Il gigante e il portachiavi

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25 luglio - San Cristoforo, cinocefalo, ex patrono degli automobilisti


"Wof".
"Ciao Cristoforo, qual buon vento! Erano secoli che..."
"Taglia corto. Voglio vedere il capo".
"Il... il capo non riceve, mi dispiace".
"Cosa vuol dire che non riceve. Non ha senso. Io gli devo parlare. Adesso".
"Adesso no, Cristoforo, adesso è in... in riunione".
"Ecco. Parliamo di queste riunioni. Cosa sta succedendo là sotto, me lo vuoi spiegare? Cosa stanno combinando?"
"Ma niente... rimettono a posto il calendario, cose che capitano, d'altronde ogni tot secoli una riforma è necessaria, devi pensare che arriva gente nuova in continuazione, e così..."
"E io che c'entro? Forse che ho fatto qualcosa che non va?"
"Ma no Cristoforo, non c'è niente che non vada, però..."
"È vero che mi tolgono il patronato degli automobilisti? Perché? Forse che non li ho protetti?"
"Hai fatto quel che hai potuto, ma..."
"E poi se li tolgono a me a chi li danno, scusa".
"A Sant'Antonio, pare".
"Antonio? L'eremita?"
"Noo. Quello nuovo, il francescano... Antonio di Padova".
"Il ragazzino? E che ha fatto, scusa, che c'entra lui cogli automobilisti".
"L'hanno visto col Bambino in braccio, miracolo attestato in un processo di canonizzazione".
"Col Bambino in braccio? E io allora? Non ce l'ho un affresco col bimbo in spalla in tutte le cattedrali d'Europa?"
"Cristoforo, eddai..."
"In braccio. Quel francescano smagrito. Ma vuoi mettere. Gesù si tiene sulle spalle. Seduto comodo, in posizione frontale, come un automobilista, appunto. Sennò vabbe', capirai, il bimbo in braccio... allora diamolo pure alla Madonna, il patronato degli automobilisti. Ma chi è questo Antonio. È appena arrivato e già fa le scarpe agli anziani".
"È qui da sette secoli, ormai..."
"Appunto. Una matricola. Io lo sai che sono qui da quando hanno messo in piedi la baracca".
"Forse anche da prima".
"Esatto".
"È un po' questo il problema, Cris. Tu sei veramente un po' antico".
"Arf! Che male c'è?"
"Basta vedere gli affreschi più vecchi, il bambino sembra minuscolo sulle tue spalle".
"Sono un gigante, e allora? Cosa c'è di male?"
"C'è che i giganti non esistono, Cristoforo".
"Che ne sai tu. Una volta, magari..."
"Una volta, una volta. Adesso queste cose si sanno. C'è la paleontologia, l'archeologia. I giganti non sono mai esistiti".
"Magari ero un Neanderthal".
"Eddai Cristoforo, non fare il furbo. È saltata fuori questa cosa imbarazzante della cinocefalia".
"Wof, di che parli?"
"Nelle raffigurazioni più antiche avevi la testa di un cane, Cris" (continua sul Post, con Anubi ed Ermete Psicopompo).
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E staccati, su

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22 luglio - Santa Maria Maddalena, non più peccatrice (I secolo).

Non sarò mai la tua Maria Maddalena
 (però tra qualche anno io e te fondiamo gli Enigma
e svoltiamo sul serio).
A Maddalena, che lo vede per prima risorto, Gesù dice una cosa curiosa, che nella versione latina suona Noli me tangere, "non mi toccare". Perché Maddalena non lo può toccare? Eppure più tardi Gesù acconsentirà a farsi tastare le piaghe da Tommaso, l'apostolo incredulo. Forse perché Maddalena è donna? Forse perché ha un passato discutibile? Ma in realtà nell'originale greco si capisce che Maddalena è già riuscito a toccarlo: più che "non mi toccare" è un "lasciami andare", "mollami". Toccarsi insomma era consentito, ma forse Maddalena insisteva troppo, non lo lasciava andare più, mentre Gesù aveva altre cose da fare, un impegno a Emmaus di lì a poche ore, eccetera. Eppure per secoli in occidente i pittori la scena l'hanno dipinta come se tra Gesù risorto e la donna a lui più vicina ci fosse un abisso. È che Maddalena è proprio difficile da maneggiare.

Di solito scrivere un'agiografia, trasformare un peccatore in un santo, consiste nel prendere la vita di un uomo o di una donna, enfatizzare le buone azioni e levare le magagne più grosse. Con Santa Maria Maddalena, che pure è un personaggio di primo piano, la cosa è andata in un modo diverso: è da duemila anni che la consideriamo una ex prostituta, e semplicemente non è vero. Cioè, basta tornare ai vangeli: in nessun punto vi è scritto che Maria di Magdala facesse quel mestiere. C'è poi qualche 'peccatrice', nei vangeli, con le quali Gesù si mostra piuttosto tollerante, ma non è chiaro se siano prostitute o semplicemente adultere. C'è quella che lava i piedi a Gesù con le sue lacrime, glieli asciuga coi capelli (portare i capelli sciolti nella Giudea del tempo era già un segno eloquente di vita non irreprensibile), e forse è la stessa che lo unge davanti a tutti, in quella che un fariseo del tempo avrebbe potuto prendere per una caricatura di un'unzione regale. Il vangelo di Giovanni, che è il più tardo, ma come vedremo ha un rapporto particolare con la figura di Maddalena, chiama questa peccatrice "Maria", e soggiunge che era la sorella di Marta e Lazzaro. Vale la pena di ricordare che il nome "Maria" ("Miriam", la sorella di Mosè) era già al tempo il più diffuso nella zona: basandosi sulle incisioni funerarie, gli archeologi hanno calcolato che il 25% della popolazione femminile portasse quel nome.

Nei vangeli di Marie ce ne sono parecchie, in realtà è impossibile contarle perché è chiaro che gli stessi evangelisti - già piuttosto elusivi sui nomi e i ruoli degli apostoli - semplicemente non ci si raccapezzano. Questo è un dettaglio verosimile: chi si metteva a scrivere dopo decenni di narrazioni orali poteva facilmente confondere le figure femminili che dalla morte di Gesù non avevano più avuto molto peso nel movimento dei cristiani, e stavano invecchiando da qualche parte in Palestina o altrove. Per prima c'è la madre di Gesù (che non in tutti i vangeli è chiamata "Maria"); poi la Maddalena, che non necessariamente si prostituisce ma sicuramente viene esorcizzata da Gesù, che le toglie dal corpo "sette demoni", fa parte del suo entourage più ristretto ed è testimone oculare della resurrezione (il nome forse deriva da un paese sul lago di Tiberiade, Magdala appunto, forse dall'ebraico migdal, "torre", "fortezza"); c'è poi la sorella di Marta e di Lazzaro, detta anche Maria di Betania; e ancora un'altra figura dell'entourage apostolico, Maria madre di Giacomo (il quale a sua volta potrebbe anche essere il fratello di Gesù...) A un certo punto a papa Gregorio le tre Marie non madri devono essere sembrate troppe, visto che si permise in un'omelia di ridurle a una sola; poi, siccome almeno una delle tre, in almeno un Vangelo, era chiamata "peccatrice", se ne dedusse che oltre a una e trina la Maddalena dovesse pure essere prostituta. Più che un venticello, la calunnia è un virus.


D'altro canto è stata una calunnia con qualche conseguenza positiva. Pur restando per tutta l'era antica e il medioevo, fino ai giorni nostri, ai margini della società, le prostitute hanno potuto contare su una protettrice di primo rango, una che a Gesù dava del tu. E il fatto che Cristo risorto preferisse apparire per primo a un'ex puttana, piuttosto che agli undici patriarchi della Chiesa Apostolica, rende il cristianesimo una religione un pelo meno maschilista ed elitaria di altre (anche se l'immagine di un Gesù gioviale frequentatore di meretrici è un'altra proiezione; non le lapida, ma le perdona, purché "non pecchino più"). Nel frattempo i pittori hanno potuto raffigurare, nelle crocefissioni e deposizioni e apparizioni, almeno una donna coi capelli sciolti. Molto presto hanno deciso che doveva averli rossi. La riduzione di una sodale di Gesù a prostituta potrebbe avere avuto semplicemente questo senso: più basso era il peccato, più orribile il mestiere, più gloriosa appariva la redenzione. Un Dio che perdona le puttane è uno che davvero può salvare chiunque, non fa una grinza. Però forse c'è dell'altro. C'è che se le togli quella patina di peccatrice, Maddalena diventa un personaggio un po' più difficile da gestire, per una Chiesa gestita dai maschi.

