Il piccolo centravanti africano
03-09-2014, 02:37calcio, migranti, racconti, ragazzini, scuolaPermalink
(I racconti del mese, settembre)
Non è che gli alunni mi salutino mai troppo volentieri, incrociandomi sul corso; ma è ai primi di settembre che cominciano a nascondersi dietro le colonne, quasi vergognandosi di abbronzature perfette. Hanno un gelato in mano e una ben più fredda consapevolezza sulle spalle: non ce la faranno mai a finire i compiti. Li hanno appena iniziati. Forse non vale neanche la pena di provare. Io faccio finta di niente, e penso che forse era più onesto Mahmadou.
Mahmadou era nero e centravanti prima che fosse cool. Non era esattamente un campione - sgambava tra l'area e il centrocampo in magliette sempre troppo larghe sulle spalle, eredità di un fratello maggiore; aveva fiato e un buon tocco, ma era ancora troppo cucciolo per mettere in soggezione terzini e portiere. Anche i suoi compagni più cari lo chiamavano Mamma, soprannome sommamente infelice a cui si era affezionato. Mamma me lo disse chiaro e tondo, quando in giugno fui per dettare i compiti delle vacanze: non se li sarebbe scritti, un po' perché aveva lasciato a casa il diario, un po' perché dai, non ne valeva la pena; quell'anno andava in vacanza anche lui, e non poteva portarsi i libri giù in Africa.
Obiettai che poteva farne comunque un po' prima di partire; mi spiegò che partiva subito, appena finita la scuola; che non ci sarebbe stato nemmeno il tempo di mandare i genitori a ritirare la pagella, l'aereo si stava già scaldando sulla rampa. Né poteva posporli al ritorno, i compiti, perché sarebbe tornato tardissimo, a settembre inoltrato, se non più in là: non dovevamo però preoccuparci, potevamo benissimo cominciare la scuola senza di lui. Portarsi i compiti giù al villaggio? Fuori discussione: anche se si fosse trovato un posticino in valigia - e non c'era - Mamma mi spiegò che la vita nel villaggio è molto diversa da quella che conduciamo qui: c'è tutta una dimensione comunitaria che purtroppo a noi sfugge, blindati come siamo nelle nostre nicchie alienanti. Una volta arrivato laggiù, Mamma si sarebbe messo immediatamente a giocare a pallone coi suoi amici, perché è così che funziona; e non avrebbe smesso finché l'aereo del ritorno non avesse iniziato le procedure di decollo. Mi spiegò, Mahmadou, che la sola idea di dire ai coetanei: "ora non posso giocare, devo fare i compiti" era da rigettare come un ingenuo cascame del mio colonialismo interiore: in una società rurale africana non ci si può isolare dal gruppo, non si possono fare i compiti. La volontà di isolarsi si trasforma immediatamente in uno stigma sociale, quando non somatizza prendendo le forme di una vera e propria malattia. Davvero volevo renderlo un paria, un lebbroso agli occhi dei suoi fratelli? Non poteva fare i compiti; non dipendeva da lui. Eccetera.
"Ora prendi un foglio e te li scrivi lo stesso".
"Ma prof..."
"Qualcuno ha una penna da prestare a Mahmadou?"
Verso i primi d'agosto ormai l'ordine alfabetico degli alunni è un ricordo lontano, che si infrange tra la lettera G e la L. Per quanto possano riempirmi di vita fino a metà giugno, i loro volti svaporano nel giro di due mesi, e così a momenti non riconobbi Mahmadou, un pomeriggio che passai per l'Africa, diretto alla coop. L'Africa in questione era il parcheggio di un centro direzionale affacciato sull'incrocio: un luogo losco a un'ora dal tramonto, ma ideale per il calcetto, a causa di un materiale gommoso, nero, con cui era stato pavimentato, più morbido del cemento - anche se assorbe il calore del primo pomeriggio come una spugna, e non lo lascia andare fino a mezzanotte. Mamma teneva un Supertele in grembo. Lui e i suoi amici indigeni erano seduti sul muretto che delimitava il continente, a prender fiato: sarebbe stato il momento giusto per un sorso d'acqua o magari un gelato, ma avrebbero dovuto lasciare l'Africa nera, attraversare la strada e aprire una linea di credito col barista cinese.
Mahmadou fu di parola: passò tre mesi interi nella sua Africa di quartiere, senza mai venir meno alle regole non scritte della tribù. A settembre tornò tra noi, senza penna né diario. Com'è andata l'Africa, Mahmadou? Bene, prof, bene. Là è tutto diverso, la vita non stinge sotto la pioggia, né imbrunisce col sole. Ogni cosa ha per sempre quel colore con cui uscì dallo stampo.
Non è che gli alunni mi salutino mai troppo volentieri, incrociandomi sul corso; ma è ai primi di settembre che cominciano a nascondersi dietro le colonne, quasi vergognandosi di abbronzature perfette. Hanno un gelato in mano e una ben più fredda consapevolezza sulle spalle: non ce la faranno mai a finire i compiti. Li hanno appena iniziati. Forse non vale neanche la pena di provare. Io faccio finta di niente, e penso che forse era più onesto Mahmadou.
Mahmadou era nero e centravanti prima che fosse cool. Non era esattamente un campione - sgambava tra l'area e il centrocampo in magliette sempre troppo larghe sulle spalle, eredità di un fratello maggiore; aveva fiato e un buon tocco, ma era ancora troppo cucciolo per mettere in soggezione terzini e portiere. Anche i suoi compagni più cari lo chiamavano Mamma, soprannome sommamente infelice a cui si era affezionato. Mamma me lo disse chiaro e tondo, quando in giugno fui per dettare i compiti delle vacanze: non se li sarebbe scritti, un po' perché aveva lasciato a casa il diario, un po' perché dai, non ne valeva la pena; quell'anno andava in vacanza anche lui, e non poteva portarsi i libri giù in Africa.
Obiettai che poteva farne comunque un po' prima di partire; mi spiegò che partiva subito, appena finita la scuola; che non ci sarebbe stato nemmeno il tempo di mandare i genitori a ritirare la pagella, l'aereo si stava già scaldando sulla rampa. Né poteva posporli al ritorno, i compiti, perché sarebbe tornato tardissimo, a settembre inoltrato, se non più in là: non dovevamo però preoccuparci, potevamo benissimo cominciare la scuola senza di lui. Portarsi i compiti giù al villaggio? Fuori discussione: anche se si fosse trovato un posticino in valigia - e non c'era - Mamma mi spiegò che la vita nel villaggio è molto diversa da quella che conduciamo qui: c'è tutta una dimensione comunitaria che purtroppo a noi sfugge, blindati come siamo nelle nostre nicchie alienanti. Una volta arrivato laggiù, Mamma si sarebbe messo immediatamente a giocare a pallone coi suoi amici, perché è così che funziona; e non avrebbe smesso finché l'aereo del ritorno non avesse iniziato le procedure di decollo. Mi spiegò, Mahmadou, che la sola idea di dire ai coetanei: "ora non posso giocare, devo fare i compiti" era da rigettare come un ingenuo cascame del mio colonialismo interiore: in una società rurale africana non ci si può isolare dal gruppo, non si possono fare i compiti. La volontà di isolarsi si trasforma immediatamente in uno stigma sociale, quando non somatizza prendendo le forme di una vera e propria malattia. Davvero volevo renderlo un paria, un lebbroso agli occhi dei suoi fratelli? Non poteva fare i compiti; non dipendeva da lui. Eccetera.
"Ora prendi un foglio e te li scrivi lo stesso".
"Ma prof..."
"Qualcuno ha una penna da prestare a Mahmadou?"
Verso i primi d'agosto ormai l'ordine alfabetico degli alunni è un ricordo lontano, che si infrange tra la lettera G e la L. Per quanto possano riempirmi di vita fino a metà giugno, i loro volti svaporano nel giro di due mesi, e così a momenti non riconobbi Mahmadou, un pomeriggio che passai per l'Africa, diretto alla coop. L'Africa in questione era il parcheggio di un centro direzionale affacciato sull'incrocio: un luogo losco a un'ora dal tramonto, ma ideale per il calcetto, a causa di un materiale gommoso, nero, con cui era stato pavimentato, più morbido del cemento - anche se assorbe il calore del primo pomeriggio come una spugna, e non lo lascia andare fino a mezzanotte. Mamma teneva un Supertele in grembo. Lui e i suoi amici indigeni erano seduti sul muretto che delimitava il continente, a prender fiato: sarebbe stato il momento giusto per un sorso d'acqua o magari un gelato, ma avrebbero dovuto lasciare l'Africa nera, attraversare la strada e aprire una linea di credito col barista cinese.
Mahmadou fu di parola: passò tre mesi interi nella sua Africa di quartiere, senza mai venir meno alle regole non scritte della tribù. A settembre tornò tra noi, senza penna né diario. Com'è andata l'Africa, Mahmadou? Bene, prof, bene. Là è tutto diverso, la vita non stinge sotto la pioggia, né imbrunisce col sole. Ogni cosa ha per sempre quel colore con cui uscì dallo stampo.
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Il giorno in cui i polacchi invasero il Terzo Reich, apparentemente.
31-08-2014, 11:31Almanacco, Leonardo sells outPermalinkLa stazione radio esiste ancora (a Glivice, Polonia). È la più alta struttura in legno in Europa |
Da settimane tutti i quotidiani del Reich riportavano le inquietanti notizie da Danzica, la città di lingua tedesca che i polacchi avevano avuto in dote come sbocco sul mare al Congresso di Versailles. Persino il fuehrer si era scomodato per denunciare le operazioni di pulizia etnica che i polacchi stavano portando avanti a Danzica. Nel frattempo la situazione alla frontiera stava degenerando - i polacchi avevano già ordinato la mobilitazione generale. Francesi e inglesi, sbigottiti, non si erano ancora del tutto resi conto che il verbale della Conferenza di Monaco era carta straccia. In questa situazione, alle otto di sera di 75 anni fa, migliaia di radioascoltatori tedeschi delle regioni orientali sperimentarono uno choc in diretta. Il programma che stavano ascoltando fu all'improvviso interrotto da grida e rumori frastornanti che i reduci riconobbero subito come spari. Poi si sentì una voce slavofona. Chi masticava un po' di polacco spiegò che qualcuno stava usando una radioemittente tedesca per invitare tutti gli slavi del Reich a ribellarsi dal giogo nazista. Mein Gott, i polacchi ci hanno invaso! Possibile?
