Parla per Piccolo

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Può darsi che a questo punto la vostra opinione sul Jobs Act - o sulla Buona Scuola - o su qualsiasi altra novità renziana - sia un po' negativa. Può darsi che certe promesse vi lascino perplessi, non solo perché sembrano irrealizzabili, ma perché sorrette da un'idea di società che non è la vostra. E quindi, insomma, credete di avere buoni motivi per non credere a quello che Renzi propone. Beh, vi sbagliate.

Non avete buoni motivi.

Quello che vi ispira a criticare Renzi - qualsiasi cosa dica o faccia - è semplicemente l'ossessione della purezza. A voi Renzi non va perché vi sentite di sinistra, e chi è di sinistra ha questa ossessione che lo spinge a stare da solo con chi la pensa come lui, e a raccogliere, se va bene, il 25% alle elezioni. È la stessa ossessione che vi spingeva in un angolo alle feste.
"Ma io veramente non ci stavo, nell'angolo".
Taci.
"No davvero a volte avrei preferito, perché negli angoli si pomiciava, ma di solito m'invitavano per mettere i dischi e così..."
Zitto. L'ossessione della purezza, dicevamo. Ne parlava giusto ieri, ovviamente, Francesco Piccolo; sul Corriere, ovviamente, della Sera:

La sinistra italiana degli ultimi venti, anzi trenta anni, è stata reazionaria e ha inseguito il mito della purezza, e cioè degli ideali da difendere senza nessuno sconto. Questi due elementi sono stati fondamentali per godere in modo masochistico del terzo, e cioè la propensione alla sconfitta. Soltanto con la sconfitta la purezza è difendibile, soltanto con la sconfitta non si mettono alla prova le idee e quindi si conservano intatte, come sotto i ghiacciai.

Ma quanto ha ragione, non trovate? Il mito della purezza. Quello che ha ispirato tutte le mosse degli ultimi, fallimentari, trent'anni.
"Per esempio?"
Ti devo pure fare degli esempi? E che ne so... Bersani.
"Bersani?"
Sì, Bersani, perché?
"Scusa ma Bersani poteva andare alle elezioni da solo nel novembre dell'Undici e invece ha fatto un governo di unità nazionale con Berlusconi, non mi sembra proprio un esempio così calzante di mito della purezza".
Vabbe' ma che c'entra, lì ce lo chiedeva l'Europa, ma in generale Bersani ha rappresentato quella frangia sconfittista del Pd che...
"Era ministro col Prodi II, hai presente?"
Embè?
"I ministri che sedevano allo stesso tavolo: Mastella, Di Pietro..."
Va bene, forse Bersani non è l'esempio migliore.
"Forse no".
Ma in generale devi ammettere che il mito della purezza è stato, come dice Piccolo, il punto di identificazione di...
"Fammi un altro esempio".
Boh, chi c'era prima di Bersani?
"Franceschini".
Ma che c'entra, Franceschini è mica uno di... di...
"Eh, appunto".
Cioè stiamo parlando degli ex comunisti, cosa c'entra Franceschini?
"C'è che gli ex comunisti se lo sono tenuto segretario per più d'un anno, forse non erano così succubi di un mito della purezza. O vuoi dire Veltroni?"
No, Veltroni no.
"Cioè hai presente cosa ha fatto Veltroni? Ha preso quel che restava del PCI e l'ha ibridato con quel che restava della DC. Non è proprio una cosa da mito della purezza".
Ma infatti, ti sto dicendo: Veltroni no.
"E allora di chi stiamo parlando, fammi un esempio".
Cheppalle con questi esempi, eh.
"Fassino? Prima di Veltroni c'era Fassino".
Ma no...
"Sennò D'Alema".
Ecco, D'Alema.
"Il mito della purezza, Massimo D'Alema".
Precisamente.
"Ma stai bene?"
Benone, sei tu che ti rifiuti di ammettere che coltivavi il mito della purezza e stavi negli angoli delle feste.
"Senti, io non so a che feste andavi tu con Piccolo, ma alle mie ci si divertiva tendenzialmente più agli angoli, e in ogni caso mi stai dicendo davvero che la carriera di Massimo D'Alema è stata ispirata al mito della purezza e della sconfitta salvifica?"
Perché? Non è così?
"Non so, dimmelo tu, stiamo parlando del tizio che ha appoggiato la candidatura di Romano Prodi. Cioè lui era segretario del Partito Democratico della Sinistra, e pur di spuntarla contro Berlusconi è andato a pescarsi un boiardo di Stato di area DC. Che per carità, eh, gran trovata, però: sei proprio sicuro che lo abbia fatto perché ispirato dal mito della purezza?"
Magari in quel caso no.
"Magari no".
Però poi appena ha potuto gli ha fatto le scarpe, a Prodi, ti ricordi?
"Come no, mi ricordo benissimo, il '98".
Lo vedi? Prima o poi il mito della purezza spunta fuori.
"Nel '98, D'Alema, pur di andare a Palazzo Chigi, sai con chi fece l'accordo?"
Ahem...
"Dai che lo sai"
C'era Mastella forse... ma questo non toglie che...
"Con Francesco Cossiga".
E vabbe'.
"Era così sconfittista che pur di vincere le elezioni appoggiò Prodi. Così duro e puro che pur di restare in sella imbarcò Cossiga". 
Va bene, va bene, ho capito.
"Ma te lo ricordi quando faceva gli occhi dolci a Bossi? Massimo MitoDellaPurezza D'Alema che diceva che la lega era una costola della sinistra? Te lo ricordi?" 
Ho capito, ti ho detto che ho capito, D'Alema non è l'esempio migliore.
"E a questo punto mi sa che i vent'anni li abbiamo coperti... a meno che..."
A meno che cosa?
"C'è Occhetto".
Ah, ecco Occhetto, certo.
"Il mito della purezza".
Sì. E lo si vide bene, quando la sua gloriosa macchina da guerra s'infranse contro...
"Tu sei scemo".
Ma come ti permetti.
"Scusa, ma te lo ricordi Occhetto?"
Benissimo. È stato l'ultimo segretario del...
"Partito Comunista Italiano. Quello di Gramsci, di Longo e Berlinguer. Poi arriva Occhetto ed è così pervaso da questa voglia di sconfitte salvifiche e di purezza comunista che DECIDE DI CAMBIARE IL NOME AL PARTITO".
Ah, già, il nome, beh, però...
"Però niente, dai. È una cazzata".
Chi c'era prima di Occhetto?
"Natta".
Ecco, magari Natta.
"Faccio finta di non sentirti. Senti, non so esattamente dov'eri tu o dov'era Piccolo, ma negli ultimi trent'anni che ho vissuto io il principale partito di sinistra le ha provate tutte pur di vincere, altro che sconfitta salvifica. Abbiamo provato la quercia e non funzionava e allora abbiamo provato l'ulivo ma non funzionava, e allora abbiamo provato Kennedy e Don Milani, la bocciofila e infine i rottamatori, le abbiamo provate veramente tutte. Quattro nomi abbiamo cambiato. Cossiga, Mastella, per tacere di quelli che mettemmo in lista nel primo PD, te la ricordi la Binetti? Ci abbiamo fatto un partito assieme, la Binetti! ti rendi conto quanto poco freghi della purezza a noi?"
Ma forse...
"Forse niente. Ora ti dirò un ultimo nome, un nome che chiude la questione. Ti ricordi chi candidammo a inizio secolo? Quello che abbiamo votato perché lo volevamo a Palazzo Chigi, te lo ricordi?"
No, è strano, non me lo ricordo.
"Francesco Rutelli".
Stai scherzando.
"Googla pure se non ci credi. Negli ultimi trent'anni siamo stati le peggio puttane del mondo, senza offesa per le sex workers oneste, capisci? Se qualche sondaggio avesse dato Pietro Maso vincente contro Berlusconi, credi che non l'avremmo candidato? O Pacciani? O Vlad l'Impalatore? Credi che D'Alema non gli avrebbe mandato un bigliettino, Vlad, pensaci, solo tu puoi salvarci? E adesso arriva Piccolo e dice... cosa dice?