Alcuni dettagli sono imbarazzanti (continua sul Post, con Dan Brown, James Cameron, Umberto Eco, Martin Scorsese, i merovingi e l'eterno femminino, ma soprattutto con Yvonne Elliman).
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Ma in quattro non avrebbe proprio senso

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(Vuoi perché è estate, tempo di repliche; vuoi perché i rudi panni del sensale di compromessi al ribasso mi stanno stretti, il fine settimana... insomma sono andato a riprendere un vecchio pezzo del 2005, cioè del 2025, insomma, la mia proposta utopica ma serissima per risolvere il problema non solo del matrimonio gay, ma anche del matrimonio etero, che è in crisi fissa da anni, al punto che io ho un po' paura che estenderlo ai gay sia rifilar loro una sòla che non si meritano; comunque il pezzo eccolo qui).

Il Trimonio spiegato a mia figlia

"Papà-Mac?"
"Sì?"
"Perché la mamma vuole bene a un altro uomo?"

Non era senz'altro ieri sera che mi sarei messo a spiegare il Trimonio alla mia piccola Leti.
Non mentre le cose sembravano filare lisce, tutto sommato. Assunta non si era presentata a cena con una scusa qualsiasi. Apparecchiando, Concetta aveva annunciato a monosillabi che non avrebbe mangiato, perché aveva mal di testa anzi sonno anzi nausea e si ritirava in camera, e i piatti li avrei lavati io. Leti si era subito offerta di aiutarmi, per il grande amore che porta al profumo del detersivo biologico al limone. Così avevamo stabilito che lei avrebbe risciacquato i piatti che le passavo, e intanto avremmo parlato di come vanno le cose a scuola.

Ma Leti non aveva voglia di parlare della sua scuola. Voleva invece parlare del nostro Trimonio.

"Papà-Mac?"
"Sì?"
"Perché la mamma vuole bene a un altro uomo?"

Anche questa doveva succedere prima o poi, ma proprio ieri sera?

"Tesoro, sono cose che capitano ai grandi. Anche tu, quando-sarai-grande…"
"Papà no, quella frase era vietata. Lo avevi promesso!"
"Hai ragione".
"Tu lo conosci, l'uomo che piace a mamma Sunta?"
"Sì, credo di sì".
"È il dottore, quello da cui siamo andati per il vaccino, te lo ricordi?"
"Certo"

(Assunta aveva deciso d'informarci della sua relazione un giorno d'autunno che pioveva, e Supernet ogni mezz'ora interrompeva le trasmissioni con paurosi bollettini sull'incredibile virulenza del bacillo influenzale in arrivo dalla Corea, mentre Concetta faceva e rifaceva i conti di casa senza trovare i denari per vaccinare la bambina.
"Conosco un uomo all'Ospedale Maggiore", aveva detto.
Un uomo).

"Certo che mi ricordo".
"A me sta simpatico, lo sai?"
"Bene".
"Papà, ma lui non può venire a stare con noi?"
La piccola, ecco dove voleva arrivare… "No, tesoro, no. Lui non può entrare nella nostra famiglia".
"Però la mia compagna di banco, l'Elisabetta, lei ce li ha due papà, e vivono tutti e due insieme con lei".
"E quante mamme ha l'Elisabetta?"
"Una".
"Lo vedi? Lei ha due papà e una mamma: totale, tre. Tu hai già due mamme e un papà: quanto fa?"
"Fa sempre tre".
"Certo, per questo si chiama Trimonio. Ognuno deve avere tre genitori, questa è la regola".
"Ma perché proprio tre?"
"Tesoro, tre è il numero perfetto. Vedi, una volta, quando il Trimonio non c'era, la gente era triste, le famiglie nascevano e morivano in un niente, i papà e le mamme si litigavano i bambini, tutta un'enorme confusione senza senso, mi segui?"
"Sì".
"Finché un giorno un gruppo di persone, che si riuniva in segreto per cercare di risolvere i problemi del mondo, decise di studiare con attenzione la faccenda e cercare di proporre delle soluzioni nuove. Qualcosa a cui nessuno avesse pensato prima".
"Chi c'era questo gruppo di persone?"
"Tesoro, nessuno lo sa. Si trovavano in segreto, appunto".
"Ma tu non c'eri?"
"No, beh, io… andavo e venivo, portavo il carrello con le paste. Ma è stato tanto tempo fa, sai. Insomma, questo gruppo di persone, che sono i fondatori del Teopop, decisero di consultare un uomo molto intelligente. Gli dissero: abbiamo grossi problemi coi rapporti di coppia. Gli uomini e le donne non fanno che litigare, e poi ci sono anche uomini che vogliono stare con altri uomini, e donne che vogliono stare con altre donne, e questi uomini e queste donne vogliono ugualmente crescere dei bambini, il che ci pone altri problemi di natura etica che non abbiamo più voglia di porci, perché sono irresolubili e in definitiva una gran perdita di tempo; potresti risolverci tutte queste complicazioni, e farlo in fretta, per favore? Perché noi tra una settimana facciamo un colpo di stato e andiamo al potere".
"Cosa vuol dire colpo di stato?"
"Scusami, non importa. L'importante è che questo uomo molto intelligente, che si chiamava Arci…"
"Quello che faceva gli esperimenti con te?"
"Proprio lui. Be', lui ci pensò su una mezz’oretta e poi disse: avete mai pensato che forse il problema è la coppia? Perché non proviamo a inventarci qualcos'altro, qualcosa di più stabile? La coppia è un concetto incerto, traballante, come la bicicletta, se non è in movimento cade. Non è molto più stabile il triciclo?"
"Cosa c'entra il triciclo, papà?"
"Era un esempio per spiegare la grande differenza che c'è tra una Coppia e un Trimonio. La Coppia deve sempre sorvegliare il suo equilibrio; il Trimonio invece è stabile, perché è sorretto da tre persone, come le ruote di un triciclo, e se una delle tre persone ha problemi, ce ne sono ancora due su cui si può contare. All'inizio però la gente non ne voleva sapere".
"Perché?"
"Sai, la gente non si fida delle cose nuove. Dicevano: da che mondo e mondo si è sempre fatto in due. E Arci rispondeva: ma guardatevi attorno, signori. Non vi è mai venuto in mente che da che mondo e mondo si è sempre fatto male, che sarebbe ora di provare a fare un po' meglio? Ma loro scuotevano la testa e dicevano: se aumentiamo le persone in una famiglia, aumenteranno anche i litigi".
"E lui cosa rispondeva?"
"Lui spiegava che i litigi di coppia sono i peggiori, perché si è sempre uno contro uno, e nella maggior parte dei casi uno deve cedere di sua spontanea volontà, e questo alla lunga lo avvelena. Mentre quando si è in tre o più, i litigi sono più facili da contenere, perché, per esempio, si può votare, e ci sarà sempre una maggioranza e una minoranza; oppure, molto spesso quando due litigano la terza persona cerca di rimetterli d'accordo".
"Come tu con le mamme?"
"Sì, vedi. Probabilm se avessi una sola mamma, e lei non fosse qui ora, io sarei molto arrabbiato con lei".
"Come mamma Cetta".
"Ma siccome mamma Cetta è già molto arrabbiata, io sono portato a sentirmi meno arrabbiato di lei, perché devo stare nel mezzo. Arci questo lo capiva, ma gli altri non gli credevano. Gli dicevano: non puoi generalizzare queste cose".
"E lui?"
"E lui rispondeva, perché no? Anche voi non fate che generalizzare i rapporti di coppia, perché io non posso generalizzare quelli in tre? Solo perché non si sono ancora visti? Ma appena si vedranno, sembreranno naturali e imperfetti come se fossero sempre esistiti. Altri gli dicevano: ma noi siamo cristiani e la Bibbia non lo permette".
"Davvero?"
"Macché, infatti lui rispondeva: la Bibbia è un libro molto grande, sfogliatelo bene e vedrete che vi permette qualsiasi cosa".