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I dieci peggiori blog d'opinione d'Italia
30-08-2014, 03:12Almanacco, autoreferenziali, blog, internet, Leonardo sells outPermalink30 agosto 2008 - un oscuro blog dell'epoca arcaica fa incetta di nomination ai Macchianera Blog Awards, come si chiamavano a quel tempo. Sei anni dopo, c'è ancora qualcuno che lo vota, a dispetto di ogni buon senso e logica commerciale.
Ciao, siete meravigliosi. Volevo ringraziare tutti gli affezionati lettori e in particolare le batterie di scimpanzé che Gianluca Neri evidentemente mantiene in cattività in un ambiente cablato (probabilmente spera che scrivano l'Amleto o magari qualcosa di meglio) e che anno dopo anno, quando si tratta di votare per i MIA, continuano a spuntare la voce "leonardo", probabilmente per inerzia. Anche quest'anno sono in lizza per il "miglior post" - mai meno meritato - e per il "miglior blog di opinione", inserito in un mazzo di avversari che mi polverizzeranno. Ve li presento qui di seguito, con un'avvertenza: STO SCHERZANDO. In realtà li stimo tutti molto. No, perché c'è chi si è bevuto la storia del critico musicale e quella della Gioconda falsa, e insomma non si mettono mai abbastanza mani avanti.
Licenza Politica (www.licenzapolitica.it)
Licenza Politica è (apre la pagina) un "blog controcorrente, dall'anima liberale, liberista e libertaria": complimenti, mi sei già salita sulle palle col sottotitolo. E insomma sarà da vent'anni che sfracassate con la trimurti liberali-liberisti-libertari e ogni volta mi verrebbe da chiedervi: ma perché "libertini" no? Cosa v'hanno fatto i libertini, eh? Eh? Restif de la Bretonne non è forse degno di entrare nella vostra accolita di liberti liberati battenti bandiera liberiana? La notizia in homepage è che Stalin è morto. Giuro. No, è un effetto dei layout con le foto immense. Allora io posso anche sbagliarmi, dopotutto sono in giro solo da un milione di anni, però più grosse ci mettete le foto, più piccole sembrano le vostre opinioni. La più recente è sul fallimento dell'Unità, che sarebbe un "fallimento di mercato". Uhm, se ne può discut- NO. Che altro c'è? Un endorsement a Forza Italia perché a inizio luglio devono aver aperto alle coppie gay - me n'ero già dimenticato, per fortuna che c'è Licenza Politica che va controcorrente e mi ricorda queste verità scomode. "Quindi, chapeau Francesca e chapeau Cav. Se questo è il nuovo inizio di Forza Italia, forse la vera rivoluzione liberale non è ancora perduta". Qualcuno ha visto la salma di Gobetti di recente? Mi saprebbe dire quante rotazioni riesce a compiere nel minuto-secondo? No perché io ho questa idea che se riuscissimo ad attaccare una dinamo alla salma di Gobetti avremmo risolto il fabbisogno energetico di una popolosa provincia italiana. È pur vero che le hanno abolite. E poi lui è al Père-Lachaise direi. E coi francesi non si ragiona, loro hanno il nucleare da rivenderci. Les salauds. Stavamo dicendo?
Byoblu (www.byoblu.com)
Ora se ne va in giro per le capitali europee a spese nostre, ma c'è stato un periodo, ve lo giuro, in cui Claudio Messora sembrava più sfigato di me. Lo so che appare impossibile. Ricordo quando l'ho visto per la prima volta risalire le classifiche, e mi domandavo: ma chi è questo sconosciuto, ma cosa fa nella vita a parte dire di aver vinto il festival di Castrocaro? Niente. Aveva scoperto i blog (nel 2007, quando erano già stati dati per morti cinque o sei volte) e aveva mollato tutto per mettere su un videoblog. Pazzo! Avrei voluto dirglielo in faccia. Folle sconsiderato, torna subito a fare il compositore "con all'attivo molti dischi venduti in numerosi paesi del mondo", o il "Project Manager e Amministratore Delegato in start-up di innovazione tecnologica", qualunque cosa, ma lascia queste acque melmose. Non hai capito che uno su mille ce la fa, ed è comunque Beppe Grillo? Non so se fosse già infeudato con la Casaleggio. So che non se la passava bene e non ne faceva mistero:
Era una domanda retorica, vero? No, cristiddio, non devi continuare. Ti sei pure fatto lo spazio su Aruba, seicento euro di microfoni, sei matto da legare. Hai un figlio, una macchina, un mutuo, le spese condominiali, qualcuno faccia qualcosa. Ero veramente preoccupato.
Adesso non sono più così preoccupato. So che di recente ha lasciato il ruolo di responsabile della comunicazione del Gruppo Parlamentare del M5S al Senato della Repubblica per assumere il ruolo di responsabile della comunicazione del M5S al Parlamento Europeo. Insomma direi che alla fine i microfoni li ha ampiamente ammortizzati.
Ciao, siete meravigliosi. Volevo ringraziare tutti gli affezionati lettori e in particolare le batterie di scimpanzé che Gianluca Neri evidentemente mantiene in cattività in un ambiente cablato (probabilmente spera che scrivano l'Amleto o magari qualcosa di meglio) e che anno dopo anno, quando si tratta di votare per i MIA, continuano a spuntare la voce "leonardo", probabilmente per inerzia. Anche quest'anno sono in lizza per il "miglior post" - mai meno meritato - e per il "miglior blog di opinione", inserito in un mazzo di avversari che mi polverizzeranno. Ve li presento qui di seguito, con un'avvertenza: STO SCHERZANDO. In realtà li stimo tutti molto. No, perché c'è chi si è bevuto la storia del critico musicale e quella della Gioconda falsa, e insomma non si mettono mai abbastanza mani avanti.
Dice che si è spento ieri sera alle 21 e 50. |
Licenza Politica è (apre la pagina) un "blog controcorrente, dall'anima liberale, liberista e libertaria": complimenti, mi sei già salita sulle palle col sottotitolo. E insomma sarà da vent'anni che sfracassate con la trimurti liberali-liberisti-libertari e ogni volta mi verrebbe da chiedervi: ma perché "libertini" no? Cosa v'hanno fatto i libertini, eh? Eh? Restif de la Bretonne non è forse degno di entrare nella vostra accolita di liberti liberati battenti bandiera liberiana? La notizia in homepage è che Stalin è morto. Giuro. No, è un effetto dei layout con le foto immense. Allora io posso anche sbagliarmi, dopotutto sono in giro solo da un milione di anni, però più grosse ci mettete le foto, più piccole sembrano le vostre opinioni. La più recente è sul fallimento dell'Unità, che sarebbe un "fallimento di mercato". Uhm, se ne può discut- NO. Che altro c'è? Un endorsement a Forza Italia perché a inizio luglio devono aver aperto alle coppie gay - me n'ero già dimenticato, per fortuna che c'è Licenza Politica che va controcorrente e mi ricorda queste verità scomode. "Quindi, chapeau Francesca e chapeau Cav. Se questo è il nuovo inizio di Forza Italia, forse la vera rivoluzione liberale non è ancora perduta". Qualcuno ha visto la salma di Gobetti di recente? Mi saprebbe dire quante rotazioni riesce a compiere nel minuto-secondo? No perché io ho questa idea che se riuscissimo ad attaccare una dinamo alla salma di Gobetti avremmo risolto il fabbisogno energetico di una popolosa provincia italiana. È pur vero che le hanno abolite. E poi lui è al Père-Lachaise direi. E coi francesi non si ragiona, loro hanno il nucleare da rivenderci. Les salauds. Stavamo dicendo?
Byoblu (www.byoblu.com)
Ora se ne va in giro per le capitali europee a spese nostre, ma c'è stato un periodo, ve lo giuro, in cui Claudio Messora sembrava più sfigato di me. Lo so che appare impossibile. Ricordo quando l'ho visto per la prima volta risalire le classifiche, e mi domandavo: ma chi è questo sconosciuto, ma cosa fa nella vita a parte dire di aver vinto il festival di Castrocaro? Niente. Aveva scoperto i blog (nel 2007, quando erano già stati dati per morti cinque o sei volte) e aveva mollato tutto per mettere su un videoblog. Pazzo! Avrei voluto dirglielo in faccia. Folle sconsiderato, torna subito a fare il compositore "con all'attivo molti dischi venduti in numerosi paesi del mondo", o il "Project Manager e Amministratore Delegato in start-up di innovazione tecnologica", qualunque cosa, ma lascia queste acque melmose. Non hai capito che uno su mille ce la fa, ed è comunque Beppe Grillo? Non so se fosse già infeudato con la Casaleggio. So che non se la passava bene e non ne faceva mistero:
Quanto tempo dedichi al blog? Per lungo tempo ho passato anche 2 o 3 giorni senza dormire. Questo è un videoblog e, a parte adesso che sto lavorando al Documentario INTERNET FOR GIULIANI, l’editing video, tra la registrazione, il montaggio, la conversione e via dicendo, è un lavoro massacrante. [...] Quindi la risposta finale è: 24 ore al giorno. Ma solo perché non ce ne sono di più.