Per essere di sinistra bisognerebbe essere progressisti, bisognerebbe accogliere il presente e avere voglia di prendersi la responsabilità di guidare il Paese — e questo comporta sia cadere in errore sia collaborare con chi ci sta. Di conseguenza, per essere di sinistra, bisognerebbe non essere come è stata la sinistra negli ultimi 30 anni.

"No vabbe', dai, ma è roba da Corriere. È come Panebianco ormai. Lo sai cos'hanno trovato in Egitto di recente?"
In Egitto?
"Hanno decifrato i geroglifici di una stele appena dissepolta, secondo millennio avanti Cristo, pare sia un editoriale di Panebianco che accusa la sinistra per le invasioni dei popoli del Mare". 
La sinistra?
"C'è scritto così, e che finché la sinistra non saprà fare i conti col proprio passato e con le proprie responsabilità ci saranno inondazioni piogge di rane e cavallette. A me dispiace che Piccolo si sia messo a scrivere roba così".
Lui scrive molto meglio, dai.
"Per carità, lui è bravissimo, poi funziona anche meglio perché ci si mette in mezzo, scrive questi autodafè molto carini... però a un certo punto non ti viene voglia di dirgli: parla per te, Francesco Piccolo?" 
In che senso?
"Nel senso che non siamo mica *tutti* diventati comunisti per dar fastidio a nostro padre. Anzi se vai a vedere in Emilia o in Toscana, è tutta gente che diventava comunista per fargli piacere, a papà. Tutta gente che sperava di sistemarsi col cursus honorum, a sedici anni in Figgicì poi in sezione poi in giunta e poi finalmente a cinquant'anni nelle municipalizzate a intascare like a boss. Guarda che se fai leggere Il desiderio di essere tutti a un modenese, lui ti dice che sembra il Piccolo Principe, cioè non è che "TUTTI" hanno preso la tessera del PCI per sentirsi duri e puri. Magari poteva andare così in posti come Caserta, ma non è che TUTTI si siano iscritti a Caserta. Fidati che a Reggio Nell'Emilia non andava così. Non è mai andata così. I duri e puri andavano da qualsiasi altra parte..."
Ma infatti forse Piccolo non intendeva il PCI-PDS-DS-PD.
"E allora cosa?"
Forse intendeva la sinistra-sinistra, quelli lì, Bertinotti, Vendola...
"Vendola pur di provare a stare in un governo è uscito da Rifondazione, ha fondato un partito, ha imbarcato pure quattro gatti di ambientalisti nel mentre che in Puglia i sindacalisti cercavano di fargli tenere aperta l'Ilva, devo continuare?"
Va bene, Vendola no, ma Bertinotti...
"Ma l'hai capito che se c'è un'ossessione nella sinistra italiana, e io credo che ci sia, non è la purezza ma l'esatto contrario? L'ibridazione, la contaminazione? Cioè hai presente i duri e puri che Vendola mollò, poi, chi sostennero alle elezioni due anni fa? Antonio Ingroia? Cioè te li immagini questi svezzati a Gramsci Togliatti e Longo che poi si ritrovano Ingroia? o la Spinelli? Eddai".
Ammetti però che Bertinotti...
"Quale Bertinotti?"
Fai il furbo?
"No, sul serio, quale? Perché quello del '98, in effetti, si presta alla narrazione che ci costruisce intorno Piccolo. E infatti si ricordano tutti quel Bertinotti lì".
C'è n'è un altro?
"Ma per esempio c'è quello che si cosparge di cenere ed entra nell'Ulivo e si ritrova al governo nel 2006. Non un appoggio esterno, come dieci anni prima: al governo".
Sì, però poi lo fa cadere.
"No. Fu Mastella".
Eddai, se non fosse stato Mastella...
"Ma ti rendi conto cosa fecero i rifondaroli nel 2006-7? Votarono per il rifinanziamento della missione in Afghanistan - tranne due. Tranne due. Cioè pur di restarci, in quel governo che già traballava tantissimo di suo, arrivarono a sostenere una missione Nato. E tu mi racconti dell'ossessione della purezza. Ma parlami di Cicciolina, piuttosto, parlami della sua, di ossessione per la purezza". 
Ma che c'entra, lei era radicale.
"È un modo di dire. E sai qual è la cosa divertente? Che il Bertinotti sconfittista e ossessionato dalla purezza del '98, poi alle elezioni prese un dignitosissimo cinque per cento. Mentre il Bertinotti collaborativo del 2006, il Bertinotti disponibile a calar le braghe, due anni dopo..."
...scomparve dal parlamento.
"E quindi insomma hai voglia a dire che l'ossessione della purezza non paga. A me poi per carità, mescolarmi piace. Ho votato Rutelli, ho votato Renzi, secondo me a un certo punto stavo anche per votare Casini. La politica è così".
Ti trova strani compagni di letto.
"A me va bene, mi piace discutere, scambiare opinioni, mettere sui dischi, stare nel mezzo della festa. Basta che non mi raccontiate che negli angoli ci stiano gli sfigati duri-e-puri. Negli angoli ci si droga, ci si struscia, negli angoli ci sta gente che si diverte".
Magari sono meno responsabili di noi.
"Se la cosa ti consola".
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Il renzismo è un robot di cartapesta

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Il controleffe nel pidieffe.