Ora siamo su divano, davanti a noi Supernet mostra il Pontefice che si sbraccia dal balcone di una clinica. Non ho mai capito se giornalisti e spettatori siano solo contenti della guarigione, o se non sperino di assistere di persona a una polmonite fulminante. Dev'essere un ambiguo misto di tutt'e due.
Dall'altra parte di una parete di cartone, so che Concetta mi ascolta. So che ha gli occhi sbarrati e non riesce a dormire.

"Non ho capito, papà. La Bibbia dice che ci si deve sposare in tre?"
"No, però non dice neanche il contrario. E molti personaggi importanti avevano due mogli, come Abramo o Giacobbe".
"E c'erano anche donne con due mariti?"
"No, questo in effetti è un'assoluta novità. Ma non ha creato particolari problemi. Per molti uomini anzi è stata una specie di liberazione, perché... come faccio a spiegarti... si dividevano le donne anche prima, ma dovevano farlo di nascosto".
"Quando sono grande, voglio avere due mariti".
"Hai ancora molto tempo, per fortuna".
"E poi voglio avere un bambino".
"Se ti sposi con due uomini, dovrai averne almeno due".
"Perché due?"
"Ogni Trimonio deve produr mettere alla luce due bambini, è la regola".
"Ma se uno non se la sente?"
"Tesoro, avere bambini è molto importante. Un altro dei motivi per cui fu istituito il Trimonio era il fatto che se ne facevano sempre meno. A un certo punto tutte le coppie facevano solo un bambino, e così nel giro di una generazione i cittadini rischiavano di diventare la metà, mi segui? E questo non andava bene".
"Ma non potevano farne due?"
"No, diventava sempre più faticoso, e sia la mamma che il papà dovevano lavorare".
"E se uno dei due stava a casa?"
"Non c'erano abbastanza denari per crescere i bambini. Ma Arci aveva pensato anche questo. Lui ragionava in questo modo: non c'è nulla di grave se caliamo un po', ma non dobbiamo dimezzarci. Allora possiamo fare così: invece di avere due genitori che produc che fanno un bambino, con un calo demografico del 50%, noi possiamo avere tre genitori che ne fanno due, riducendo il calo del 33%. Questo funziona anche per il lavoro: se chiederemmo a ogni madre di famiglia di stare in casa a badare ai bambini, noi ridurremmo la forza produttiva del Teopop al 50%. Ma col Trimonio, noi possiamo avere due coniugi che lavorano, e il terzo che sta a casa e bada ai due bambini. Risultato: 66% di forza produttiva esterna, 33% di autogestione familiare, e…"
"Papà, noi le percentuali a scuola non le abbiamo ancora fatte".
"Scusa, hai ragione. Ma insomma, il Trimonio risolveva un sacco di problemi".
"A me non sembra tanto".

Ora le cose si fanno difficili. Cerco di abbassare il volume di Supernet, invano. Ultimam il comando del volume non funziona più tanto bene. Spegnere non è il caso, darei una brutta immagine della famiglia, e poi magari la bambina si spaventa.

"Tesoro, non devi pensare soltanto a noi. Arci pensava alla situazione generale, non ai casi particolari".
"C'è una cosa che non ho capito".
"Lo so, ma te la spiego un'altra volta, è ora di lavarsi i denti".
"Però, papà, quando tu eri giovane il Trimonio non esisteva".
"No".
"E adesso ti sembra una cosa normale".
"Certo tesoro, la cosa più normale che c'è".
"E allora quando io sarò grande, ci si potrà sposare in quattro, sembrerà una cosa normale".
"Ancora con questa storia? No, tesoro, non ci si potrà mai sposare in quattro".
"E come fai a saperlo, papà? Conosci il futuro?"
"No, ma… insomma, in quattro non avrebbe proprio senso".
"Invece in tre ha senso".
"Sì, in tre ha senso. È molto meno divertente di quel che credevamo, ed è difficile, ma io sono tanto contento di essere sposato con le due mamme, e di essere tuo papà".
"Papà, io vorrei parlare con Arci".
"Tesoro, è impossibile, Arci è andato via".
"E nessuno sa dove?"
"No, nessuno sa dove. Buonanotte".
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Il supermarket dei diritti

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A un certo punto, non so nemmeno dove, qualcuno ha paragonato il movimento LGBT italiano alla Rifondazione di Bertinotti: quella che fece cadere il primo governo Prodi nel '98. Per quanto bislacco il paragone potrebbe spiegare perché ci stiamo infervorando tanto qui sotto su un argomento - i diritti alle coppie gay - invece che su qualsiasi altro. Quando almeno qui siamo tutti d'accordo: ai gay mancano dei diritti, e questo è anticostituzionale. Bene. E quindi come si fa a realizzare la Costituzione? Come si ottengono questi diritti?

Alla fine non stiamo parlando di omosessualità, non stiamo parlando nemmeno di diritti civili. Tutta questa discussione non sarebbe che la solita, annosa polemica pragmatisti vs massimalisti, durante la quale è di rigore evocare Bertinotti almeno una volta. Lui nel '98, per ottenere una cosa che nessuno si ricorda più cosa fosse (le 36 ore? No, nemmeno) fece cadere il governo Prodi e così ottenne... nulla. Una lezione per tutti i massimalisti del mondo. Il paragone mi sembra infelice, per vari motivi.

Il banale primo motivo è che alcuni partecipanti a questa discussione, secondo me, nel '98, erano ancora molto giovani e forse nemmeno non nati, perlomeno a me piace pensare così. Le analogie si fanno per vivacizzare una discussione, non per virarla al bianco e nero. Si ritorna a Bertinotti '98 come si torna al Mundial '82 o a Italia Germania 4-3, per mancanza di fantasia e di pudore. Primo motivo.

Il secondo motivo è che, se mi pongo dal punto di vista di un rifondarolo (faccio un po' fatica, ma ci provo), Bertinotti '98 non è stata la cosa più brutta che è successa. Lo stesso Bertinotti fece tesoro dell'esperienza, e otto anni dopo portò Rifondazione a sostenere un Prodi II, in una coalizione (l'Unione) dove i rifondaroli furono tra i più disciplinati - giusto qualche mal di pancia quando si trattava di rifinanziare l'Afganistan, e mi pare il minimo. Il risultato di tanto pragmatismo quale fu? Parlo da rifondarolo: il governo rimase in minoranza grazie a uno dei soliti transfughi dell'IdV; lo fece cadere Mastella; si tornò a votare e Rinfondazione sparì dal parlamento. Dopo una storia del genere, una delle più paradossali della pur bizantina politica italiana, io non vado più in giro a lamentarmi coi rifondaroli del loro massimalismo. Ognuno lotta innanzitutto per la propria sopravvivenza, e finché furono massimalisti i rifondaroli sopravvissero alla grande. Fu il pragmatismo a stroncarli: spiace per primo a me, ma andò così.

Il terzo motivo è che, per quanto massimalisti, i bertinottiani avevano un'idea abbastanza coerente - anche se un po' virata seppia - del massimalismo: per loro c'era il governo e c'era la lotta. A un certo punto decisero di uscire da un governo (per meglio dire di non appoggiarlo più) per tornare alla lotta. Avrebbero lottato, manifestato, scioperato, fatto tutto quello che compete fare a un movimento politico di base per conquistare consensi e tornare in parlamento più forti di prima. C'era poi probabilmente in alcuni movimentisti quell'idea del "tanto meglio tanto peggio" che tanti danni ha fatto a questo sventurato Paese: riportare Berlusconi al governo poteva essere il modo più spiccio perché i contrasti sociali diventassero più forti, avvantaggiando i movimenti politici più radicali, eccetera. Tutto ciò non è mai successo, ma è facile notarlo col senno del poi (no, era facile anche nel 1998, ma facciamo finta). Era una strategia fuori dal tempo, fuori dal mondo, ma era ancora una strategia.