Vedo che hai anche pubblicità nel blog e … quanto ti rende? Domanda ambigua cui, per i motivi che spiegavo prima, non credo di essere costretto a rispondere. Però, siccome non ho nulla da temere, ti allego questa immagine, uno screenshot delle entrate AdSense di oggi: click per scaricare. Potrai e potrete constatare che l’incasso di oggi, per il momento (ma la giornata volge al termine) ammonta a € 5,22, di cui €1,78 da proventi dei banner sul blog, e €3,44 da proventi dei banner sui video di YouTube. Non mi sembra una gran fortuna, soprattutto considerato che solo il server (macchina dedicata su Aruba) costa 1600€ all’anno, altri 1000€ se ne vanno per la connessione domestica alla rete, altri 240€ per quella mobile (se mi sposto, devo lavorare), 1500€ costa la videocamera, 500€ tra luci e cose varie, 600€ di microfoni, 2000€ tra Adobe Premiere e vari altri softare di montaggio video, un qualsiasi spostamento per raggiungere un evento o una persona da intervistare significa altre centinaia di euro, più altre spese che sto tralasciando. In più devi considerare che questo è il mio lavoro – non posso e non ho tempo di farne un altro, per cui ho smesso di fare l’informatico, che mi faceva guadagnare bene – per cui oltre alle spese vive dovrei anche riuscire a guadagnare per pagare il mutuo, la macchina, la scuola di mio figlio, la spese, le bollette, l’amministrazione del condominio e… devo continuare? :)
Era una domanda retorica, vero? No, cristiddio, non devi continuare. Ti sei pure fatto lo spazio su Aruba, seicento euro di microfoni, sei matto da legare. Hai un figlio, una macchina, un mutuo, le spese condominiali, qualcuno faccia qualcosa. Ero veramente preoccupato.
Adesso non sono più così preoccupato. So che di recente ha lasciato il ruolo di responsabile della comunicazione del Gruppo Parlamentare del M5S al Senato della Repubblica per assumere il ruolo di responsabile della comunicazione del M5S al Parlamento Europeo. Insomma direi che alla fine i microfoni li ha ampiamente ammortizzati.
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Il ritorno dell'uomo che insisteva a stroncare i Beatles
29-08-2014, 09:53Almanacco, beatles, Leonardo sells outPermalink29 agosto 1966 - I Beatles terminano il loro tour americano con una data al Candlestick Park di San Francisco. Nemmeno loro lo sanno, ma è il loro penultimo concerto. L'ultimo si terrà tre anni dopo, su un tetto di Londra, ma nessuno lo ricorda davvero volentieri. Nemmeno il nostro beniamino, Sir Perceval R. Deafon, Esq., celebre per aver salutato tutti i loro dischi con abominevoli stroncature che oggi terminiamo di pubblicare (le prime sono qui). Ci tengo comunque a far presente che a me invece i Beatles piacciono.
Abbey Road (Apple Music, 1969)
Quando l'anno scorso uscì il disco bianco, mi permisi di scrivere che i Beatles erano ufficialmente finiti; che il seguito di un disco così straordinario (nel bene e nel male) mi sembrava inimmaginabile. Avevo ragione. Il disco che segna il ritorno dei Quattro è davvero, in qualche modo, inimmaginabile. Una mossa laterale, che non risolve le tensioni dell'album precedente, ma nemmeno le allevia, prolungando in qualche modo l'agonia di un sodalizio di musicisti ormai in aperto conflitto tra loro, tenuti assieme da qualche obbligo contrattuale e dall'inerzia. Sappiamo che dopo aver seriamente rischiato lo scioglimento - il disco bianco testimonia a suo modo un processo già ben avviato di disgregazione - il gruppo nello scorso gennaio aveva tentato una marcia indietro, nel tentativo di incidere un nuovo disco in presa diretta, come ai vecchi tempi: un tentativo subito abortito. A questo punto cosa restava da fare? Separarsi non aveva funzionato, tornare assieme neppure - è come se, messi di fronte a una decisione importante da prendere, una di quelle che possono consacrare o rovinare la carriera, i quattro milionari si siano semplicemente rifiutati di imboccare una qualsiasi delle strade che avevano davanti, e si fossero messi a chiacchierare del più e del meno sotto le indicazioni stradali, permettendosi anche di fare un po' di musica, nel modo superficiale e inconcludente che è l'unico che ancora gli riesce e che gli riuscirà, temo, finché resteranno assieme a tarparsi le ali a vicenda.
La prima facciata di questo disco non potrebbe illustrare meglio questa impressione: più che un album unitario sembra una compilation di artisti diversi (c'è anche l'ora dell'eterno debuttante, il simpatico Richard Starkey con la sua nuova canzoncina simpatica ma non proprio indispensabile). Non solo non c'è più compatibilità tra le canzoni di Paul o John, ma persino i pezzi di Paul (l'irritante Maxwell's Silver Hammer e il pastiche doo-wop di Oh! Darling) non sembrano davvero composti dalla stessa penna. All'eclettismo del rivale, John reagisce con la reiterazione ossessiva degli stessi temi e persino degli stessi accordi: ormai scrive solo dei blues. A volte li infioretta coi suoi soliti nonsense (Come together), troppo furbi per sembrare davvero ispirati; in altri casi ormai non si preoccupa nemmeno più di scrivere una seconda strofa - l'uomo che ha già riempito otto minuti di un disco pop con una collezione di rumori di fondo può ben permettersi stavolta di cantare nient'altro che "I want you so bad it's driving me mad" per altri sette. Probabilmente si aspetta che lo ringraziamo.
E George? Tutti si stanno congratulando per come è riuscito a uscire dall'ombra dei due colleghi più famosi. Nessuno sembra voler notare che questa emancipazione è avvenuta a scapito dell'originalità: accantonati ormai i sitar e la tabla che pure avevano portato una ventata d'aria fresca in Rubber Soul e nobilitato perfino Sgt. Pepper, Harrison si è messo a scrivere pezzi in perfetto stile Lennon-McCartney: proprio nel momento in cui il vero Lennon e il vero McCartney probabilmente neanche si parlano più. Something e Here Comes the Sun mettono assieme il meglio, ma anche e soprattutto il peggio di entrambi i maestri: la saccarina di Paul e la goffa irresolutezza di John. Poi c'è la facciata B, la definitiva resa dei tre colleghi alle incomprensibili ambizioni di Paul McCartney: questo ventenne che qualche anno fa cantando il rock'n'roll scatenava l'isteria in milioni di ragazzine, e che improvvisamente ha deciso di mettersi a comporre operette per scolaresche primarie e nonnetti orfani di Gilbert e Sullivan. Immaginatelo arrivare negli studi, recuperare una dozzina di abbozzi di canzone mai sviluppati per stanchezza o per disperazione, e appiccicarli assieme senza soluzione di continuità e di buon gusto. Ecco, con questo pastrocchio - impreziosito da involuti aborti di John, rabberciati insieme probabilmente contro la sua volontà - dovrebbe concludersi la traiettoria della rock band più famosa del mondo. Come non rimpiangere i tempi di Tomorrow Never Knows, o il crescendo struggente di A Day in the Life? E invece la storia sembra proprio finire così. Non con un bang, nemmeno con un sussurro, o con la sciocca gara di assoli di The End. La storia finisce con una filastrocca di venti secondi, uno scarto di missaggio in cui Paul McCartney ripromette di farsi la regina. Un finale tanto indegno, imbarazzante, avvilente per il gruppo che più ci ha fatto sognare, è una cosa difficile da accettare. E invece dovremmo sentici sollevati: coraggio, almeno l'agonia è finita.
Abbey Road (Apple Music, 1969)
Quando l'anno scorso uscì il disco bianco, mi permisi di scrivere che i Beatles erano ufficialmente finiti; che il seguito di un disco così straordinario (nel bene e nel male) mi sembrava inimmaginabile. Avevo ragione. Il disco che segna il ritorno dei Quattro è davvero, in qualche modo, inimmaginabile. Una mossa laterale, che non risolve le tensioni dell'album precedente, ma nemmeno le allevia, prolungando in qualche modo l'agonia di un sodalizio di musicisti ormai in aperto conflitto tra loro, tenuti assieme da qualche obbligo contrattuale e dall'inerzia. Sappiamo che dopo aver seriamente rischiato lo scioglimento - il disco bianco testimonia a suo modo un processo già ben avviato di disgregazione - il gruppo nello scorso gennaio aveva tentato una marcia indietro, nel tentativo di incidere un nuovo disco in presa diretta, come ai vecchi tempi: un tentativo subito abortito. A questo punto cosa restava da fare? Separarsi non aveva funzionato, tornare assieme neppure - è come se, messi di fronte a una decisione importante da prendere, una di quelle che possono consacrare o rovinare la carriera, i quattro milionari si siano semplicemente rifiutati di imboccare una qualsiasi delle strade che avevano davanti, e si fossero messi a chiacchierare del più e del meno sotto le indicazioni stradali, permettendosi anche di fare un po' di musica, nel modo superficiale e inconcludente che è l'unico che ancora gli riesce e che gli riuscirà, temo, finché resteranno assieme a tarparsi le ali a vicenda.
La prima facciata di questo disco non potrebbe illustrare meglio questa impressione: più che un album unitario sembra una compilation di artisti diversi (c'è anche l'ora dell'eterno debuttante, il simpatico Richard Starkey con la sua nuova canzoncina simpatica ma non proprio indispensabile). Non solo non c'è più compatibilità tra le canzoni di Paul o John, ma persino i pezzi di Paul (l'irritante Maxwell's Silver Hammer e il pastiche doo-wop di Oh! Darling) non sembrano davvero composti dalla stessa penna. All'eclettismo del rivale, John reagisce con la reiterazione ossessiva degli stessi temi e persino degli stessi accordi: ormai scrive solo dei blues. A volte li infioretta coi suoi soliti nonsense (Come together), troppo furbi per sembrare davvero ispirati; in altri casi ormai non si preoccupa nemmeno più di scrivere una seconda strofa - l'uomo che ha già riempito otto minuti di un disco pop con una collezione di rumori di fondo può ben permettersi stavolta di cantare nient'altro che "I want you so bad it's driving me mad" per altri sette. Probabilmente si aspetta che lo ringraziamo.