Il buffo è che chi è giovane davvero, la battuta dell'iphone a gettone non la capisce. Provate a pensare all'ultima volta che avete usato un telefono a gettoni - a me è successo nel 1999, credo, ed ero tra gli ultimi. Chi ha quindici, diciotto anni, questa cosa del gettone la impara soltanto se ha genitori che a cena lo intrattengono con le interessantissime usanze del tempo che fu - quello che per me era il paiolo di rame per la polenta - e un politico che mi avesse fatto una metafora del tipo "è come ficcare un big mac in un paiolo per la polenta" non lo avrei trovato così giovane, ecco.

Per i renziani le nuove tecnologie (oddio, nuove, la chiavetta usb ormai è roba da truzzi) prima ancora che strumenti che ci miglioreranno la vita, sono tic linguistici. Domenica dall'Annunziata una referente renziana all'innovazione scolastica, una che temo abbia intenzione di riempire le classi di tablet, si esprimeva così: per dire "cercate nel documento se c'è un riferimento all'articolo 18" diceva "fate controleffe sul pidieffe". Poi deve aver pensato che i suoi interlocutori fossero di un secolo diverso (anche se all'anagrafe risultavano più giovani di lei), e pazientemente si è messa a spiegare che "pidieffe" è uguale a documento e "controleffe" è uguale a cercare. Che è una cosa che mi è capitato di fare centinaia di volte in vita mia (anche coi sindacalisti, esatto), per cui un po' la capisco: in realtà mi ci ritrovo abbastanza, nella situazione esistenziale del renziano medio. Un trenta-e-qualcosa che ha passato metà carriera ad atteggiarsi a guru dell'hi-tech semplicemente perché nel suo ufficio era il più giovane ed era l'unico che sapeva riavviare il router pigiando un bottone (era anche l'unico a sapere che si chiamasse "router"), e questa cosa gli è rimasta attaccata dentro: ora però i vecchi colleghi stanno andando in pensione, e ai giovani che arrivano tocca sorbirsi le chiacchiere di 'sto tizio che è convinto di saperne di router e di amministrazione di rete, quando al massimo sapeva pigiare un bottone. E magari usa ancora le chiavette, santiddio, quelle cose tossiche che usano i vecchi per scambiarsi i filmini, i vecchi che non sanno aprirsi un account su dropbox.

Alla fine l'approccio dei renziani alle nuove tecnologie non sembra molto diverso da quello dei grillini - è solo un po' stemperato. Sia gli uni che gli altri cantano le magnifiche sorti progressive di strumenti che in realtà non è che conoscano così bene. Grillo è più immaginifico, è già alla stampante 3d domestica. Il renziano è più moderato - così moderato che a volte non si rende conto di essere rimasto un po' indietro, ancora parla di chiavette e pdf. Entrambi, più o meno nello stesso periodo, promisero che avrebbero varato incredibili piattaforme per la condivisione dei programmi politici: la fantomatica piattaforma grillina, e il wikiprogramma solennemente annunciato tre Leopolde fa. Se la piattaforma si è rivelata, alla prova dei fatti, un'app abbastanza deludente, il wikiprogramma non è proprio mai esistito; a meno che per wikiprogramma non si intendesse una pagina web con sotto il box dei commenti - ma d'altro canto, da gente che usa le chiavette nel 2014, cosa ti puoi aspettare? Poi c'era quella storia dei finanziatori on line, che per un bel pezzo non si è riuscito a mettere on line, ecc.

La generazione che trova più sexy pronunciare "controleffe sul pidieffe" invece che "cerca nel documento", coltiva per la rete un feticismo che i più giovani troveranno più difficile da spiegare delle fessure nei telefoni a gettoni, o della passione dei nonni per la polenta. Gente che passava ore a inventare un hashtag, o a criticare gli hashtag degli altri, gente la cui più alta aspirazione era diventare trending topic. Tutta questa roba era un po' come l'armatura dei robot positronici nei vecchi film in bianco e nero: cartapesta. Dentro c'era un nano che azionava gli arti. Anche il renzismo, se smonti tutto l'incarto a base di iphone e hashtag, ci trovi un nanetto molto indaffarato che le elezioni le vince andando la domenica a Canale5 a promettere cose a Barbara D'Urso. Come se fosse il 1999, di nuovo, e per telefonare a quella ragazza mi stessi frugando nelle tasche, non per estrarne l'alcatel esausto, ma almeno una moneta da cinquecento lire - e sotto lo squarcio di una tasca trovassi nell'imbottitura del cappotto, miracolo, un vecchio gettone telefonico.

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Meno saghe più astronavi

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I guardiani della galassia (James Gunn, 2014)

Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, gli alieni erano ancora colorati come nelle pagine in quadricromia dei vecchi albi a fumetti: neri, gialli, magenta e blu. Pirati e rigattieri, viaggiavano qua e là per la galassia alla ricerca perlopiù di gemme magiche o altre cose che in un modo o nell'altro rischiavano sempre di distruggere la galassia. Alternavano un lessico fiorito e pomposo a battutacce triviali, a seconda di chi fosse di turno a scrivere i testi. Se ne fregavano della verosimigliananza, godevano a incasinare la continuity, si stavano già prendendo gioco dei luoghi comuni della space opera prima che arrivasse con la sua Morte Nera il potente George Lucas a prendere tutto maledettamente sul serio. Bei tempi. Torneranno?

Mi piacevi più blu

I guardiani della galassia è il film che abbiamo sognato da quando eravamo bambini - quel film di cui Lucas ci ha fatto sentire il profumo a bordo del Millennium Falcon, prima di virare decisamente verso il fantasy più manicheo - e più redditizio. Ma a noi di tutto quel misticismo della Forza, quella lotta tra il Bene e il Male, e la repubblica contro l'imperatore, e Luke sono tuo padre e Leila è tua sorella, tutta questa roba in realtà non è che ci convincesse più di tanto. Ce la sorbivamo in mancanza di meglio. Quello che avremmo voluto davvero erano le avventure anarchiche di Han Solo in un universo di mostri sballati e fuori di testa. Volevamo la Space Opera Cazzara, e nessuno al cinema ce la voleva/poteva dare. Lucas no, Star Trek men che meno. Per fortuna che c'erano i fumetti - ma non ce n'erano in giro poi così tanti. Oggi col digitale si può fare quasi tutto: ma si poteva ricreare quell'atmosfera surreale ed esilarante che ti avvolgeva quando aprivi un vecchio albo dell'Editoriale Del Corno allegato a un sacchetto di patatine? (continua su +eventi!)