A me - spero di sbagliare - ma non sembra che il movimento LGBT italiano ne abbia una. Si ritiene umiliante un compromesso: va bene, molti compromessi sono umilianti. Ma poi? Cosa resta da fare? Lo chiedo senza retorica e con molta curiosità.

Ribadisco che qui non si parla di diritti civili, ma di qualcosa di comunque importante. Del modo in cui ci si arriva, ai diritti; che è poi la concezione che ognuno ha della politica. Per me la politica è il proseguimento della lotta di classe con altri mezzi: ci sono classi sociali, ognuna lotta per ottenere una serie di risultati che chiama "diritti", e che quasi sempre vanno a scapito dei privilegi o dei diritti di altre classi sociali. È una concezione un po' veteronovecentesca, non c'è dubbio, ma è la mia. La vostra qual è?

Posso sbagliarmi. Mi sbaglio senz'altro. Ma voi mi sembrate clienti di un supermercato. Il vostro modo di chiedere dei diritti non implica una lotta, lunga o breve che sia: no, voi entrate in un supermercato, vi aspettate che ci sia l'aria condizionata, non c'è, voi allibite. Come non c'è. C'è in tutti gli altri supermercati della zona. C'è in "Germania" e c'è in "Spagna", da qualche tempo in qua c'è persino in un negozietto fuori mano che si chiama "Portogallo", cosa significa che da noi non c'è? È uno scandalo. Non avete tutti i torti. Peraltro senza aria condizionata la merce si guasta molto prima, insomma, sarebbe anche una questione igienica, e di dignità personale. Ma non c'è.

E quindi? Intendete organizzare un movimento di protesta? Incatenarvi ai carrelli? Boicottare la catena? Alcuni queste cose le fanno. Ma mica tanti, e mica molto spesso. Una marcia dimostrativa in estate, va bene. Fine. Nel frattempo, chi ha la possibilità, cambia semplicemente supermercato. Giusto, ma nel frattempo chi vive e lavora in "Italia" continua a sudare tra puzza di carne guasta. Vi siete scandalizzati, va bene, la cosa vi fa onore; però non sta cambiando nulla.

Mi sbaglierò, spero di sbagliarmi, ma dietro c'è un'idea di cittadinanza che a me non piace (omofobo!) Il cittadino-cliente, che fa i confronti tra i volantini dei vari supermercati. Si sveglia una mattina, scopre che non gli sono riconosciuti tot diritti, si lamenta, cambia Paese. È scandaloso anche solo pensare che il riconoscimento dei diritti sia il risultato di una lotta, che può passare attraverso sconfitte e compromessi. No, in California nel 2012 fanno così, perché in Italia no? È uno scandalo. Non ci si preoccupa di studiare come mai in California nel 2012 si è arrivati a fare così: attraverso lotte, sconfitte, compromessi, vittorie. No, hanno già combattuto in California, a noi interessano soltanto i risultati, che devono immediatamente essere estesi a noi. Sennò andiamo in California. E chi può naturalmente lo farà. Ma gli altri?

Poi citate Mandela. Il leader di una lotta armata, arrestato per incitamento allo sciopero e detenuto per 27 anni. Avete intenzione di passare alla lotta armata? Non sopportate un ritardo di 12 anni rispetto alla situazione tedesca e vi riferite a uno che ha aspettato per 27 anni in galera? Citate Martin Luther King: con tutto l'affetto di questo mondo, vi pare che i gay pride italiani abbiano il respiro, le dimensioni, la forza simbolica della marcia su Washington? E poi qualcuno insulta. Sono veramente molto pochi, però è interessante anche questo. Io sono per il matrimonio gay, e l'ho scritto: devo comunque prendermi la mia dose di insulti perché nel 2012 oso proporre quello che in Francia ha funzionato nel 1999 e in Germania nel 2001. Rispetto a Rifondazione - un partito di minoranza che però arrivò quasi al 10%, e che magari si augurava di sfondare le linee e diventare un movimento di massa, il movimento LGBT ha un problema ineludibile: lotta per ottenere i diritti di un gruppo di persone che stanno tra il 5 e il 10% della popolazione. Più di così (e sono numeri ancora fantascientifici in Italia) difficilmente potrà mai ottenere, né col massimalismo né in qualsiasi altro modo - a meno che non si riesce a portare dalla propria parte un bel po' di eterosessuali convinti che ci sia un problema.

Ecco, parlo da eterosessuale: se mi insultate in linea di massima non mi portate dalla vostra parte. Ma magari è un problema solo mio.
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Per sposarsi ci vuole pazienza

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Tra qualche giorno l'onorevole Paola Concia festeggerà con la sua partner l'anniversario di quello che tanti qui sulla stampa italiana hanno chiamato matrimonio, e che matrimonio esattamente non è: per la legge tedesca si tratta di Eingetragene Lebenspartnerschaft, "convivenza registrata". Si tratta ormai di una distinzione puramente formale, da quando (ottobre 2009) la Corte federale ha riconosciuto ai conviventi registrati omosessuali tutti i diritti e i doveri dei coniugi. Ma se questa forma di convivenza comporta tutti gli onori e gli oneri di un matrimonio, perché non dovremmo chiamarlo così? E infatti lo chiamiamo così, anche in Italia, e ci lamentiamo che non esista un equivalente nella nostra legislazione: ce ne lamentiamo soprattutto durante e dopo le riunioni del PD, il partito dell'onorevole Paola Concia.

Ce ne lamentiamo a ragione: sui diritti delle coppie omosessuali siamo molto indietro rispetto ai Paesi più avanzati. Quanto indietro? La sentenza della Corte federale tedesca, abbiamo visto, è del 2009. Le "convivenze registrate" esistevano già, dal 2001, ma non riconoscevano il diritto di adozione congiunta. Una notevole differenza. Che a un certo punto è sembrata insopportabile ai tedeschi, e alla loro Corte federale. Però non ci si è arrivati in un giorno. C'è stato un processo graduale: prima si è ammessa una forma di convivenza per partner omosessuali che non dava gli stessi diritti del matrimonio (ed era già il 2001); poi ci si è accorti che questa convivenza di serie B era una discriminazione, e si è rimediato alla cosa (intanto si era fatto il 2009); ancora ci si trattiene dal chiamare il "matrimonio" col suo nome, ma a questo punto è ormai un dettaglio. Raccontata in tre righe sembra senz'altro più semplice di quanto dev'essere stata per i gay tedeschi che hanno convissuto in questi anni: ma almeno la storia ha un lieto fine, oggi hanno gli stessi diritti degli etero. Possiamo fare la stessa cosa in Italia?

Sembra di no. Da una parte chi di coppie gay non vuole sentir parlare (ma sono sempre meno); dall'altra chi vuole il matrimonio subito, la parità subito, e considera tutto il resto un compromesso inaccettabile. In mezzo, ovviamente, il PD... (continua sull'Unità, H1t#136).