E George? Tutti si stanno congratulando per come è riuscito a uscire dall'ombra dei due colleghi più famosi. Nessuno sembra voler notare che questa emancipazione è avvenuta a scapito dell'originalità: accantonati ormai i sitar e la tabla che pure avevano portato una ventata d'aria fresca in Rubber Soul e nobilitato perfino Sgt. Pepper, Harrison si è messo a scrivere pezzi in perfetto stile Lennon-McCartney: proprio nel momento in cui il vero Lennon e il vero McCartney probabilmente neanche si parlano più. Something e Here Comes the Sun mettono assieme il meglio, ma anche e soprattutto il peggio di entrambi i maestri: la saccarina di Paul e la goffa irresolutezza di John. Poi c'è la facciata B, la definitiva resa dei tre colleghi alle incomprensibili ambizioni di Paul McCartney: questo ventenne che qualche anno fa cantando il rock'n'roll scatenava l'isteria in milioni di ragazzine, e che improvvisamente ha deciso di mettersi a comporre operette per scolaresche primarie e nonnetti orfani di Gilbert e Sullivan. Immaginatelo arrivare negli studi, recuperare una dozzina di abbozzi di canzone mai sviluppati per stanchezza o per disperazione, e appiccicarli assieme senza soluzione di continuità e di buon gusto. Ecco, con questo pastrocchio - impreziosito da involuti aborti di John, rabberciati insieme probabilmente contro la sua volontà - dovrebbe concludersi la traiettoria della rock band più famosa del mondo. Come non rimpiangere i tempi di Tomorrow Never Knows, o il crescendo struggente di A Day in the Life? E invece la storia sembra proprio finire così. Non con un bang, nemmeno con un sussurro, o con la sciocca gara di assoli di The End. La storia finisce con una filastrocca di venti secondi, uno scarto di missaggio in cui Paul McCartney ripromette di farsi la regina. Un finale tanto indegno, imbarazzante, avvilente per il gruppo che più ci ha fatto sognare, è una cosa difficile da accettare. E invece dovremmo sentici sollevati: coraggio, almeno l'agonia è finita.
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Come tenere i negretti al loro posto
28-08-2014, 17:33Almanacco, Americana, anniversari, Leonardo sells out, razzismiPermalink
28 agosto 1955 - Emmett Till viene seviziato, ucciso, gettato come un rifiuto nelle acque limacciose del fiume Tallahatchie. I suoi assassini, subito arrestati, non saranno mai puniti.
A casa del pastore Wright arrivarono alle due del mattino, senza infilare cappucci bianchi o altre pagliacciate: che bisogno c'era di nascondersi? Erano armati e avevano le torce. C'erano Roy Bryant e il fratellastro JW Milam, e qualcun altro che lavorava con loro e forse era nero. Chiesero a Wright di vedere gli amici di famiglia, i tre ragazzi di Chicago venuti in villeggiatura. Chi dei tre era passato dalla bottega di Bryant quattro giorni prima, chi dei tre aveva rivolto la parola alla moglie di Roy? Fu Emmett a rispondere: sono stato io. Aveva quattordici anni, ma sembrava più grande. Gli dissero di vestirsi, che doveva venire con loro. Il pastore non protestò troppo, sapeva cosa stava rischiando. Solo la zia fece un po' di baccano. Senza vergogna offrì del denaro a Bryant e Milam. Finsero di non averla sentita. Infilarono il ragazzo nel pick-up e sparirono. Mose Wright attese venti minuti, poi prese la macchina e si diresse verso il centro del paese. È là che l'avrebbe ritrovato, se i due volevano soltanto dargli una lezione e poi lasciarlo libero. Ma Emmett non era pratico della zona e c'era comunque rischio che si perdesse.
Emmett fu picchiato con criterio, forse col calcio di una pistola. In un fienile, e poi di nuovo sul pick-up. In una baracca in mezzo a una piantagione, e sul pick-up di nuovo. Non riuscivano a lasciarlo andare. Ammesso che l'idea iniziale fosse davvero di risparmiarlo, il ragazzo non stava reagendo nel modo giusto.
A casa del pastore Wright arrivarono alle due del mattino, senza infilare cappucci bianchi o altre pagliacciate: che bisogno c'era di nascondersi? Erano armati e avevano le torce. C'erano Roy Bryant e il fratellastro JW Milam, e qualcun altro che lavorava con loro e forse era nero. Chiesero a Wright di vedere gli amici di famiglia, i tre ragazzi di Chicago venuti in villeggiatura. Chi dei tre era passato dalla bottega di Bryant quattro giorni prima, chi dei tre aveva rivolto la parola alla moglie di Roy? Fu Emmett a rispondere: sono stato io. Aveva quattordici anni, ma sembrava più grande. Gli dissero di vestirsi, che doveva venire con loro. Il pastore non protestò troppo, sapeva cosa stava rischiando. Solo la zia fece un po' di baccano. Senza vergogna offrì del denaro a Bryant e Milam. Finsero di non averla sentita. Infilarono il ragazzo nel pick-up e sparirono. Mose Wright attese venti minuti, poi prese la macchina e si diresse verso il centro del paese. È là che l'avrebbe ritrovato, se i due volevano soltanto dargli una lezione e poi lasciarlo libero. Ma Emmett non era pratico della zona e c'era comunque rischio che si perdesse.
Emmett fu picchiato con criterio, forse col calcio di una pistola. In un fienile, e poi di nuovo sul pick-up. In una baracca in mezzo a una piantagione, e sul pick-up di nuovo. Non riuscivano a lasciarlo andare. Ammesso che l'idea iniziale fosse davvero di risparmiarlo, il ragazzo non stava reagendo nel modo giusto.
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L'uomo che stroncava i Beatles
27-08-2014, 16:30Almanacco, beatles, Leonardo sells outPermalink27 agosto 1967 - I Beatles vengono ricevuti dal guru Maharishi Mahesh Yogi. Nel frattempo il loro manager, Brian Epstein, muore per overdose di carbamazepina. L'evento tragico segna l'inizio della fine per il gruppo (che si scioglierà ufficialmente due anni dopo), almeno a detta di alcuni critici. Tra costoro non manca, come avrete indovinato, Sir Perceval Reginald Deafon, Esq., il critico che tra il 1963 e il 1970 stroncò tutti i dischi dei Beatles. Proseguiamo la pubblicazione delle sue recensioni (le prime sono qui).
Magical Mistery Tour (Capital Records, 1967)
Magical Mistery Tour è la colonna sonora del prossimo film dei Beatles, che sarà trasmesso a quanto pare dalla BBC a Natale. Nel Regno Unito verrà pubblicata solo la prossima settimana nell'assurdo formato di doppio EP - sì, i fans dei Beatles dovranno cambiare quattro facciate per ascoltare sei canzoni: fino a questo livello si sta spingendo il sadismo dei loro beniamini. Negli USA la colonna sonora è già uscita sotto forma di LP, insieme agli altri singoli prodotti dai Beatles in quest'anno per loro così difficile. Non dubitiamo che il pubblico premierà anche questo assortimento un po' raccogliticcio, e che la maggior parte dei miei colleghi critici non perderà l'occasione per abbaiare all'ennesimo capolavoro. E in effetti se avete apprezzato lo sconclusionato disco precedente non avrete difficoltà a farvi piacere anche questo, che se non altro è un po' meno ambizioso. Rimane in chi scrive l'impressione che il gruppo, dopo aver perso tragicamente il manager, abbia del tutto smarrito la direzione. Sepolto alla chetichella il cadavere del rock'n'roll (non c'è una sola canzone in questa raccolta che ricordi le gloriose origini della band), il viaggio magico e misterioso dei Beatles verso qualche nuova dimensione musicale si perde subito dopo la partenza in qualche nebbiosa regione al confine tra la filastrocca infantile e i peggiori vezzi dell'avanguardia. Qui i due compositori del gruppo si dividono, forse per sempre: McCartney sembra puntare esplicitamente a un pubblico inferiore ai dodici anni di età, l'unico a poter trarre qualche soddisfazione dall'ascolto di brani ormai dichiaratamente disneyani come Hello Goodbye o The Fool on the Hill. È una strategia un po' avvilente, ma ha almeno un senso commerciale. Meno comprensibile sembra la svolta artistoide di John Lennon, che qualche misteriosa pillola ha radicalmente trasformato nel giro di pochi mesi: da macho sbruffone a sognante poeta surrealista da due soldi, purtroppo assecondato da un George Martin sempre più debordante - riguardo a quest'ultimo, sembra ormai impossibile immaginare un solo orpello che non gli piaccia: ottoni, violini, chiacchiere in sottofondo, disturbi di ricezione radio e altri rumori assortiti, nel tentativo sempre più disperato di distoglierci da canzoni poco riuscite come quella Strawberry Fields che ci afflisse un anno fa, o il bislacco talking blues di I Am the Walrus. Martin è anche il principale indiziato per quel crimine contro la musica che porta il titolo di All You Need Is Love, l'inno intonato (si fa per dire) in mondovisione la scorsa estate. Un patchwork di Marsigliese e In the Mood, cantato ovviamente fuoritempo da un Lennon in versione guru che dovrebbe spalancare in noi qualche nuovo livello di consapevolezza e invece riesce a farci venire tanta voglia di riascoltare Nowhere Man, Girl, persino Michelle - pensate, era appena il 1965 quando ci concedevamo il lusso di trovare difetti in canzoni del genere. Magari non erano capolavori, ma provate ad accostarle a queste sciocchezze posticce, a questi variopinti specchietti per le allodole: e ditemi se al confronto anche un disco come Rubber Soul non vi sembra oro puro.
The Beatles (Apple Music, 1968)
Che i Beatles fossero ormai al capolinea come gruppo era chiaro sin dal sopravvalutato 'capolavoro' dell'anno scorso, dove la frattura tra l'eclettismo pop di Paul e le fumisterie di John sembrava già insanabile. Rammentate come suonava già 'strano' sentire a un certo punto la voce del primo in A Day in the Life? come se Paul non avesse già cantato in dozzine di canzoni di John e viceversa. A distanza di un anno (e tacendo per pietà sul flop televisivo natalizio) anche quella collaborazione tra i due sembra un ricordo lontano: la novità del nuovo anonimo disco doppio è che i Beatles non sono più semplicemente due compositori distinti e autonomi, ma tre - facciamo tre e mezzo: non solo George si è definitivamente emancipato, ma persino Ringo è riuscito a firmare una canzone e non è neanche la peggiore del mucchio. Lo spazio finalmente concesso dai due storici autori ai comprimari è uno dei tanti segnali di quanto sia grave la crisi d'ispirazione che li ha costretti a licenziare, dopo mesi di lavoro, questo strano monumento al nulla, questo album di trenta canzoni, di mille colori che sovrapposti finiscono per diventarne uno solo, un bianco uniforme spalmato sulla pietra tombale del quartetto che pochi anni fa incantava il mondo. All'interno c'è un'interminabile ora e mezza di sgargiante confusione: decine di idee anche buone, ma pigiate l'una contro l'altra senza criterio, e incise con negligenza; come se i Beatles ormai senza guida avessero capricciosamente deciso di buttar via il risultato finale e pubblicare le prove. Si fatica a immaginare John Lennon in studio durante l'incisione di brani dall'alto contenuto di saccarina come Mother's Nature Sun o Marha my Dear; parimenti, sembra impossibile che Paul McCartney abbia acconsentito a pubblicare abbozzi incompiuti, veri e propri aborti come I'm so Tired o Happiness Is a Warm Gun.