Come attraversare un portale dimensionale, finire assorbito dalle avventure incomprensibili di personaggi dai nomi assurdi e immediatamente familiari. Le storie sembravano più lunghe di quanto fossero in realtà perché i personaggi parlavano un sacco: avevano dialoghi metà Shakespeare e metà Paperino. Nel giro di una pagina potevano diventare nemici irriducibili o amici per la vita. I cattivi erano più spesso blu scuro, i buoni rossi o azzurri, la maggior parte sparava raggi fluorescenti dalle mani. 

I guardiani è un esperimento riuscito – anche se Chris Pratt non ha il carisma di Harrison Ford, anzi, il suo StarLord è uno dei punti deboli del team: l’idea di equipaggiarlo con la fissa hipsterica per le musicassette è una strizzata d’occhio esagerata a un pubblico che avrebbe preferito qualche battuta in più. Per fortuna i Guardiani è un film di squadra, e la squadra funziona: in particolare il procione e il suo amico albero (l’irriconoscibile Vin Diesel) sono esilaranti: li vorresti sempre in primo piano, e chissenefrega se sullo sfondo c’è un’eterna lotta tra il Bene e il Male. Proprio come i due robottini nel primo Guerre Stellari, sì. I guardiani non ha molto che meriti una seconda visione, o un posto speciale nella nostra memoria: e allo stesso tempo è quel tipo di film di cui sei sicuro che non ti perderai il sequel, e pure il sequel del sequel. Ultimamente invece la Marvel (ora proprietà Disney) ha comunicato che i suoi supereroi realistici-in-calzamaglia cominceranno a farsi la guerra tra loro, uno schema già provato e riprovato sulle tavole a fumetti. Avremo Iron Man contro Capitan America, forse tornerà a casa anche l’Uomo Ragno e gli toccherà scegliere con chi stare, la saga si complicherà, tutti saranno coinvolti, la continuity vincerà la sua eterna lotta contro il divertimento. Non c’è nulla che possiamo farci: se la gente vuole saghe complicate perché la Disney dovrebbe rifiutare di apparecchiargliele? Speriamo solo che si ricordino di darci qualche film balordo come i Guardiani ogni tanto.
 
I Guardiani della galassia si possono vedere senza occhialini al Cine4 di Alba (20:00, 22:30); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:10, 22:40); al Fiamma di Cuneo (21:15); al Multilanghe di Dogliani (21:30); all’Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Con gli occhialini lo trovate al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00, 22:45) e all’Impero di Bra (20:10, 22:30), ma chissà se ne vale poi la pena.


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Dialogo tra Leopardi e uno spettatore

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Il giovane favoloso (Mario Martone, 2014).

"Signor Conte, come va?"
"Male, illustrissimo, e voi?"
"Non c'è bene, grazie. Ho visto il vostro film. Malinconico al vostro solito".
"Sì, al mio solito".
"Sconsolato, disperato: si vede che questa vita vi pare una gran brutta cosa".
"Eh, che vi devo dire? Mi ero messo in testa questa pazzia, che la vita umana..."
"Fosse infelice. Beh, può anche darsi, ma al giorno d'oggi magari un chirurgo... perdonatemi l'impertinenza..."
"Ve la perdono volentieri, ma non capisco come un chirurgo potrebbe modificare le mie riflessioni".
"Beh, magari potrebbe aiutarla con quella... quella gobba, insomma".
"Gobba?"
"Sì, quella cosa lì, insomma, il morbo di Potts o come si chiama".
"Ma di che gobba state parlando, illustrissimo? Non vedo nessuna gobba qui".
"Per forza, l'avete sulla destra... o non era la sinistra?"
"Vi sentite bene, illustrissimo?"
"Io mi sento benone. Siete voi che avete una smisurata gobba sulle spalle, il che forse, dico forse, potrebbe spiegare alcuni punti della vostra pessimistica filosofia".
"Illustrissimo, quella filosofia che voi mi attribuite è tanto nuova quanto Salomone e quanto Omero..."
"Parliamo di un cieco e di un sex-addict, non proprio il massimo dell'equilibrio nel discernimento..."
"...e tanti altri tra i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l'estrema infelicità umana: intendete dunque immaginarvi una gobba sulle spalle di tutti costoro? Ma distruggete pure, se vi piace, le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto di accusare le mie eventuali malattie".
"Conte mio adorato, ma di che osservazioni, di che ragionamenti stiamo parlando?"
"Di quelli contenuti nei miei libri, illustrissimo".
"Ma quelli, conte mio, mi guardo bene dal distruggerli, tanto li ho amati leggendoli; e viceversa sarei ben fiero di difenderli da chiunque si attentasse a infamarli. Ma non di quelli stiamo parlando, purtroppo".
"Ah no?"
"No".
"E di cosa stiamo parlando allora?"
"Di un film".
"Ovvero?"
"Un invenzione del secolo XX. Immagini in movimento, proiettate sulla parete di una caverna... hanno fatto un film su di voi, signor conte".
"Sulle mie opere?"
"Su di voi".
"Ahi".

"Capite insomma il problema".
"Ma insomma, che immagini mostrano in questo film?"
"Eh, tante cose... per esempio, quando voi componete l'Infinito".
"Ma perdonatemi, come possono alcune immagini proiettate su una parete darci quell'idea del vago, dell'indefinito, che io stavo cercando di..."
"Eh, appunto, non è così che funziona. Al cinema non mostrano l'Infinito. Mostrano voi, conte Giacomo, mentre da ragazzino componete l'infinito".
"E quindi in pratica che fo? Miro e rimiro una siepe siccome un babbeo?"
"Più o meno è così - salvo che non siete voi, ma un attore, che vi impersona".
"Ah. E lui... com'è?"
"Bravo, bravo, un po' sopra le righe ma se la cava. Somiglia, un po', ehm..."
"A me?"
"A Foscolo".
"Eh, beh, naturale. E sulle spalle..."
"Gli hanno montato questa gobba enorme che cresce per tutto il film".
"Dunque è così? La profezia di quello scrittorucolo... come si chiamava?"
"Niccolò Tommaseo".
"...si è avverata? Solo la gobba mi è sopravvissuta? Di lei sola parlano nel secolo XX?"
"Non è così, conte mio, non è così credetemi. Le vostre poesie, le vostre operette, sono ancora ben salde nella coscienza dei lettori e nei programmi scolastici ben oltre il termine del XX e l'inizio del XXI. La vostra gloria è tale che nel campo delle lettere italiane solo quella di Dante la sorpassa, e non di molto".
"E Petrarca?"
"Petrarca è out".
"Aut?"
"Out, fuori, finito, trionfo dell'oblio".
"Che brutti gusti che avete, nel secolo XXI".