 In mezzo, ovviamente, il PD, che sconta in materia una sorta di peccato originale. Non è un partito socialdemocratico, come il PSOE di Zapatero o il PSF di Hollande (che pure al matrimonio c’è arrivato per gradi, dopo un lungo percorso di accettazione dei patti civili di solidarietà, una campagna cominciata negli anni Novanta). Non è un partito euroliberale o “compassionate conservative”, tutte etichette di cui poi bisognerebbe verificare il senso. È, banalmente, un partito di centrosinistra italiano con un robusto innesto di cattolici, che su tante altre materie hanno punti di vista sovrapponibili, ma sul matrimonio e soprattutto sulla famiglia mantengono i cosiddetti valori non negoziabili. Tutto questo non è una novità e non dovrebbe più stupire nessuno.
Considerata la situazione, l’ordine del giorno dell’assemblea del PD che chiedeva un impegno per il riconoscimento delle unioni civili poteva sembrare un buon compromesso: forse il massimo che si può chiedere per ora a questo partito e non a un altro. Non è la parità subito, come in Spagna: del resto il PD non è il PSOE. Ma potrebbe essere un gradino importante, come fu il PACS in Francia nel 1999 (e non fu facile arrivarci), come le Lebenspartnerschaft in Germania nel 2001. Se l’anno prossimo una maggioranza parlamentare guidata dal PD riuscisse a farlo passare, significherebbe che l’Italia è, in questa materia, 12 anni in ritardo rispetto alla Germania. Sono tanti? Sì, tantissimi. Ma non è che possiamo far finta che un ritardo non ci sia, non soltanto a livello di legislazione, ma di mentalità. E non è un ritardo irreparabile: nulla ci vieta, una volta che ci siamo mossi, di bruciare la tappa successiva. Probabilmente la classe dirigente di estrazione cattolica del PD è sul tema più conservatrice della base che crede di rappresentare. E comunque non esiste solo il PD: se Fini, Di Pietro, persino Grillo – al netto delle battute e dei giochi di sponda – sono interessati, una maggioranza trasversale sull’argomento si potrà costruire. Ma più di tutto a mio avviso conterà l’effetto normalità: quando finalmente anche in Italia avremo coppie omosessuali normali, ci accorgeremo, tutti, che non ha senso considerarle di serie b. Ci vorrà qualche anno in più, ma in più di cosa? Litigare sugli ordini del giorno accelera in qualche modo il riconoscimento dei diritti alle coppie gay?
Ivan Scalfarotto, che in seguito si è lamentato della “caciara” scatenata all’Assemblea PD, aveva poche ore chiesto di votare un ordine del giorno sul matrimonio gay spiegando che il PD “non ha nulla da invidiare ai più grandi partiti socialisti e socialdemocratici di tutta Europa” (applausi). Lo dico con rammarico: non credo sia vero. Pensare che il PD possa avere sull’argomento una posizione avanzata quanto quella di PSF o PSOE o New Labour è un errore tattico, che non va commesso nemmeno con le migliori intenzioni al mondo – e sono convinto che quelle di Scalfarotto lo siano. Non è che il PD non si possa cambiare, e senz’altro si può cambiare il Paese, ma serve un po’ di tempo. Il tempo che abbiamo tutti perso negli ultimi vent’anni. http://leonardo.blogspot.com
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Alla padrona di casa

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Quando ti presi, in una piazza nordica dove soffia sempre il vento, un microclima, non eri che una piantina tra tante, un rametto nel germoglio delle mie ambizioni: mi ero appena intestato una casa con terrazzo, e nella mia fantasia il verde urbano rampicava già fino alle tegole. Mi dissero che ero fortunato a trovarti, che sul lungolago eri in via di estinzione, la febbre del mojito portava i baristi a saccheggiare le serre.

Poi venne l'estate e il tuo primo compare ci restò secco. Seccasti anche tu, bastò lasciarvi soli un paio di settimane, in attesa di una pioggia mai arrivata. Quanto a me, la speranza si era seccata già da prima, l'estate quando si presenta sembra vacua e immensa ma poi si riempie subito di cose da fare e insomma ciao, non avevo nemmeno la forza di volontà necessaria a buttarti nella spazzatura. Strappai via tutti i resti secchi che erano stati te, sentii appena una fragranza di chewingum, ti mollai agli elementi dell'autunno. Forse gli adulti devono fare così, chiarire da subito che sono stronzi inaffidabili. Tu alle prime piogge buttasti già fuori le prime foglie, timide, ai bordi del vaso, lontano dal delitto.

Poi venne inverno e la tormenta di neve del secolo: te ne sei accorta? A un altro compare tuo marcirono le radici, tu riprendevi forma. Venne un'altra estate e ci furono di nuovo cose importantissime, emergenze che mi tenevano lontano, e di nuovo eri morta, e di nuovo mi maledissi, ma ormai ti conoscevo, avevi seminato speranza. Staccai i rametti secchi, non ti buttai. A settembre eri già verde di nuovo.

E ancora inverno e neve da spalare. E poi, ai primi caldi, una novità: la terra che trema. Ma le piante di queste cose non si curano, un terremoto per loro val meno di un soffio di vento serio. Le norme antisismiche, le hanno interiorizzate in una fase molto precoce della loro evoluzione, e ora se ne ridono delle magnitudo e dei mercalli. L'unico problema sono i maledetti umani che scappano via e non mandano nessuno a innaffiare, certo dipendere da una specie così pusillanime dev'essere seccante.

Ma tu non ti secchi più, quando tornai mi hai salutato altera, i tuoi quattro rami (tanto vicini al bordo del vaso), oscillanti alla canicola: toh, guarda chi c'è. Regina di un terrazzo abbandonato al nulla, ai fiori di tiglio riarsi che pure le formiche disdegnano.

E io dovrei staccare le tue foglie orgogliose, pestarle col ghiaccio, ammollirle all'alcol dolciastro, io? Ma a che titolo, io nemmeno di annusarti sono più degno. Suggi piuttosto tu di me, ficca le tue radici in queste trippe pavide di profugo e guarda se c'è qualcosa di nutritivo, ma dubito. Del resto hai tutto: diossido e sole in abbondanza, e l'acqua, se proprio ci tiene, verrà. Tu te ne freghi dell'afa e della tempesta e della tormenta, e dei terremoti in particolare. Ben altri padroni meritavi, ben altri coinquilini, ché ormai per usucapione la padrona qui sei tu.
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Né con Ichino né con lo Stronzio

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Attenzione: questo non è un pezzo su Ichino o contro Ichino. Ripeto: questo non è un pezzo contro Ichino. È un pezzo che parla di una tattica retorica che viene spesso adoperata on line per liquidare i propri critici.

In soldoni si tratta di questo: si perlustra la Rete in cerca dello sprovveduto che la spara più grossa (e in Rete, c'è sempre qualcuno che la spara più grossa) lo si identifica, lo si cita, si sottolinea l'assurdità o la pericolosità delle sue sparate, e si lascia intendere che tutti quelli che non la pensano come noi la pensano come lui. Di solito funziona: non solo noi ci convinciamo ancor di più di essere nel giusto e di avere nemici imbecilli, ma anche lo sprovveduto di turno spesso è contento di essere comunque stato citato, linkato, messo alla berlina: che è pur sempre un palcoscenico.

La settimana scorsa sul sito di iMille un tizio contro Ichino ha invocato le BR. Lo ha fatto ironicamente, ha anche soggiunto "tongue-in-cheek", che in inglano credo voglia dire "tana libera tutte le cazzate". In questi casi cosa si fa? Lo dico da gestore di un blog, che forse, dico forse (la legislazione è un po' ambigua al riguardo) è legalmente responsabile delle cazzate pubblicate dai commentatori; io, a seconda dell'orario, dell'umore, delle ore di sonno, della fase digestiva, probabilmente avrei liquidato la faccenda in uno di questi due modi:
1) lasciando il commento dov'è, scrivendo in calce: "mi dissocio. Guarda che se invochi l'intervento di un gruppo armato contro un parlamentare sul mio blog, mi puoi anche mettere nei guai. Non è che tutti gli effettivi della polizia postale siano tenuti a capire la tua ironia".
2) cancellando il commento, scrivendo in calce: "le apologie di terrorismo fatele sui vostri blog, per favore".
3) cancellando, fischiettando, parlando d'altro.

Raoul Minetti, di iMille, ha reagito in un altro modo. Invece di liquidare, ha solidificato. Ha preso l'apologia di terrorismo tongue-in-cheek e l'ha usata come stampino per una statuetta a tutto tondo: la statuetta dell'ichinoclasta che mangia la pizza alla Festa dell'Unità, sembra una brava persona, e invece... fiancheggia il brigatismo!!! No, ma leggete. Perché sennò poi sembra che m'invento le cose:

Le parole sono da brividi, dicevamo. Sono scritte bene, senza errori o farneticazioni. Abbiamo seguito un link per capire chi le ha scritte, e abbiamo trovato un bel blog, di una persona di sinistra chiaramente attenta al – e impegnata nel – dibattito politico sulla rete. E allora i brividi invece di diminuire sono aumentati. Perché sarebbe paradossalmente più facile leggere queste parole se venissero dalle “frange estreme”, sempre presenti nella società italiana e più che mai attive in questo momento di profonda crisi economica e sociale per il nostro paese. Mentre è molto difficile farsi una ragione di queste parole se vengono da un militante della sinistra come tanti, di quei militanti che nelle tranquille sere d’estate partecipano in platea ai dibattiti alla Festa dell’Unità con una pizza in mano e tanta bella passione civile nel corpo.