Non è che manchi in quattro facciate qualche canzone gradevole: Obladì obladà farà senz'altro la gioia di nonne e bambini, Birthday e Everybody's Got Something to Hide sono due graditi ritorni al rock'n'roll, While my Guitar ha quanto meno un assolo decente (è di Eric Clapton). Revolution 9 invece è la sfida definitiva di John al masochismo dei suoi fan. Ci sembra di immaginarlo mentre pasticcia coi nastri e sogghigna: siete riusciti a farvi piacere quell'accrocchio rumorista di I Am the Walrus? Vediamo ora cosa vi inventerete pur di mostrarvi entusiasti di fronte a otto minuti di scarti di registrazione. C'è, insomma, del genio anche in questo disco. Ma è disseminato in una foresta di abbozzi lasciati a metà, pastiche scopertamente artificiosi di cui nessuno sentiva la necessità (il numero alla Donovan, il numero country, il numero vaudeville, la ninna-nanna...) Come se i quattro soci fondatori della Apple, che per convenzione e convenienza economica incidono ancora assieme con lo pseudonimo di The Beatles, non sopportassero l'idea di essere solo una band; magari la più famosa del mondo, ma una sola. Come se non riuscissero ad accettare che gli anni in cui potevano rappresentare tutto l'entusiasmo di una generazione semplicemente ondeggiando il caschetto e intonando un whoa yeah sono finiti per sempre. Non possono essere sempre più blues dei Rolling Stones, più hard rock degli Who, più old fashioned dei Kinks, più à la page degli Small Faces, più visionari dei Pink Floyd, più barocchi dei Beach Boys, più ispirati di Dylan, più avant-garde dei Soft Machine, eccetera. Non possono essere tutto, ma a furia di provarci si stanno trasformando in... niente, in quel bianco anonimo che campeggia sulla copertina che li descrive meglio di qualsiasi recensione. L'unica consolazione è che dopo un disco del genere, non ci può più davvero essere nient'altro. Ognuno dei quattro andrà per la sua strada, verso una maturità artistica che farà dimenticare - ce lo auguriamo - le false partenze accumulate in questi due anni di transizione. (Continua...)
Magical Mistery Tour (Capital Records, 1967)
Magical Mistery Tour è la colonna sonora del prossimo film dei Beatles, che sarà trasmesso a quanto pare dalla BBC a Natale. Nel Regno Unito verrà pubblicata solo la prossima settimana nell'assurdo formato di doppio EP - sì, i fans dei Beatles dovranno cambiare quattro facciate per ascoltare sei canzoni: fino a questo livello si sta spingendo il sadismo dei loro beniamini. Negli USA la colonna sonora è già uscita sotto forma di LP, insieme agli altri singoli prodotti dai Beatles in quest'anno per loro così difficile. Non dubitiamo che il pubblico premierà anche questo assortimento un po' raccogliticcio, e che la maggior parte dei miei colleghi critici non perderà l'occasione per abbaiare all'ennesimo capolavoro. E in effetti se avete apprezzato lo sconclusionato disco precedente non avrete difficoltà a farvi piacere anche questo, che se non altro è un po' meno ambizioso. Rimane in chi scrive l'impressione che il gruppo, dopo aver perso tragicamente il manager, abbia del tutto smarrito la direzione. Sepolto alla chetichella il cadavere del rock'n'roll (non c'è una sola canzone in questa raccolta che ricordi le gloriose origini della band), il viaggio magico e misterioso dei Beatles verso qualche nuova dimensione musicale si perde subito dopo la partenza in qualche nebbiosa regione al confine tra la filastrocca infantile e i peggiori vezzi dell'avanguardia. Qui i due compositori del gruppo si dividono, forse per sempre: McCartney sembra puntare esplicitamente a un pubblico inferiore ai dodici anni di età, l'unico a poter trarre qualche soddisfazione dall'ascolto di brani ormai dichiaratamente disneyani come Hello Goodbye o The Fool on the Hill. È una strategia un po' avvilente, ma ha almeno un senso commerciale. Meno comprensibile sembra la svolta artistoide di John Lennon, che qualche misteriosa pillola ha radicalmente trasformato nel giro di pochi mesi: da macho sbruffone a sognante poeta surrealista da due soldi, purtroppo assecondato da un George Martin sempre più debordante - riguardo a quest'ultimo, sembra ormai impossibile immaginare un solo orpello che non gli piaccia: ottoni, violini, chiacchiere in sottofondo, disturbi di ricezione radio e altri rumori assortiti, nel tentativo sempre più disperato di distoglierci da canzoni poco riuscite come quella Strawberry Fields che ci afflisse un anno fa, o il bislacco talking blues di I Am the Walrus. Martin è anche il principale indiziato per quel crimine contro la musica che porta il titolo di All You Need Is Love, l'inno intonato (si fa per dire) in mondovisione la scorsa estate. Un patchwork di Marsigliese e In the Mood, cantato ovviamente fuoritempo da un Lennon in versione guru che dovrebbe spalancare in noi qualche nuovo livello di consapevolezza e invece riesce a farci venire tanta voglia di riascoltare Nowhere Man, Girl, persino Michelle - pensate, era appena il 1965 quando ci concedevamo il lusso di trovare difetti in canzoni del genere. Magari non erano capolavori, ma provate ad accostarle a queste sciocchezze posticce, a questi variopinti specchietti per le allodole: e ditemi se al confronto anche un disco come Rubber Soul non vi sembra oro puro.
The Beatles (Apple Music, 1968)
Che i Beatles fossero ormai al capolinea come gruppo era chiaro sin dal sopravvalutato 'capolavoro' dell'anno scorso, dove la frattura tra l'eclettismo pop di Paul e le fumisterie di John sembrava già insanabile. Rammentate come suonava già 'strano' sentire a un certo punto la voce del primo in A Day in the Life? come se Paul non avesse già cantato in dozzine di canzoni di John e viceversa. A distanza di un anno (e tacendo per pietà sul flop televisivo natalizio) anche quella collaborazione tra i due sembra un ricordo lontano: la novità del nuovo anonimo disco doppio è che i Beatles non sono più semplicemente due compositori distinti e autonomi, ma tre - facciamo tre e mezzo: non solo George si è definitivamente emancipato, ma persino Ringo è riuscito a firmare una canzone e non è neanche la peggiore del mucchio. Lo spazio finalmente concesso dai due storici autori ai comprimari è uno dei tanti segnali di quanto sia grave la crisi d'ispirazione che li ha costretti a licenziare, dopo mesi di lavoro, questo strano monumento al nulla, questo album di trenta canzoni, di mille colori che sovrapposti finiscono per diventarne uno solo, un bianco uniforme spalmato sulla pietra tombale del quartetto che pochi anni fa incantava il mondo. All'interno c'è un'interminabile ora e mezza di sgargiante confusione: decine di idee anche buone, ma pigiate l'una contro l'altra senza criterio, e incise con negligenza; come se i Beatles ormai senza guida avessero capricciosamente deciso di buttar via il risultato finale e pubblicare le prove. Si fatica a immaginare John Lennon in studio durante l'incisione di brani dall'alto contenuto di saccarina come Mother's Nature Sun o Marha my Dear; parimenti, sembra impossibile che Paul McCartney abbia acconsentito a pubblicare abbozzi incompiuti, veri e propri aborti come I'm so Tired o Happiness Is a Warm Gun.
Non è che manchi in quattro facciate qualche canzone gradevole: Obladì obladà farà senz'altro la gioia di nonne e bambini, Birthday e Everybody's Got Something to Hide sono due graditi ritorni al rock'n'roll, While my Guitar ha quanto meno un assolo decente (è di Eric Clapton). Revolution 9 invece è la sfida definitiva di John al masochismo dei suoi fan. Ci sembra di immaginarlo mentre pasticcia coi nastri e sogghigna: siete riusciti a farvi piacere quell'accrocchio rumorista di I Am the Walrus? Vediamo ora cosa vi inventerete pur di mostrarvi entusiasti di fronte a otto minuti di scarti di registrazione. C'è, insomma, del genio anche in questo disco. Ma è disseminato in una foresta di abbozzi lasciati a metà, pastiche scopertamente artificiosi di cui nessuno sentiva la necessità (il numero alla Donovan, il numero country, il numero vaudeville, la ninna-nanna...) Come se i quattro soci fondatori della Apple, che per convenzione e convenienza economica incidono ancora assieme con lo pseudonimo di The Beatles, non sopportassero l'idea di essere solo una band; magari la più famosa del mondo, ma una sola. Come se non riuscissero ad accettare che gli anni in cui potevano rappresentare tutto l'entusiasmo di una generazione semplicemente ondeggiando il caschetto e intonando un whoa yeah sono finiti per sempre. Non possono essere sempre più blues dei Rolling Stones, più hard rock degli Who, più old fashioned dei Kinks, più à la page degli Small Faces, più visionari dei Pink Floyd, più barocchi dei Beach Boys, più ispirati di Dylan, più avant-garde dei Soft Machine, eccetera. Non possono essere tutto, ma a furia di provarci si stanno trasformando in... niente, in quel bianco anonimo che campeggia sulla copertina che li descrive meglio di qualsiasi recensione. L'unica consolazione è che dopo un disco del genere, non ci può più davvero essere nient'altro. Ognuno dei quattro andrà per la sua strada, verso una maturità artistica che farà dimenticare - ce lo auguriamo - le false partenze accumulate in questi due anni di transizione. (Continua...)
E se George W Bush avesse avuto ragione?