Si poteva fare un film riuscito su Leopardi? (Se ne discute su +eventi). Premesso che qualcuno prima o poi ci avrebbe provato, e che difficilmente avrebbe saputo fare qualcosa di meglio di Martone; l’intrepido Martone che con le sue spericolate ellissi e i suoi arditi anacronismi è l’unico che tenti di darci un’immagine dell’Ottocento che non puzzi lontano dieci miglia di fiction della Rai; che dunque insomma dobbiamo dirci fortunati che l’idea sia venuta a lui, e che Elio Germano si sia reso disponibile. Ma visto il risultato, pur coraggioso, non banale, senz’altro più cinematografico che televisivo, rimane la domanda: si poteva fare un film biografico su Leopardi? Un poeta che, finché ha vissuto, ha ripetutamente pregato i lettori di non giudicarlo per le proprie sofferenze e deformità, ma per le sue idee: può diventare l’oggetto di un film che non si concentri proprio sulle sue vistose deformità che per forza di cose ruberanno la scena alle sue idee? “Demolite le mie osservazioni e i miei ragionamenti, piuttosto che attaccarvi alle mie malattie“, scrive il conte in una lettera famosa, che si legge in tutti i manuali di letteratura per il liceo. Nel film, la frase diventa un grido che Leopardi prorompe chino su un bastone, in una gelateria, davanti a due parrucconi imbarazzati. Ci stiamo imbarazzando anche noi, certe cose un conto è scriverle in una lettera, un conto è gridarle in un luogo pubblico. D’altro canto: che altro poteva fare Martone? Rimuovere la gobba?



Forse sì. Perlomeno, se chiedete a me, io avrei lavorato di più sulle Operette morali – magari con un po’ di computergrafica: siparietti con mummie, gnomi e folletti, Atlante ed Ercole che si palleggiano il pianeta Terra, Cristoforo Colombo che ragiona con Gutierrez, il Sole con Copernico, la Moda e la Morte. Non è che Martone non ci provi, scolpendo nel fango millenario una Natura Matrigna o giocando sulle potenzialità horror di A Silvia. Ma alla fine la gobba si ruba il film, non poteva che andare a finire così. Magari Martone la considera un correlato oggettivo del disagio esistenziale, della solitudine dell’intellettuale, dell’insalubrità del milieu culturale italiano, e di chissà cos’altro; fatto sta che invece di girare un film sui pensieri di Giacomo Leopardi, Martone ne ha fatto uno sui dolori di Giacomo Leopardi. Probabilmente era inevitabile, ma non è comunque un tradimento? Forse era necessario, ma perché insistere proprio su uno degli episodi più imbarazzanti di una vita breve e difficile, il non-affaire con Fanny-Aspasia? Il Passero solitario, no. Le ricordanze no. Martone poteva darci un po’ di Quiete dopo la tempesta o di Ultimo canto di Saffo, ma no! Dopo averci mostrato nel primo tempo il Leopardi diciottenne ribelle, il Leopardi che scappa di casa, Martone doveva per forza mostrarci il Leopardi trentenne innamorato, il Leopardi ridicolo. Ora non nego che ci sia qualcosa di autentico e universale in tutto questo – nel modo in cui la stessa passione che a diciott’anni ci rende nobili, dai trenta in poi ci rende patetici – ma ci vuole comunque una certa dose di crudeltà per andare a pescare, nelle migliaia di bei versi che il conte ci ha lasciato, proprio quella manciata di svenevoli che nessuno saprebbe più a leggere senza ridacchiare, dal Consalvo.

Oimè per sempre 
Parto da te. Mi si divide il core
In questo dir. Più non vedrò quegli occhi, 
Né la tua voce udrò! Dimmi: ma pria
Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio
Non vorrai tu donarmi? Un bacio solo
In tutto il viver mio?

“Ma siete sicuro che questi versi li ho scritti io?”

“Li avete scritti voi, Conte, sono nell’edizione critica dei Canti”.

“Me li ero dimenticati”.

“Ce li stavamo tutti dimenticando volentieri”.

“Ma c’è qualche operetta morale, almeno?”

“C’è il dialogo tra la Natura e l’Islandese”.

“Ecco, quello sì che me lo ricordo bene! E la Natura com’è? Una gigantessa?”

“Una sfinge di pietra, con, ehm…”

“Va bene, va bene”.

“…la voce di vostra madre”.

“Di mia madre? E che c’entra mia madre?”

“Eh, è una lunga storia, diciamo che tra le novità del secolo XX vi è anche l’approccio psicanalitico ai testi letterari”.

“E in cosa consisterebbe questo approccio psico…”

“In sostanza si ritiene che lo scrittore porti con sé per tutta la vita i traumi della propria infanzia”.

“Potrei per certi versi concordare, ma…”

“…e li rovesci nei suoi scritti. Quindi, caro signor conte, se voi avete parlato di una Natura Matrigna, il critico del secolo XX ha buon gioco a dimostrare che in realtà state parlando di vostra madre, e di quanto poco sia stata affettuosa con voi”.

“Ma che c’entra? E poi io non ho mai parlato di mia madre…”

“Suvvia, c’è quella pagina dello Zibaldone così eloquente…”

“Ma ne parlo in terza persona, e saranno poi affaracci miei, o no?”

“No purtroppo signor Conte, nel secolo XX il poeta non ha più panni che non si debbano lavare in pubblico da personale altamente specializzato”.

“Mi state dicendo che le mie considerazioni sull’impassibilità della Natura sono contrabbandate come sfoghi personali causati dal fatto che mia madre non mi spazzolava i capelli? Siete veramente così morbosi e cialtroni, nel XX?”

“Siamo già nel XXI, ma, come dire, perduriamo”.

“Ma non potevate farmi fare la fine di Petrarca? Preferirei”.


Poi c’è la musica, che alterna Apparat e Rossini, un po’ come servire cracker al formaggio e Saint Honoré – non è che non funzioni, ma tra qualche anno non credo che sarà la Saint Honoré a suonare datata. Infine c’è quel tentativo di inserire una tematica omoerotica che davvero non si capisce che senso abbia – si spera non quello di rendere il poeta più attuale, più interessante. Sono quegli strani inserti martoniani che fanno sì che a fine visione la perplessità vinca su ogni altra sensazione – come la scena in Noi credevamo in cui Crispi mostrava la bomba Orsini ai mafiosi; qui c’è una lunga calata in un bordello infernale che in un qualche modo si riallaccia al primo film di Martone, Morte di un matematico napoletano. Verso la fine in effetti il Leopardi martoniano sembra sfumarsi e giustapporsi a quel Caccioppoli: un flaneur che per i peggio vichi gioca a rimpiattino con la morte. Germano è coraggioso e bravo, tutto il cast si dà da fare, il prodotto è ben confezionato, ma ne valeva la pena? Il giovane favoloso è ai Portici di Fossano e all’Aurora di Savigliano alle 21:15.
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L'alluvione è colpa mia

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Il dispositivo morale. 