Io invece il link diciamo che non l'ho seguito. Non m'interessa se il tizio mangia la pizza o di solito scrive cose intelligenti. Mi attengo ai fatti: inneggiare alle BR, anche ironicamente, su un sito pubblico, è in assoluto una delle cose più sceme che si possano fare in Italia: se poi l'oggetto del discorso è Ichino, hai fatto l'en plein. Basta dare un'occhiata alle sentenze, eh? Gli ultimi brigatisti a essere stati condannati, per associazione sovversiva, avevano parlottato al telefono di ammazzare Ichino. In generale, senza scendere in dettagli tecnici. E basta, non è che avessero fatto molto altro: un tentativo fallito di scassinare un bancomat, qualche smitragliata in aperta campagna per tenersi in allenamento, volantini, cose così. Per tutta questa attività criminosa Claudio Latino si è preso undici anni e mezzo (certo, dichiararsi prigionieri politici e inveire contro Ichino dalla gabbia del tribunale aiuta). E gli è andata bene, perché in primo grado volevano anche riconoscergli le finalità terroristiche, quindici anni. Certo, non è nemmeno riuscito a scassare un bancomat, ma quel che conta è l'intenzione. Una tizia che ci aveva parlato una volta è stata in galera due anni con l'accusa di essere l'infiltrata delle BR all'università di Padova; per lei la Boccassini di anni ne aveva chiesti quattro, quindi le è andata bene, dai. Ciò non toglie che, alla luce dei fatti, invocare le BR su un sito internet lasciando a disposizione degli inquirenti le proprie generalità sia un atto profondamente scemo, che ben pochi sarebbero disposti a sottoscrivere - e invece per Minetti alla fine siamo tutti così, noi che alle feste dell'Unità mangiamo la pizza e quando sentiamo Ichino non applaudiamo, anzi, lo accusiamo, con un lessico orribilmente desueto, di "fare il gioco dei padroni". Padroni? Che padroni? Forse che ci sono padroni qui? E c'è un gioco? Tutto ciò turba la grande compostezza di Ichino!

Un caso isolato? Mi va la memoria a due episodi. Uno personale, una mia partecipazione ad un dibattito sul lavoro con Pietro Ichino e Giovanni Bachelet, in una libreria in Trastevere a Roma un paio di anni fa. In platea un nutrito gruppo di lettori e militanti di sinistra, attenti e preparati. Una discussione finale da gelare il sangue. Una persona si alza dalla seconda fila accusando Ichino di “fare il gioco dei padroni”. Pietro Ichino, persona di grande compostezza, è visibilmente turbato.

Io poi un po' in questi giorni di canicola lo invidio Minetti, con tutti questi brividi e questo gelarsi il sangue. Però, caro Minetti, caro Ichino, qui non è che si discuta il vostro riformismo. Ma la provocazione di andare al processo del Partito Comunista Politico-Militare e cercare il "dialogo" con quei poveretti dietro le sbarre; la tattica di rabbrividire al primo commento scemo, di farsi gelare il sangue dal primo slogan un po' vieto, ecco, questa tattica ha un nome preciso ed è: piagnisteo. Avete notizia di minacce serie, concrete, nei confronti di Ichino? Hanno tutti un'e-mail al giorno d'oggi, scommetto che ne ha una anche la procura. C'è un tizio un po' sprovveduto che inneggia alle BR nei commenti? Rispondete, cancellate, mettete nella casella dello spam, fate quel che vi pare, ma non usatelo per allungare un brodo di cultura - non se lo beve nessuno. C'è un sacco di gente a sinistra che non condivide le idee di Ichino, e fino a prova contraria non sono tutti terroristi. O meglio, fino a prova contraria non c'è nessun terrorista: i residui di terrorismo verbale di un commentatore sprovveduto valgono 0,00..., come la percentuale dello stronzio nell'acqua minerale. Io è una vita che ceno con una bottiglia davanti, e quella particella di stronzio la devo ancora trovare. Vuoi vedere che sono tutte nella bottiglia di Ichino.
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Tutti figli di Bearzot

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Per vincere domani


(È un pezzo di due anni fa, stasera ha un po' di senso).
A vederlo da qui, il Calcio italiano sembra avere avuto due incarnazioni, che per comodità possiamo chiamare “in bianco e nero” e “a colori”. Dunque il calcio in bianco e nero è un mondo di leggende, sacrifici, uomini di poche parole dal destino spesso tragico, magliette a strisce strette e senza scritte, riprese accelerate. Il calcio a colori è un mondo di stelle e stelline, scritte ovunque, indossatori di scarpe, spot di telefoni, risse in campo e sugli spalti, azioni al rallentatore. Al centro di questo grande cambio di paradigma, per un curioso accidente, c'è il Mundial del 1982, e la nazionale di Bearzot, coi suoi uomini che hanno un piede nel mondo antico e uno già in quello moderno, ma non appartengono davvero a nessuno dei due.

Aspettate, aspettate, non cliccate via. Non sono venuto qui a dirvi che il nostro mondiale è stato più bello del vostro; vorrei soltanto cercare di spiegare ai più giovani e ai più anziani che per noi, che eravamo al mondo da nemmeno dieci anni, fu qualcosa di diverso e irripetibile, né una saga in bianco e nero né una fiction a colori. Un romanzo, un incredibile romanzo, il primo vero romanzo che abbiamo visto consumarsi tra la tv e i giornali (quanti giornali! E che titoli! Me ne ricorderò sempre uno, che forse non era nemmeno in prima pagina, in un maiuscoletto che pugnalava il cuore: IL CAMERUN CI FA PAURA).

Vorrei spiegare che prima di tutti i grandi romanzi di formazione degli anni Ottanta, prima di Pat Morita che ti fa dare la cera e togliere la cera, prima di Rocky che spacca la legna, persino prima dei napoletani che sfidano a football gli yankees della base Nato e ovviamente si fanno massacrare, finché Bud “Bulldozer” Spencer non si rompe i coglioni ed entra in campo, prima che qualcuno dicesse “coniglio” a Michael J. Fox, insomma, prima di ogni cosa, ci fu quella nazionale pesante, che non riusciva a giocare contro la Polonia, non riusciva a battere il Perù; quella nazionale criticata da tutti che aveva paura del Camerun, quella nazionale passata al secondo turno per una pietosa differenza reti, quella nazionale che quando si ritrovò in un girone a tre con Brasile e Argentina fu data per spacciata dai nostri saggi padri.

Noi invece, non sapendo davvero nulla di calcio, che altro potevamo fare se non sperare, pregare, sognare che i potentissimi sudamericani si liquefacessero come nella Bibbia accade agli empi nemici di Israele. E così fu: il Dio della nostra infanzia ascoltò le querule preghiere dei suoi figli piccoli e quella nazionale, già vergogna delle italiche genti, si rialzò sferragliante come Mazinga prima che gli diano il colpo di grazia, e sconfisse l'Argentina di Maradona, trionfò sul Brasile di Zico e Falcao, passeggiò sulle spoglie della Germania di Muller e Rummenigge, e ci diede il primo vero lieto fine della nostra vita; non una semplice vittoria: una crescita, un riscatto. Lo avevamo sognato, ora il sogno era realtà. Ed era appropriato che i protagonisti di questa avventura avessero nomi bizzarri, da romanzo ungherese: Zoff, Bearzot (anche se poi chi segnava i gol portava cognomi più rassicuranti: Rossi, Tardelli).