27-08-2014, 03:18Bush, guerra, terrorismoPermalinkIl nemico perfetto
La guerra, quindi, se giudichiamo dall'esperienza delle guerre passate non è se non una impostura. È come quei combattimenti fra certi animali appartenenti alla specie dei ruminanti, e le cui corna crescono secondo determinati angoli tali da impedire che essi possano effettivamente ferirsi l'un l'altro. Sfrutta in modo totale le eccedenze dei beni di consumo, ed aiuta, nel contempo, a conservare quella particolare atmosfera mentale che si richiede ad una società organizzata gerarchicamente. La guerra, come si vede, non è altro che un affare di politica interna. (E. Goldstein, Teoria e pratica del collettivismo oligarchico).
1. A un certo punto - più o meno a ridosso delle primavere arabe - abbiamo credo in molti percepito un'accelerazione degli eventi che mal si accordava con la nostra disponibilità, sempre più scarsa, a comprenderli. Avevamo tutti i nostri schemini, più o meno gli stessi dai tempi della Guerra al Terrore, e quando abbiamo visto che in Siria o in Libia non funzionavano più, non ci siamo dati troppa pena di abbozzarne altri. Avevamo già un sacco di problemi a casa nostra.
Quest'accelerazione, che magari segna l'inizio di una fase di instabilità mondiale, potrebbe viceversa essere del tutto soggettiva: siamo noi che rallentiamo, invecchiando. Se quel che succede in Palestina continua a interessarci un po' di più. non è perché la situazione sia meno ingarbugliata, ma perché ci abbiamo investito tanto tempo e attenzione che continua a risultarci più familiare. Come se l'Hamas di oggi fosse la stessa di dieci anni fa, come se Abu Mazen avesse mai più vinto un'elezione, eccetera.
La Siria viceversa è un pastrocchio inedito da cui abbiamo cercato di prendere le distanze. Chi non lo ha fatto - chi all'inizio ha parteggiato per gli insorti, o per Assad - adesso si ritrova scottato. Noi possiamo anche sopportare di risvegliarci in un mediterraneo che sfugge alle nostre capacità di comprensione, purché non ci tocchi ammettere che a un certo punto della discussione avevamo avuto torto. Piuttosto ce ne stiamo zitti, il che poi è quasi sempre l'opzione più elegante. Troppe cose ci sfuggono, troppi contendenti danno l'impressione di fare il doppio gioco. Ma a dirlo si passa per complottisti, che è pure peggio. La sensazione di non capire è tutto sommato sopportabile - l'esempio di tanti intellettuali svagati alla vigilia di ogni guerra mondiale ci conforta. L'unica cosa che non sopportiamo è che qualcuno ogni tanto ci voglia fregare. C'è sempre qualcuno che ci prova. È umiliante.
2. Prendi l'ISIS. Sembra davvero una cosa orrenda, anzi sicuramente lo è. Ma perché ce lo stanno vendendo come un'organizzazione terroristica? Le BR erano un'organizzazione terroristica. Settembre Nero era un'organizzazione terroristica. Al Qaida era una rete molto lasca di organizzazioni terroristiche quasi del tutto autonome tra di loro, che hanno organizzato attentati in una vasta porzione del mondo. L'ISIS, per adesso, no. È un'organizzazione o banda armata che ha imposto il suo controllo su un territorio vasto come una nazione, attraverso la violenza e il terrore. Gli osservatori la considerano ben organizzata e ben finanziata. Però attentati - per ora - non ne fa.
Tante altre dittature in tutto il mondo massacrano i propri cittadini e quelli dei paesi confinanti; non li chiamiamo però terroristi, non abbiamo bisogno di chiamarli così per esecrarli. Con l'ISIS è diverso. Non fa attentati (per ora) ma diamo per scontato che vorrebbe farli. Terroristi in potenza, insomma. Dobbiamo crederci per forza?
Tra le righe si intuisce un ragionamento: se l'ISIS per ora non è riuscita a terrorizzarci come vorrebbe, c'è solo da ringraziare lo stato dell'arte dell'antiterrorismo non solo aeroportuale. Tutte quelle leggi che hanno un po' ristretto le nostre libertà individuali; tutte quelle pratiche non sempre illegali che hanno consentito alla NSA di farsi un bel backup delle nostre conversazioni telefoniche; sì, è molto seccante, ma se l'alternativa è precipitare in un aereo di linea o soffocare in una metropolitana, non ci formalizzeremo più di tanto. Insomma, nel grande dibattito sulla libertà della Rete, lo spauracchio dell'ISIS ha una sua indubbia utilità. Che poi l'ISIS stia mostrando, nei fatti, tutta un'altra strategia, è un dettaglio in fondo trascurabile. Anzi, dimostra quanto il terrorismo stragista stia diventando impraticabile in Occidente. Anche se.
3. Anche se tre anni fa Anders Breivik ha fatto esplodere una bomba nella sede del governo a Oslo, e mentre la polizia accorreva si è spostato nell'isola dove campeggiavano i giovani socialdemocratici e ne ha ammazzati 69. Forse la Norvegia è un caso particolare, ma quel che è successo nell'isola di Utoya ci lascia sospettare che lo stragismo non sia poi così impraticabile come sembra. Gli eccidi antisemiti di Tolosa o Bruxelles ce lo confermano. In tutti questi casi però lo stragista sembra un individuo isolato, che magari si richiama a un'ideologia o a un'organizzazione (l'assassino di Tolosa si ispirava ancora ad Al Qaida), ma agiscono in solitudine. È proprio questa solitudine a costituire un vantaggio tattico: il fatto di non dover concertare con nessuno le proprie azioni rende questi assassini meno identificabili e tracciabili.
Ora, se esistesse realmente una grande organizzazione, ben finanziata, determinata a destabilizzare l'Occidente attraverso azioni terroristiche, non tarderebbe a trarre le sue conclusioni e a disseminare Europa e USA di aspiranti kamikaze, tutti assolutamente non coordinati fra di loro, con un unico ordine: ammazzare e distruggere quel che possono, appena possono. Un'infiltrazione di questo tipo, lungo le correnti dell'immigrazione mondiale, non sarebbe così difficile. E magari è quello che sta succedendo; però quel che osserviamo per adesso sembra suggerirci l'esatto contrario. I cosiddetti terroristi del Medio Oriente non stanno infiltrando l'occidente: piuttosto, ci sono migliaia di occidentali (non tutti di origine araba) che se ne stanno andando a combattere nella Siria e nel Levante. Senza che alle frontiere si faccia molto per trattenerli, a quanto pare. Gente che fino a qualche anno fa avrebbe potuto esprimere il suo disagio facendosi esplodere davanti a un macdonald o a una sinagoga (cito due episodi avvenuti in Italia negli anni di Bush), oggi è più facilmente tentata di far la valigia e arruolarsi nell'ISIS. In luogo di rianimare il terrorismo semispento in occidente, l'ISIS per ora sembra quasi che ne stia assorbendo gli ultimi fuochi. Tutto questo sembra quasi dar ragione al condottiero più sottovalutato della Storia, George W. Bush.
4. Bush junior vedeva il terrorismo come "qualcosa che tende a scendere verso il basso, come un liquido; per cui le guerre in Afganistan e in Iraq, lo scavo progressivo e metodico di una profondissima buca in Medio Oriente, si giustificava attraverso la necessità di far convergere nella buca tutti i terroristi jihadisti del mondo. Lo disse decine di volte, col tono texano di chi dice un'ovvietà: meglio combatterli laggiù che qui da noi. È la logica semplice semplice e spietata spietata della guerra moderna, tecnologica ma tutt'altro che chirurgica: armi che fanno decine di vittime civili per ogni obiettivo centrato non possono che utilizzarsi in casa d'altri, a casa nostra sarebbero insostenibili [...] notate che è un buon motivo per continuare la guerra, non per finirla; anzi: c'è quasi da dolersi che in Iraq stia terminando: dove andranno i jihadisti disoccupati? Un po' in Afganistan, va bene, e gli altri? Ehi, aspetta forse è meglio riaprire un buco da qualche parte".
Questa concezione liquida del terrorismo non mi ha mai convinto: io lo trovavo un fenomeno piuttosto volatile, e gli attentati del 2003-2005 (metropolitana di Madrid e di Londra, Sharm el Sheik, e tanti altri ancora) mi sembravano tristi conferme di quanto avesse torto. A dieci anni dall'ultimo attacco terroristico in grande stile, forse è il caso di farsi venire qualche dubbio. Quella che Bush chiamava Guerra Infinita, a dispetto di tutte le pacificazioni, in Iraq non è davvero mai finita: e ora attira da tutto il mondo jihadisti convinti, ma anche occidentali insoddisfatti a caccia di guai. Che possa mai vincere sembra improbabile, ma nel frattempo guardate quanti servizi ci rende: (1) tiene viva in occidente la minaccia islamica, per la gioia dei partiti più o meno nazionalisti o xenofobi; (2) giustifica gli apparati antiterroristici, ben determinati a spiarci per salvarci; (3) catalizza il disagio di tanti giovani cittadini occidentali, non solo tra gli immigrati di seconda o terza generazione; (4) rinsalda la NATO e renderà presto o tardi necessario un intervento delle nostre forze armate, tale da farci ricordare perché le stiamo finanziando. Tanti altri motivi di sicuro non mi sono accessibili, però questi quattro mi sembrano più che sufficienti a rendere ISIS il nemico perfetto. Quello che se ci non ci fosse bisognerebbe inventarselo. Non ce n'è stato bisogno.
La guerra, quindi, se giudichiamo dall'esperienza delle guerre passate non è se non una impostura. È come quei combattimenti fra certi animali appartenenti alla specie dei ruminanti, e le cui corna crescono secondo determinati angoli tali da impedire che essi possano effettivamente ferirsi l'un l'altro. Sfrutta in modo totale le eccedenze dei beni di consumo, ed aiuta, nel contempo, a conservare quella particolare atmosfera mentale che si richiede ad una società organizzata gerarchicamente. La guerra, come si vede, non è altro che un affare di politica interna. (E. Goldstein, Teoria e pratica del collettivismo oligarchico).
1. A un certo punto - più o meno a ridosso delle primavere arabe - abbiamo credo in molti percepito un'accelerazione degli eventi che mal si accordava con la nostra disponibilità, sempre più scarsa, a comprenderli. Avevamo tutti i nostri schemini, più o meno gli stessi dai tempi della Guerra al Terrore, e quando abbiamo visto che in Siria o in Libia non funzionavano più, non ci siamo dati troppa pena di abbozzarne altri. Avevamo già un sacco di problemi a casa nostra.