In passato, quando un'epidemia o un vulcano o un diluvio devastava una città, le reazioni erano più o meno simili anche a latitudini molto diverse. Se virus, bacilli, batteri, non erano a portata dei nostri organi sensoriali, la nostra capacità di istituire cause ed effetti era invece pressoché la stessa che abbiamo adesso; quindi girava a vuoto. Religioni e magie ci provvedevano tutta una serie di entità da incolpare: Apollo arciere, Baal, Jahvé; purtroppo, non essendo che proiezioni degli uomini che le inventavano, la responsabilità ricadeva comunque su di noi. Apollo ci punisce perché Agamennone l'ha fatta grossa, Jahvé è da un bel po' che ci biasimava la nostra dura cervice: insomma era comunque sempre colpa nostra. Di chi altri poteva essere? Esistevamo solo noi. Prima che riuscissimo a montare lenti su lenti e a vedere virus e bacilli, l'unico mondo invisibile a esistere seriamente era la nostra coscienza.

La nostra sete di bene e di male è tanto antica quanto la nostra fame di cause ed effetti. Il successo del profeta o del predicatore dipendeva proprio dalla sua capacità di fornire spiegazioni pronte e comprensibili: se il vulcano dopo migliaia d'anni esplode, se la montagna frana, se il colera ci decima, è perché andiamo all'osteria alla domenica. E siccome è proprio al profeta che si rimprovererà una catastrofe non prevista, egli non può cautelarsi che prevedendone a getto continuo: meglio inventarne due o tre di troppo che lasciarsi trovare impreparato da una carestia o da un'alluvione. Tanto più che la gente si comporta male un po' sempre e dappertutto - e lo sa, questo è il bello, la gente ha sempre qualcosa da biasimarsi - tu battili; magari non sai il perché, loro sì. Il dispositivo morale ha funzionato per secoli, anche dopo l'invenzione del microscopio: non previene i disastri e nemmeno li allontana, ma soddisfa un'esigenza primaria di spiegazioni - oltre a farci rigar dritto, un effetto collaterale tutt'altro che trascurabile. Quando poi l'accumulo di colpe diventa insostenibile, si svasa su qualche agnello sacrificale: la strega, l'untore, l'ebreo, eccetera.

Ancora oggi, che i microscopi funzionano e ci mostrano più cose di quanto ci saremmo sognati di vedere, non riusciamo ad accontentarci. Spesso addirittura le scienze ci illudono, dandoci la falsa sensazione di poterci fornire dei rimedi pronti all'uso, quando al massimo ci forniscono una serie di ipotesi sulle cause. Questo ci fa molto arrabbiare. Ce la prendiamo con i sismologi che non sanno prevedere i terremoti - inaudito - o i modelli matematici che non riescono a spiegarci dove come e quando un torrente romperà. La scienza non ci soddisfa e così torniamo alla morale, la cara vecchia morale. Se i fiumi sono in piena è per i nostri peccati. Siamo stati miopi, o presbiti, o francamente ciechi. Abbiamo dimenticato la saggezza dei padri che in certi posti proprio non edificavano. Abbiamo lasciato vincere l'Inerzia e la sua cagnolina da compagnia, la Burocrazia. La colpa si sta per accumulare e il capro espiatorio è lì già pronto a riceverla: stavolta, indovinate, tocca al Politico. Persino Beppe Grillo, l'ultimo salito sulla barca; uno a cui non si possono certo rimproverare passate gestioni: tecnicamente sta ancora dalla parte dei predicatori - ma il confine è molto labile, e Casaleggio dovrebbe saperlo, se davvero ha studiato il precedente di Savonarola.

Se il dispositivo morale funziona, è anche perché per quanto rozzo non può girare a vuoto senza sollevare ogni tanto qualche elemento oggettivo: non c'è dubbio che la politica abbia responsabilità pesanti, quando si parla di gestione delle acque e dei territori. E però si vede bene quanto sia un prodotto delle scienze più imperfette, le umane; non ci fornisce ipotesi o leggi, ma sempre e soltanto colpevoli. Ci dà l'identikit degli untori, non le istruzioni su come organizzare un cordone sanitario. Accusa i politici, ma di cosa? Di non fare onestamente il proprio mestiere? Ma in democrazia, lo si è visto, non è la prevenzione che vince le elezioni. Viceversa, quando il fango arriva, qualcuno può persino volgere la cosa a suo favore facendosi fotografare con la pala in mano e ottenendo quegli aiuti e quella solidarietà che solo dopo il fango si sblocca; prima no.

Il dispositivo morale ha un orizzonte cortissimo: il colpevole dev'essere sempre qualcuno da rintracciare in mattinata. Il riscaldamento globale è un fenomeno al di là della sua portata. Esso dipende da una complessa serie di fattori - quasi tutti in verità ascrivibili al comportamento collettivo degli esseri umani, e quindi in teoria il dispositivo morale dovrebbe scattare - ma dividere la colpa per miliardi di individui è come farla sparire. Molto meglio inventarsi una loggia di uomini cattivi che fanno piovere con le scie chimiche. All'inizio sembrava demenziale, ma a quanto pare sta funzionando.

Nel frattempo magari sta davvero succedendo qualcosa, ma è difficile capire cosa. Con tanti profeti di sciagure su tutti gli schermi, il giorno che arriva un diluvio ci coglierà sicuramente impreparati, mentre litighiamo su una legge di stabilità o sui tassi d'interesse. Probabilmente quel giorno andremo in giro a caccia di burocrati cattivi, piuttosto che dare una mano a imbastire un'arca. Il fatto di essere programmati per comportarci così non mi consola molto. Confesso che a volte mi fa sentire un po' in colpa - lo so, non dovrei, è un'illusione, la solita da millenni: ma immaginarsi al centro dell'universo, con le proprie ridicole catene di cause ed effetti, coi nostri piccoli e inestirpabili peccati da rimproverarci - è quasi sempre meglio che immaginarlo vuoto.
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Un amico americano ad Atene

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I due volti di gennaio (2014, Hossein Amini).