L'allenatore, in particolare, fu immediatamente assunto nel nostro olimpo di nonni rassicuranti, con Pertini ed Enzo Ferrari (che per me a nove anni avevano davvero il volto intercambiabile): uomini saggi che tenevano dritto il timone, incuranti delle sconfitte passeggere, essi vegliavano sui nostri sonni e ovviavano ai disastri dei nostri genitori. Senza di loro, Gilles Villeneuve non sarebbe stato che un locale campione d'autoscontro. Erano loro ad aver pescato Paolo Rossi dal vortice del calcioscommesse; ad aver creduto in lui per quattro lunghe partite mentre si aggirava per l'area avversaria struggendosi nel tentativo di rammentarsi le regole del giuoco. E i nostri saggi padri lo fischiavano, maledicendo Bearzot e chi ce l'aveva mandato, e l'Argentina '78 era un'altra cosa, per tacer del Messico.

Come poteva non scattare l'immedesimazione, come potevamo non sentirci tutt'uno con quel Paolo Rossi timido, incapace, distrutto dalle critiche, che a un certo punto si sblocca e piazza tre gol ai brasiliani? Era ovvio che prima o poi sarebbe successo anche a noi: ci saremmo sbloccati. Avremmo spiccato il volo e superato in elevazione tutte le difficoltà. Non è escluso che da qualche parte, nella nostra testa, ci crediamo ancora: ci sbloccheremo prima o poi, la faremo vedere a tutti. Forse sarebbe bastato trovare un saggio maestro, un nonno partigiano, un Bearzot che credesse in noi.

Non ci furono sequel al romanzo: chiusa la copertina Bearzot tornò immediatamente un comune mortale, il selezionatore di nazionali mediocri, che non si qualificarono agli Europei e uscirono agli ottavi in Messico. Ci furono altri mondiali, e anche se non abbiamo mai smesso di tifare per gli azzurri, da qualche parte nel nostro cuore c'era come una resistenza, l'idea che nessuna fiaba sarebbe mai stata bella come quella di Bearzot. Magari piangemmo persino nel '90, quando la cavalcata trionfale di Baggio e Schillaci si schiantò sulla più bituminosa Argentina mai vista: piangemmo, ma qualcosa dentro di noi diceva meglio così, ci sta bene, abbiamo voluto vincere tutte le partite e ci siamo dimenticati che non c'è vera gloria senza sofferenza.

Soffrimmo di più per l'Italia di Sacchi, che in partenza poteva sembrare ancora più arrogante di quella di quattro anni prima, ma poi fu messa in ginocchio da infortuni e squalifiche che la resero un'armata brancaleone, trascinata di peso da Baggio fino al malinconico finale. In seguito i calciatori diventarono sempre meno simpatici, eppure avevano un modo di mettersi nei guai che ti costringeva a credere in loro, a sperare nel riscatto, a cercare nel fondo del nostro cuore il Dio delle vittorie assurde che avevamo pregato nel 1982. Persino l'europeo di Grecia diventò interessante soltanto quando Totti si fece cacciare, e Cassano scese in campo e segnò, ma Svezia e Danimarca fecero melina e allora pianse: sì, Cassano pianse. Due anni dopo, in pieno scandalo Moggi, era di nuovo una questione di riscatto: i nostri gladiatori pompati e tatuati dovevano dimostrare di essere professionisti all'altezza, e forse ce la fecero, ma poi.

Poi, l'ho scritto, almeno in me qualcosa si è rotto – qualcosa, credo, tra la testata di Zidane e la scenetta odiosa di Totti con la coppa in mano. Non riesco più ad appassionarmi, mi sembro una donna che vede ventidue idioti a spasso per un prato e cambia canale. Non capisco - se mai l'ho capito - che senso abbia far giocare miliardi di budget contro milioni di debiti, non riesco più a trovare motivi d'interesse. Non posso nemmeno dire che rimpiango il calcio che fu: se riguardo al Mundial dell'82 con gli occhi di oggi, mi rendo conto che fu una bella impresa, sì, ma come tante altre, nulla di davvero eccezionale: non ci voleva un genio a capire che quel Brasile non sapeva difendersi, e Bearzot probabilmente non era un genio.

L'unica cosa che mi porto dentro, alla quale non voglio rinunciare, è il mio concetto di vittoria, che è quello dei film degli anni Ottanta dove Rocky deve sempre prima andare al tappeto, sanguinare, vedere doppio, spaccare la legna, mettere la cera, togliere la cera... per vincere domani. Il mio concetto di vittoria è che la vittoria in sé non m'interessa. Non voglio essere il più forte, non trovo nessuna gloria nel nascere Maradona. Non ci sarebbe gloria nemmeno nel battere il Brasile, se prima non hai avuto paura del Camerun. Per me l'unica vittoria che abbia senso è la vittoria di Paolo Rossi, che sbeffeggiato dal mondo intero spicca il volo, supera due ciclopi brasiliani in elevazione e la mette dentro. Perciò mi troverete sempre coi perdenti: non perché mi piaccia perdere, ma perché sto aspettando l'unica vittoria che mi farebbe godere realmente: la vittoria di Davide su Golia, di Bearzot sui mostri del calcio, di Pertini sui fascisti i nazisti e i democristiani. Voi tifate pure per la vostra squadra miliardaria: mica vi giudico, e mi fareste un piacere se non giudicaste me. Siamo semplicemente diversi, abbiamo avuto educazioni diverse, ci siamo letti romanzi diversi negli anni in cui leggere i romanzi ci serviva davvero. Adesso per capirsi forse è tardi, voi state da una parte, io dall'altra, e non m'importa quante palle mi mettete dentro: l'importante è la sola palla che un giorno metteremo noi. Ne basterà una sola, a un certo punto ci sbloccheremo, scenderà Bulldozer, il signore degli Eserciti, vi faremo un culo così, la palla schiacciata in meta scoppierà e non ne verranno fabbricate altre, non ci saranno rivincite, il mio romanzo finirà in quel momento.
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Un dibattito provinciale

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Si riparla di abolire le province, o perlomeno di accorparle. Se ne riparla come l'anno scorso in estate, e forse l'argomento si presta più di altri al dibattito sotto l'ombrellone; le province sappiamo tutti più o meno cosa sono (la nostalgia per le sillabe iniziali delle vecchie targhe), siamo tutti più o meno convinti di sapere a cosa servono (a poco), abbiamo tutti un'idea di come risistemarle: se Monza vada riaccorpata a Milano o annessa a Varese; quale sarò il capoluogo di Imperia-Savona? Meglio Rovigo-Ferrara o Rovigo-Padova? Eccetera. Peraltro la chiacchiera è sterile per definizione: sappiamo tutti che alla fine Monti deciderà senza consultarci.

E tuttavia qualche considerazione non banale sulle province, sul senso di una suddivisione secolare del territorio, si potrebbe anche fare. Sarebbe bello che nei giornali si riuscisse a parlarne lasciando perdere i campanilismi, non perché non esistano (accorpare Pisa e Livorno è senz'altro uno choc), ma perché tutto sommato hanno ben poco a che vedere col problema. Reggiani e modenesi continueranno a sfottersi anche se la provincia diventa una sola. Ma il motivo per cui molti pesaresi non sarebbero contenti di un'eventuale annessione alla provincia di Ancona non è una questione culturale o linguistica, addirittura, come ha scritto qualcuno. Più spesso di tratta di problemi pratici: se nevica sulle strade provinciali di Urbino, bisognerà attendere un sì da Ancona per spargere il sale? Che senso ha centralizzare gli uffici, se poi occorrerà immediatamente aprire sedi distaccate?

Alla base di molte chiacchiere c'è una competenza geografica data per scontata e che invece tante volte scontata non è (continua sull'Unità, H1t#135).