Quest'accelerazione, che magari segna l'inizio di una fase di instabilità mondiale, potrebbe viceversa essere del tutto soggettiva: siamo noi che rallentiamo, invecchiando. Se quel che succede in Palestina continua a interessarci un po' di più. non è perché la situazione sia meno ingarbugliata, ma perché ci abbiamo investito tanto tempo e attenzione che continua a risultarci più familiare. Come se l'Hamas di oggi fosse la stessa di dieci anni fa, come se Abu Mazen avesse mai più vinto un'elezione, eccetera.
La Siria viceversa è un pastrocchio inedito da cui abbiamo cercato di prendere le distanze. Chi non lo ha fatto - chi all'inizio ha parteggiato per gli insorti, o per Assad - adesso si ritrova scottato. Noi possiamo anche sopportare di risvegliarci in un mediterraneo che sfugge alle nostre capacità di comprensione, purché non ci tocchi ammettere che a un certo punto della discussione avevamo avuto torto. Piuttosto ce ne stiamo zitti, il che poi è quasi sempre l'opzione più elegante. Troppe cose ci sfuggono, troppi contendenti danno l'impressione di fare il doppio gioco. Ma a dirlo si passa per complottisti, che è pure peggio. La sensazione di non capire è tutto sommato sopportabile - l'esempio di tanti intellettuali svagati alla vigilia di ogni guerra mondiale ci conforta. L'unica cosa che non sopportiamo è che qualcuno ogni tanto ci voglia fregare. C'è sempre qualcuno che ci prova. È umiliante.
2. Prendi l'ISIS. Sembra davvero una cosa orrenda, anzi sicuramente lo è. Ma perché ce lo stanno vendendo come un'organizzazione terroristica? Le BR erano un'organizzazione terroristica. Settembre Nero era un'organizzazione terroristica. Al Qaida era una rete molto lasca di organizzazioni terroristiche quasi del tutto autonome tra di loro, che hanno organizzato attentati in una vasta porzione del mondo. L'ISIS, per adesso, no. È un'organizzazione o banda armata che ha imposto il suo controllo su un territorio vasto come una nazione, attraverso la violenza e il terrore. Gli osservatori la considerano ben organizzata e ben finanziata. Però attentati - per ora - non ne fa.
Tante altre dittature in tutto il mondo massacrano i propri cittadini e quelli dei paesi confinanti; non li chiamiamo però terroristi, non abbiamo bisogno di chiamarli così per esecrarli. Con l'ISIS è diverso. Non fa attentati (per ora) ma diamo per scontato che vorrebbe farli. Terroristi in potenza, insomma. Dobbiamo crederci per forza?
Tra le righe si intuisce un ragionamento: se l'ISIS per ora non è riuscita a terrorizzarci come vorrebbe, c'è solo da ringraziare lo stato dell'arte dell'antiterrorismo non solo aeroportuale. Tutte quelle leggi che hanno un po' ristretto le nostre libertà individuali; tutte quelle pratiche non sempre illegali che hanno consentito alla NSA di farsi un bel backup delle nostre conversazioni telefoniche; sì, è molto seccante, ma se l'alternativa è precipitare in un aereo di linea o soffocare in una metropolitana, non ci formalizzeremo più di tanto. Insomma, nel grande dibattito sulla libertà della Rete, lo spauracchio dell'ISIS ha una sua indubbia utilità. Che poi l'ISIS stia mostrando, nei fatti, tutta un'altra strategia, è un dettaglio in fondo trascurabile. Anzi, dimostra quanto il terrorismo stragista stia diventando impraticabile in Occidente. Anche se.
3. Anche se tre anni fa Anders Breivik ha fatto esplodere una bomba nella sede del governo a Oslo, e mentre la polizia accorreva si è spostato nell'isola dove campeggiavano i giovani socialdemocratici e ne ha ammazzati 69. Forse la Norvegia è un caso particolare, ma quel che è successo nell'isola di Utoya ci lascia sospettare che lo stragismo non sia poi così impraticabile come sembra. Gli eccidi antisemiti di Tolosa o Bruxelles ce lo confermano. In tutti questi casi però lo stragista sembra un individuo isolato, che magari si richiama a un'ideologia o a un'organizzazione (l'assassino di Tolosa si ispirava ancora ad Al Qaida), ma agiscono in solitudine. È proprio questa solitudine a costituire un vantaggio tattico: il fatto di non dover concertare con nessuno le proprie azioni rende questi assassini meno identificabili e tracciabili.
Ora, se esistesse realmente una grande organizzazione, ben finanziata, determinata a destabilizzare l'Occidente attraverso azioni terroristiche, non tarderebbe a trarre le sue conclusioni e a disseminare Europa e USA di aspiranti kamikaze, tutti assolutamente non coordinati fra di loro, con un unico ordine: ammazzare e distruggere quel che possono, appena possono. Un'infiltrazione di questo tipo, lungo le correnti dell'immigrazione mondiale, non sarebbe così difficile. E magari è quello che sta succedendo; però quel che osserviamo per adesso sembra suggerirci l'esatto contrario. I cosiddetti terroristi del Medio Oriente non stanno infiltrando l'occidente: piuttosto, ci sono migliaia di occidentali (non tutti di origine araba) che se ne stanno andando a combattere nella Siria e nel Levante. Senza che alle frontiere si faccia molto per trattenerli, a quanto pare. Gente che fino a qualche anno fa avrebbe potuto esprimere il suo disagio facendosi esplodere davanti a un macdonald o a una sinagoga (cito due episodi avvenuti in Italia negli anni di Bush), oggi è più facilmente tentata di far la valigia e arruolarsi nell'ISIS. In luogo di rianimare il terrorismo semispento in occidente, l'ISIS per ora sembra quasi che ne stia assorbendo gli ultimi fuochi. Tutto questo sembra quasi dar ragione al condottiero più sottovalutato della Storia, George W. Bush.
4. Bush junior vedeva il terrorismo come "qualcosa che tende a scendere verso il basso, come un liquido; per cui le guerre in Afganistan e in Iraq, lo scavo progressivo e metodico di una profondissima buca in Medio Oriente, si giustificava attraverso la necessità di far convergere nella buca tutti i terroristi jihadisti del mondo. Lo disse decine di volte, col tono texano di chi dice un'ovvietà: meglio combatterli laggiù che qui da noi. È la logica semplice semplice e spietata spietata della guerra moderna, tecnologica ma tutt'altro che chirurgica: armi che fanno decine di vittime civili per ogni obiettivo centrato non possono che utilizzarsi in casa d'altri, a casa nostra sarebbero insostenibili [...] notate che è un buon motivo per continuare la guerra, non per finirla; anzi: c'è quasi da dolersi che in Iraq stia terminando: dove andranno i jihadisti disoccupati? Un po' in Afganistan, va bene, e gli altri? Ehi, aspetta forse è meglio riaprire un buco da qualche parte".
Questa concezione liquida del terrorismo non mi ha mai convinto: io lo trovavo un fenomeno piuttosto volatile, e gli attentati del 2003-2005 (metropolitana di Madrid e di Londra, Sharm el Sheik, e tanti altri ancora) mi sembravano tristi conferme di quanto avesse torto. A dieci anni dall'ultimo attacco terroristico in grande stile, forse è il caso di farsi venire qualche dubbio. Quella che Bush chiamava Guerra Infinita, a dispetto di tutte le pacificazioni, in Iraq non è davvero mai finita: e ora attira da tutto il mondo jihadisti convinti, ma anche occidentali insoddisfatti a caccia di guai. Che possa mai vincere sembra improbabile, ma nel frattempo guardate quanti servizi ci rende: (1) tiene viva in occidente la minaccia islamica, per la gioia dei partiti più o meno nazionalisti o xenofobi; (2) giustifica gli apparati antiterroristici, ben determinati a spiarci per salvarci; (3) catalizza il disagio di tanti giovani cittadini occidentali, non solo tra gli immigrati di seconda o terza generazione; (4) rinsalda la NATO e renderà presto o tardi necessario un intervento delle nostre forze armate, tale da farci ricordare perché le stiamo finanziando. Tanti altri motivi di sicuro non mi sono accessibili, però questi quattro mi sembrano più che sufficienti a rendere ISIS il nemico perfetto. Quello che se ci non ci fosse bisognerebbe inventarselo. Non ce n'è stato bisogno.
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Dieci anni che mi manchi davvero
26-08-2014, 03:52Almanacco, autoreferenziali, blog, camillo, fumetti, Iraq, Leonardo sells outPermalink26 agosto 2004 - Enzo Baldoni viene ucciso in Iraq.
Dieci anni prima io ero uno studente sbarbato senza gusto né cultura. Come tutti i miei coetanei guardavo molti spot, dicevo di preferirli ai programmi ma mentivo. Cercavo di capire come funzionavano, persino di apprezzarli, ma la maggior parte era già copie di copie di copie. A metà '90 ormai di spot che mi facessero alzare dal divano non ne trovavo più, a parte uno.
È stato forse davvero l'ultimo spot che mi è piaciuto. Non avevo naturalmente la minima idea di chi l'avesse inventato; magari un americano o un francese, era difficile imparare certe cose a quei tempi. Non si sapeva davvero a chi chiedere. Valeva per la pubblicità e per tantissime cose che non si trovavano né sui quotidiani né sui libri di scuola.
Dieci anni prima io ero uno studente sbarbato senza gusto né cultura. Come tutti i miei coetanei guardavo molti spot, dicevo di preferirli ai programmi ma mentivo. Cercavo di capire come funzionavano, persino di apprezzarli, ma la maggior parte era già copie di copie di copie. A metà '90 ormai di spot che mi facessero alzare dal divano non ne trovavo più, a parte uno.
È stato forse davvero l'ultimo spot che mi è piaciuto. Non avevo naturalmente la minima idea di chi l'avesse inventato; magari un americano o un francese, era difficile imparare certe cose a quei tempi. Non si sapeva davvero a chi chiedere. Valeva per la pubblicità e per tantissime cose che non si trovavano né sui quotidiani né sui libri di scuola.
