che parla di “feudi”? Nel testo è sottolineata l’importanza, guarda un po’, del Papa di Roma: Costantino chiede che sia riconosciuto superiore ai patriarchi di Antiochia, Alessandria e… Costantinopoli. Ma ai tempi di Costantino, Costantinopoli era ancora un cantiere, e soprattutto, come abbiamo visto, nessuno l’aveva ancora chiamata così. Per essere creduta autentica, insomma, la Donazione richiedeva uno sforzo di fede ben superiore a quello dei misteri cristologici e trinitari. Fa un po’ effetto, a chi ri-studia la Storia da adulto, e si sforza a ogni passo a trattare gli oggetti del suo studio da adulti, adulti inseriti in un contesto di credenze molto diverso dal suo, ma pur sempre adulti, non fanciulli russoviani o vichiani: fa un po’ effetto, dicevo pensare che per mezzo millennio la favoletta della fontana di sangue di neonati fu presa sul serio anche dai detrattori del potere secolare della Chiesa, uomini di potere o intellettuali come Dante:
AhiCostantindi quanto mal fu matre, non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco patre! Inferno (XIX)
Eppure in un qualche modo funzionò. Forse qualsiasi favoletta funziona, basta ripeterla con ostinazione. Per esempio, provate con me: “La Chiesa paga già l’ICI, la Chiesa paga già l’ICI, la Chiesa paga già l’ICI”… ehi, funziona.
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