 Così ci si scandalizza del fatto che un piccolo centro, Sondrio, continui a esercitare prerogative da capoluogo, ignorando il fatto che per quanto Sondrio possa essere piccolo, il territorio a cui fa capo (la Valtellina) è immenso, e separato dal resto della Lombardia da confini naturali. Non è che non si possano trasferire uffici e competenze a Bergamo, ma rimane da stabilire se sia un risparmio. Per il Tesoro magari sì, almeno nell’immediato; ma per i cittadini? I tagli hanno di buono che sul bilancio si vedono subito: le magagne, i disastri “naturali” che possono derivare da una gestione miope e lontana del territorio, all’inizio non si vedono, e comunque a calcolarli servono mesi, a volte anni. Monti e il suo governo saranno già lontani.
Molto spesso poi chi parla di abolire le province mostra di non riconoscere che un Paese non è soltanto una comunità di persone, ma è anche il territorio in cui queste persone vivono. Il fatto che alcune province, anche vaste, siano poco popolate, non dovrebbe costituire di per sé un motivo sufficiente per eliminarle. La gestione dei fiumi, delle valli, delle strade, deve essere efficace: la risposta alle emergenze deve essere pronta, anche se in quel territorio abitano poche migliaia di persone. Si sa che in altri Paesi i territori poco popolati sono compensati, in sede istituzionale, da una maggior rappresentatività: negli USA anche i grandi Stati del Midwest hanno i loro due seggi al Senato, anche se la loro popolazione è molto inferiore a quella degli Stati sulla costa. È un metodo, certo non perfetto, di riequilibrare grandi territori poco popolati e piccoli Stati fortemente urbanizzati.

La distribuzione della popolazione, in Italia, è molto diversa. Ma spesso chi ritiene inutili le province vive in grandi centri, come Milano o Roma o Napoli, dove a conti fatti la provincia è davvero un doppione, la cui abolizione non sarà affatto rimpianta. Però la stragrande maggioranza degli italiani non vive in questi grandi centri, ma in territori diversificati dove l’organizzazione provinciale dei trasporti pubblici o delle scuole superiori ha ancora un senso. Di queste cose sarebbe bello discutere, non soltanto sotto l’ombrellone, mentre aspettiamo che Monti & co. ci mostrino la nuova cartina delle province italiane. Più che delle risse di cortile, dell’angoscia dei materani costretti a mescolarsi ai potentini, eccetera eccetera.http://leonardo.blogspot.com
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Ma zio che ci fai nel Mucchio Selvaggio

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Per chi ha cominciato a impratichirsi di cinema guardandolo con un occhio solo nei beati dopocena dell'infanzia, armeggiando nel frattempo coi lego sul tappeto, Ernest Borgnine c'era sempre stato. Come certi rassicuranti Immortali che non vivono nell'olimpo, ma più spesso nel tuo paesino, e a parte l'immortalità sono proprio persone normali che non hanno nessun desiderio di emergere in qualche modo dal paesaggio umano circostante: spesso fanno i bidelli, i fornai, i postini; sei convinto di conoscerli perché li saluti da quando hai imparato a salutare. Ma l'unica cosa che veramente sai di loro è che ci saranno sempre, e la loro faccia non smetterai mai di riconoscerla. Ora che l'ho scritto mi ci vuole poco a immaginare Ernest Borgnine bidello, fornaio, postino. Ma quando dico "Borgnine bidello", dico proprio che riesco a immaginarmelo mentre mi becca nel ripostiglio della palestra mentre armeggio intorno a pericolosissimi strumenti di sollevamento pesi, e mi solleva, lui, manovrando il lobo del mio orecchio destro. No, in realtà non aveva la faccia di Borgnine. Ma appicicare la faccia di Borgnine alle comparse dei propri ricordi d'infanzia è facilissimo. Provate. Visto? Quella faccia era incredibile.


Date un'occhiata per esempio alla galleria pubblicata ieri dal Post, in cui compaiono tra l'altro quasi tutte le sue buffe mogli, e altri uomini celebri, e donne anche belle; ma non c'è niente da fare. Se nella foto c'è lui, la foto è sua. Il punctum se lo mangia, Ernest Borgnine, probabilmente gli rimane incastrato tra i denti. Se dovete spiegare a qualcuno cosa sia la fotogenia, mostrategli Ernest Borgnine. Un attore molto bello (o un po' brutto) può senz'altro ipnotizzarci per un po', ma Borgnine era uno dei pochi che poteva convincerci in qualsiasi momento di essere nostro zio, di esserlo sempre stato, ehi zio! Scusa che non ti ho fatto gli auguri a Natale. Al punto che viene il dubbio che non fosse nemmeno un grande attore, così come un camaleonte non è un esperto pittore: forse la sua espressività irradiata dalle rughe sottociliari era un caso particolarissimo di pareidolia; forse Borgnine non ha mai fatto altro che mostrare la sua faccia, e tutte le emozioni ce le mettevamo noi. Però, accidenti, funzionava. Borgnine ti metteva a tuo agio, anche quando ti trovavi a 24 ore dall'Apocalisse in una Manhattan popolata esclusivamente da mostri e criminali... ma quando hai visto lui hai tirato fiato: va bene, ci saranno i mostri e i criminali, ma c'è anche lo zio che guida il taxi, non può finire troppo male. Non c'era nemmeno bisogno di fargli imparare troppe battute, bastava metterlo in un angolino e la scena, qualsiasi scena, acquistava più realismo e naturalezza: per forza, c'è lo zio. Bisogna anche dire che una delle rare volte che ha fatto il protagonista, ha portato a casa un Oscar, quindi il professionismo c'era. Ma soprattutto c'era quella faccia.

La faccia dei nostri zii, dei nostri nonni. Dentature sgraziate, ma bianchissime di speranza. Una generazione che non è mai stata veramente giovane, tranne forse qualche mese durante la guerra, il tempo per posare in bianco e nero con l'uniforme e la brillantina. Fino agli anni Sessanta di giovani, anche nei film d'azione, non ce ne sono mica tanti. Anche nei film di guerra hanno pance, rughe, passati da rimproverarsi. Alla bruttezza classica del suo tempo, Borgnine aggiungeva un pizzico di esotismo che però (come nell'altro caso eclatante di Charles Bronson) non tradiva nessuna provenienza geografica specifica: Borgnine non era proprio l'americano medio, ma poteva essere qualsiasi esponente di qualsiasi minoranza in qualsiasi momento: dal capo indiano al capoclan di camorra; e i cheyenne e i borsaneristi di Poggioreale avrebbero invariabilmente esclamato: ehi, zio! Per dire, venerdì pomeriggio mentre la creatura giocava col tappeto la tv mostrava un film degli anni Settanta ambientato in Israele: e rieccoli entrambi, Bronson nell'IDF e Borgnine burocrate in un qualche ministero, coi baffoni e la camicia spiegazzata, zio! Ma sei pure ebreo e non mi avevi detto niente? (chiedo scusa, in quel film in realtà non c'è, boh).

Borgnine in realtà era di Hamden, Connecticut; però la mamma era nata a Carpi. Non so quanto questo c'entri col fatto che di tutti i caratteristi del cinema americano '50-'60-'70 è l'unico di cui ho sempre saputo il nome, sempre, fin dai lontani tempi del lego sul tappeto. È pur vero che mi sembra una faccia familiare, ma credo che mi sembrerebbe così anche se fossi vissuto nel Delta del Mississippi; anzi, se socchiudo gli occhi e ci penso tre secondi, riesco a immaginarmi anche Borgnine afroamericano, sputato! Che suona la tromba in qualche vecchio film in B/N, giusto una comparsata mentre Satchmo si terge la fronte.

Non so se il cinema di oggi sia migliore, davvero non lo so, tra l'altro non vado al cinema da così tanto tempo che potrebbe anche essere risorto e rimorto, il cinema. Di sicuro mancano facce come la sua. Certo, se ci voleva un conflitto mondiale a produrle, se ne può anche fare a meno. Però la tranquillità di poter trovare il mio bidello, il mio macellaio in una sequenza - anche in un ruolo di psicopatico, va bene - quella tranquillità che ti trattiene dal cambiare il canale, nei pigri pomeriggi o a tarda notte, quella non mi torna più. Gli attori della mia età non mi mettono a mio agio, molti di loro hanno deciso di non invecchiare e la cosa comincia a inquietarmi. Magari i bambini che giocano sul tappeto al giorno d'oggi li troveranno amabili zii ugualmente. Ci spero; nel frattempo uno come Borgnine mi manca.
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