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C'è vita sulla luna! E lo sappiamo dal 1835.
25-08-2014, 03:01Almanacco, futurismi, Leonardo sells outPermalink
25 agosto 1835 - Sul quotidiano "Sun" di New York appare la prima puntata di un lungo resoconto delle ultime scoperte lunari effettuate dal celebre astronomo e chimico John Herschel, con un nuovo potentissimo telescopio di sua invenzione. Herschel (coniatore, tra l'altro, del termine "fotografia") ha trovato sul satellite tracce di vita - anzi, ben più che tracce: fiori, alberi, bestie più o meno mostruose, tra i quali l'interessantissimo animale sociale battezzato vespertilio homo, l'uomo pipistrello (riportiamo dalla più antica traduzione del reportage, pubblicata a Napoli già nel 1836):
Noi li scorgemmo sul lido d’un laghetto o gran fiume, che scorreva verso la valle del gran lago, ed aveva sulle sue sponde orientali un ameno boschetto. Alcuni di quegli esseri avevano attraversato dall’una sponda all’altra, e vi stavano distesi come aquile. Ci venne dato allora d’osservar, che le loro ali avevano una distesa enorme, e parevano per la struttura simili a quelle del pipistrello. Erano desse formate d’una membrana semitrasparente, che si dispiegava in divisioni curve col mezzo di raggi diritti legati al dorso con tegumenti dorsali. Ma ci maravigliò sovratutto il vedere, come quella membrana si stendesse dalle spalle sino alle gambe legata al corpo, e diminuisse gradatamente di larghezza. Quelle ali sembravano pienamente sottoposte al volere di quegli esseri, poichè li vedemmo tuffarsi nell’acqua, e quindi stenderle subito per tutta la loro dimensione, e scuoterle dopo essere usciti dall’onda alla guisa delle anitre, e racchiuderle tantosto in forma compatta. Le osservazioni fatte sulle abitudini di quelle creature, che erano dei due sessi, ci condussero a sì notevoli risultamenti, che amerò a vederli fatti di pubblica ragione coll’opera del dottore Herschel, dove so di positivo, che vi stanno descritti con verità conscienziosa, qualunque sia per essere l’incredulità con cui saranno lette.
Alcuni istanti dopo le tre famiglie stesero le ali loro, quasi ad un tempo, e si perdettero fra gli oscuri confini del canovaccio, prima che ci rilevassimo dalla nostra sorpresa. Quegli esseri furono da noi appellati scientificamente uomini pipistrelli (vespertilio homo). Ei sono certamente esseri innocenti e felici.
Nomammo la valle, in cui vivono, il coliseo di rubini, a motivo de’ magnifici monti da cui è attorniata. La notte essendosi fatta tardissima rimandammo l’esame di Petarius (n. 20) ad altra occasione.
Giova il confessare, che quest’ultima parte del maraviglioso racconto, che abbiamo ora letto, risvegliò appieno l’incredulità nostra; uomini, i quali abbiano аd un tempo e braccia ed ali ci pajono impossibili conciossiache siansi veduti colà dei castori, delle gazzelle, delle cicogne, e dei montoni. Al pipistrello le ali servono di piedi, all’uccello di braccia, ma un apparato locomotore, che parta dalle vertebre, è tal particolarità difficilissima a comprendersi.
Ci vorrà qualche tempo perché i lettori si rendano conto che è tutta una bufala, organizzata probabilmente da un reporter del giornale, Richard Adams Locke, al solo scopo di aumentare le vendite. Scopo più che raggiunto: la tiratura fu quintuplicata, il numero del 26 agosto sfiorò le ventimila copie vendute, un record. Quando il reportage completo fu raccolto a parte, vendette altre sessantamila copie. Il povero Herschel dovette affannarsi a spiegare per anni che non c'entrava, che il suo autorevole nome era stato utilizzato senza il suo permesso, e soprattutto che sulla Luna non c'erano, a quanto gli risultava, uomini pipistrello: e se anche ci fossero stati, i suoi telescopi non gli consentivano di osservarli.
C'erano stati altri resoconti immaginari prima di quello del Sun: nel giugno precedente ci si era cimentato anche Edgar Allan Poe, narrando il resoconto del viaggio in mongolfiera sulla luna di Hans Pfaall. Ma Poe aveva mantenuto un registro letterario che consentiva ai lettori di riconoscere in Hans un personaggio finzionale. Locke riesce viceversa a ingannarli con alcuni trucchi da giornalista consumato: comincia con una lunga digressione sugli strumenti ottici adoperati da Herschel che rischia di ammazzare il lettore di noia, ma crea una sensazione di autorevolezza e plausibilità. Il primo articolo è un esempio precocissimo di hard science fiction, quella rigorosamente basata su speculazioni di carattere tecnico-scientifico. Il 25 agosto 1835 non è la data di nascita né della fantascienza né del giornalismo pseudoscientifico e cialtrone; forse possiamo considerarla l'ultima occasione in cui sono stati visti assieme.
Il giorno che Hitler si disse: ho esagerato
24-08-2014, 04:29aborto, Almanacco, Leonardo sells out, nazismo, vita e mortePermalinkl'Aktion T4, il programma di soppressione delle persone affette da malformazioni e malattie incurabili più o meno genetiche. Si stimano tra le sessanta e le centomila vittime in quattro anni. Ma la cosa più incredibile non è nemmeno questa.
La cosa incredibile è che si interruppe. Hitler si fermò. Forse. Non ne siamo sicuri. Non esistono ordini scritti, un documento in cui si possa leggere "sospendete l'Aktion fino a nuovo ordine". Peraltro la strage continuò, in cliniche e ambulatori dove la cigolante catena di comando tedesca lasciava evidentemente a medici e funzionari un ampio margini di discrezionalità; alla fine della guerra le vittime erano intorno alle duecentomila unità, e crebbero ancora per un po'. Il fuehrer non amava lasciare tracce troppo evidenti che collegassero il governo a un programma che pure era stato preso per sua diretta iniziativa, e affidato a collaboratori fidati che scavalcarono il ministero della sanità. Non firmò neppure una delle bozze di legge che gli proposero sulla cosiddetta eutanasia di Stato. Eppure era una sua idea; l'aveva messa nera su bianco nel Mein Kampf; non aveva esitato a metterla in pratica appena le circostanze gli erano sembrate favorevoli; ma sapeva di non poterne andare fiero, almeno per una generazione.
La purificazione della razza ariana necessitava di una buona dose di lavoro sporco che si poteva svolgere soltanto durante una guerra: i dettagli più repellenti sarebbero stati occultati dopo la vittoria. Hitler era probabilmente pronto a sterminare milioni di connazionali imperfetti, ma non intendeva passare alla Storia per averlo fatto. Persino la "Soluzione finale della questione ebraica" (stabilita nei dettagli a quanto pare solo a Wannsee, qualche mese dopo l'archiviazione dell'Aktion T4) sarebbe stata, per quanto possibile, occultata agli storici. I tedeschi del futuro di Adolf Hitler avrebbero vissuto in una grande e purificata Germania, e non avrebbero mai saputo quali crimini erano stati necessari per forgiarla. Poi le cose hanno preso una piega diversa, lo stato di guerra totale necessario alla realizzazione di questi e altri progetti si è dimostrato un po' difficile da proseguire nel lungo periodo; Hitler si è sparato e col suo cognome oggi si spacciano le obiezioni più banali nei dibattiti sulla bioetica: ah, tu vorresti che qualcuno avesse il diritto di decidere fino a che punto è ammissibile soffrire; vorresti che nascessero meno persone affette da malattie genetiche? Sai chi la pensava come te? Adolf Hitler. E magari ti piacciono pure le verdure.
C'è naturalmente, in questo tipo di scambi, un equivoco immenso.
La cosa incredibile è che si interruppe. Hitler si fermò. Forse. Non ne siamo sicuri. Non esistono ordini scritti, un documento in cui si possa leggere "sospendete l'Aktion fino a nuovo ordine". Peraltro la strage continuò, in cliniche e ambulatori dove la cigolante catena di comando tedesca lasciava evidentemente a medici e funzionari un ampio margini di discrezionalità; alla fine della guerra le vittime erano intorno alle duecentomila unità, e crebbero ancora per un po'. Il fuehrer non amava lasciare tracce troppo evidenti che collegassero il governo a un programma che pure era stato preso per sua diretta iniziativa, e affidato a collaboratori fidati che scavalcarono il ministero della sanità. Non firmò neppure una delle bozze di legge che gli proposero sulla cosiddetta eutanasia di Stato. Eppure era una sua idea; l'aveva messa nera su bianco nel Mein Kampf; non aveva esitato a metterla in pratica appena le circostanze gli erano sembrate favorevoli; ma sapeva di non poterne andare fiero, almeno per una generazione.
La purificazione della razza ariana necessitava di una buona dose di lavoro sporco che si poteva svolgere soltanto durante una guerra: i dettagli più repellenti sarebbero stati occultati dopo la vittoria. Hitler era probabilmente pronto a sterminare milioni di connazionali imperfetti, ma non intendeva passare alla Storia per averlo fatto. Persino la "Soluzione finale della questione ebraica" (stabilita nei dettagli a quanto pare solo a Wannsee, qualche mese dopo l'archiviazione dell'Aktion T4) sarebbe stata, per quanto possibile, occultata agli storici. I tedeschi del futuro di Adolf Hitler avrebbero vissuto in una grande e purificata Germania, e non avrebbero mai saputo quali crimini erano stati necessari per forgiarla. Poi le cose hanno preso una piega diversa, lo stato di guerra totale necessario alla realizzazione di questi e altri progetti si è dimostrato un po' difficile da proseguire nel lungo periodo; Hitler si è sparato e col suo cognome oggi si spacciano le obiezioni più banali nei dibattiti sulla bioetica: ah, tu vorresti che qualcuno avesse il diritto di decidere fino a che punto è ammissibile soffrire; vorresti che nascessero meno persone affette da malattie genetiche? Sai chi la pensava come te? Adolf Hitler. E magari ti piacciono pure le verdure.
C'è naturalmente, in questo tipo di scambi, un equivoco immenso.
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