Lo sapevate che gennaio ha due volti? Io per esempio no, non lo sapevo. A dire il vero non lo so neanche adesso, dal momento che nel film il titolo non è affatto spiegato. Sarà senz'altro un riferimento a Giano, che però è un Dio latino, mentre questo film è ambientato in Grecia, boh, partiamo bene. Rydal (Oscar Isaac) è un Ripley in minore, installato all'ombra del Partenone in attesa che qualcuno scriva un romanzo su di lui. Nel frattempo attira turiste americane con le poesie e le frega col cambio dollaro-dracma, quel tipo di giochino che oggi non si può più fare e l'economia ne soffre, maledetto euro. Sul luogo di lavoro incontra MacFarland (Viggo Mortensen), un Gatsby in minore che approfitta della necessità di scappare dai creditori per mostrare l'Europa alla giovane moglie (Kirsten Dunst). Eccitante, nevvero? Nevvero? Eh, lo so. L'alternativa era un altro film di un vecchio di Hollywood che per salvare una ragazzina ammazza un sacco di gente – la settimana scorsa era Mickey Rourke, quella prima Liam Neeson, questa settimana toccava a Denzel Washington, e allora mi son detto, proviamo Viggo. È un film tratto da un romanzo di Patricia Highsmith, hai visto mai.

È un film molto pitorèsco
La Highsmith è un'autrice inglese amatissima dai registi (cominciò Hitchcock in persona a trarre un film dal suo primo romanzo), nota soprattutto per aver creato l'amorale e camaleontico Ripley negli anni Cinquanta – quando l'omoerotismo non era proprio moneta corrente nel genere noir. È proprio il richiamo a Ripley – esplicito sin dalle locandine – a condannare il film, attirando gli spettatori verso una delusione inevitabile. Ci sarà pure un motivo se Ripley è già stato interpretato da Alain Delon, Dennis Hopper, Matt Damon e John Malkovich, e questo Rydal non se l'era ancora filato nessuno. Per quanto Amini, già navigato sceneggiatore (Jude, Le quattro piume, Drive) sognasse di realizzare questo film da una vita, alla fine è proprio la scrittura la cosa meno convincente di un prodotto elegante, ben confezionato, in certi momenti perfino bello da vedere, ma che sembra già studiato per il pomeriggio della casalinga... (continua su +eventi!) Quel tipo di fiction concepita per essere compresa completamente anche da chi ha gli occhi fissi sull’asse da stiro e si guarda una scena su una dozzina – ecco, I due volti di gennaio è un po’ così. Non c’è molto da guardare. Manca del tutto l’aspetto omoerotico, che per quanto la Highsmith smentisse, è il pepe di tutti i film in cui appare Ripley; in compenso c’è un complesso di Edipo buttato lì un po’ brutalmente. Sono sicuro che nel romanzo i due protagonisti avessero un po’ più di tempo e sfumature a disposizione per sviluppare un rapporto padre-figlio: ad Amini il tempo è mancato, o forse non è stato capace di trovarlo. La Dunst sta a ruota dei due, senza aver molto l’aria di credere in quello che fa, ed è difficile darle torto. 

Menzione speciale, comunque, per Viggo Mortensen. Magari tra qualche anno finirà anche lui a uccidere gang che rapiscono ragazzine – è il destino di ogni divo ultracinquanta a quanto pare – ma nel frattempo riesce a dar forma a un tipo di americano all’estero mai così pasticcione ed antieroico. Mortensen uccide solo per errore e sempre le persone sbagliate; braccato dalla polizia ellenica, reagisce facendo tutto quello che può fare un turista per farsi notare (ubriacature moleste, scenate con la moglie in pubblico, ecc). Alla sua anabasi assiste, divertito e incredulo, il coro greco dell’indotto turistico, incerto se denunciarlo o spennarlo ancora un po’. Gli eroi hollywoodiani non passano di qui. I due volti di gennaio è al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (20:00; 22:30), al Fiamma di Cuneo (21:10) e ai Portici di Fossano (21:15)
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Ma quando nell'Euro siamo entrati, tu dov'eri?

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Son piene le fosse

Frequento pochi ventenni, è un mio limite. Mi piacerebbe capire cosa ne pensano, davvero, di tutti questi vecchi scemi, dai quaranta in su, che all'improvviso hanno realizzato che l'Italia deve uscire dall'Euro - non potevano accorgersene quando stavano entrando? Questi babbioni in piena crisi coniugale, come se un mattino si fossero svegliati abbracciati all'Euro e ODDIOMIO KE HO FATTO!!!!1111!!

"Cosa c'è meine liebe?"
"PUSSA VIA SCHIFOSA VALUTA TEDESCA".
"Tesoro wie geht's? hai fatto tu un brutto sogno?"
"Non era un sogno, era la realtà! Che schifo! Io e te... abbiamo passato la notte insieme!"
"Come ogni notte da qvindici anni, liebchen".

E insomma tutta questa gente ai tempi di Maastricht dov'era? Non potevano accorgersene un po' prima, di quanto l'Euro fosse insostenibile, di quanto puzzasse, di quanto ci avrebbe resa impossibile la crescita economica e complicata la vita? No, sono tutti diventati economisti esperti quindici anni dopo. Svegliandosi, un mattino, a fianco della sozza creatura europea, si sono resi conto di aver essere finiti nell'unica trappola che non prevede via d'uscita.

Persino il matrimonio di Santa Madre Chiesa Cattolica; quello che si prende davanti al sacerdote, in presenza di testimoni, in cui si giura di resistere a fianco del coniuge nella buona e nella cattiva sorte; e il prete dice "finché morte non vi separi", e voi dite "sì": persino quello, a veder bene, si può annullare: basta dimostrare di non aver capito bene, di essere magari un deficiente. Esiste un tribunale apposta, magari non è la procedura meno cara o più dignitosa del mondo, ma insomma, anche quel matrimonio indissolubile si può dissolvere. Maastricht no. Niente divorzi, niente referendum. È peggio dei preti.

Anche il diavolo dei racconti, quello che ti fa firmare i contratti col sangue, quasi sempre poi se ne va con le pive nel sacco a causa di qualche cavillo. Maastricht no. È peggio del diavolo. Davvero, mi piacerebbe capire come la vivono i ventenni. Non fanno che sentire discorsi su come si stava bene con la lira, con quella meravigliosa inflazione che pompava l'economia, che vasodilatava come neanche la cocaina, che botte raga gli anni Ottanta. E poi?

"E poi papà cos'è successo?"
"Eh, cos'è successo... ho incontrato la culona".
"Ma come hai fatto a non capire?"
"Ma chissà... anche io me lo domando... sai, in quel periodo capire le cose era un po' un optional".
"Seh, papà, vabbe', vaffanculo".
"Ah no! In questa casa vaffanculo lo dico io".
"Se ti consola".

Allora, caro ventenne che non conosco, cerco di spiegartela io: non è che quindici o vent'anni fa fossimo tutti spensierati o ignoranti - ce n'era certo in giro, forse persino più che adesso - ma se l'euro ci parve una buona idea non fu per un qualche complotto di banchieri o poteri forti. Persino i leghisti di Bossi, persino loro che adesso si baciano i gomiti per aver trovato con Salvini uno straccio di strategia; persino loro, ai tempi, non vedevano l'ora che Banchitalia chiudesse e passasse le pratiche a Francoforte; e avevano i loro buoni motivi. Per quanto possano sembrarti scanzonati e grassi gli anni Ottanta, dammi retta se ti dico che la maggior parte di noi aveva già chiarissima la sensazione di precipitare in moto rettilineo uniforme verso un suolo lontanissimo ma solido; no, non eravamo economisti, ma sapevamo di avere contratto dei debiti per pagare interessi su altri debiti che avremmo saldato con altri debiti che avresti dovuto pagare tu. In quella situazione l'euro ci sembrò provvidenziale. Ci sbagliavamo?

Magari sì, che ne so. Facile dirlo col senno del poi. Ora tu magari hai tutte le ragioni per odiarci, ma non credere che al nostro posto tu non avresti detto lo stesso "sì". Non essere sicuro che non dirai mai "sì" a proposte anche peggiori. A parziale discolpa, l'Euro a cui dicemmo "sì" a Maastricht era molto diverso da quello che è diventato. Per certi versi era più grande, per altri era più piccolo.

Era più grande perché era parte di un progetto che a quanto pare si è bloccato. Tu ora lo vedi come un matrimonio - e hai ragione - ma noi a quel tempo lo consideravamo più un fidanzamento: l'euro era solo il primo passo. Dopo la politica monetaria sarebbe seguita la politica economica (insomma, era ovvio o no? Come si fa ad avere la stessa valuta e politiche economiche diverse?) Dalla politica economica sarebbe ovviamente seguita la necessità di una politica comune tout court, et voilà: nel giro di vent'anni avremmo avuto la Confederazione Europea, se non proprio gli Stati Uniti. Non poteva che andare a finire così - anche se a ben vedere non c'erano precedenti.

Allo stesso tempo quell'Euro era più piccolo: i contraenti a Maastricht erano appena dodici. E noi contavamo molto di più di un semplice dodicesimo. Eravamo la terza economia, con qualche motivo per crederci ancora l'idolo delle feste: quello irresistibile anche se ha un sacco di magagne da farsi perdonare. Una cosa che davvero non ci aspettavamo era l'allargamento a est. Per forza, era il 1992. Il muro di Berlino era ancora un cantiere, non avevamo nemmeno le cartine aggiornate alle pareti. Per noi la Slovacchia era remota quanto il Tagikistan - occhio, non ti sto dicendo che l'allargamento massiccio del 2004 fu un errore. A quel punto ormai era chiaro che l'est era la frontiera del benessere: se non lo avessimo agganciato noi, ci avrebbero pensato gli americani. Lo si vide con la seconda guerra del Golfo, quando Donald Rumsfeld incassava l'appoggio entusiasta di polacchi e ungheresi e la chiamava la "nuova Europa". Ancora oggi, è la Nato più che la UE a spingere per mettere le bandierine sull'Ucraina. Allargarsi a est era inevitabile, ma il risultato è che il baricentro si è allontanato dal mediterraneo, forse per sempre. Dovevamo capirlo nel '92? Dovevamo immaginare delle alternative?

E dunque caro ventenne, è andata così. L'euro era molto più carino, quando ce lo siamo portati in casa. Va sempre a finire così, probabilmente; ma sei libero di pensare il contrario. Libero di prendertela con me. Se te ne intendi anche solo un minimo, a questo punto sai meglio di me che il referendum di cui oggi parla Grillo, e dopodomani parlerà Salvini, non si può fare. C'è una ragione giuridica (non è previsto dal Trattato) e ce n'è una di buon senso; anche chi andrà a votare per l'uscita dall'Euro non ci penserà due volte a riempire di buoni euro i materassi. Dal momento che la sacrosanta libertà di parola dovrebbe consistere nella libertà di affermare che due più due fa quattro, sarebbe opportuno che da qui in poi Grillo e gli altri anti-euristi fossero obbligati a dichiarare con chiarezza quello che chiedono davvero: non tanto USCIAMO DALL'EURO!, quanto SVALUTIAMO I NOSTRI RISPARMI!, magari anche DIMEZZIAMO I NOSTRI STIPENDI!, dopodiché fatalmente L'ECONOMIA RIPARTIRA', il che effettivamente potrebbe anche darsi: l'economia dopo un disastro riparte sempre. Nel medioevo era una pestilenza, nel Novecento una guerra mondiale, ma non c'è dubbio che in generale non ci sia niente meglio di un bel disastro per far ripartire l'economia.

Se te ne intendi anche solo un minimo, anche questa cosa già la sai, e forse a questo punto avresti anche diritto di decidere se l'opzione ti interessa o no. Che ne dici di una nazione a metà tra l'Europa e il Sud sottosviluppato del mondo, una roba tipo Messico, ma con la doppia valuta stile Cuba? Un posto dove il medico pubblico garantisce un servizio di qualità ma guadagna meno della figliola che la dà ai turisti in cambio di sani bigliettoni europei? È il tuo futuro, chi se non te avrebbe diritto di deciderlo?

Che pretendano invece di deciderlo dei giuggioloni come Grillo, o Casaleggio - gente che negli anni Novanta si sarebbe comprata la fontana di Trevi, e che oggi crede di stamparsela in 3d - ecco, questo è un po' seccante, non trovi.
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Il punitore di sé stesso

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Sin City - Una donna per cui uccidere (Frank Miller, Robert Rodriguez, 2014).

Sei lì tranquillo che hai appena messo la moka sul fornello, quando bussano alla porta. È Pablo Picasso.

Ciao, sono il tuo immaginario anni '90, ma in carne ossa,
ora puoi vergognarti in 3D.

"Buonasera, mi perdoni l'intrusione, ma..."
"Maestro! Non trovo le parole per dire quanto questo sia un onore per me..."
"Non le cerchi nemmeno le parole, giovanotto, io vado un po' di fretta".
"Posso offrirle qualcosa? Un caffè?"
"Come se avessi accettato, grazie. Le spiego senz'altri convenevoli il motivo della mia visita. Lei ha per caso presente una tela discutibile che dipinsi qualche anno fa, Les Demoiselles d'Avignon?"
"Come potrei non conoscerla, Maestro? È forse la sua opera più celebre".
"Già, già. E non ha per caso nel suo appartamento qualche riproduzione di siffatta opera, in bianco e nero o a colori?"
"Mi dispiace, no. Ma non deve pensare che questo sia un segno di disistima nei suoi confronti..."
"Non lo penso, non lo penso. Ma mi chiedevo... anche solo una foto in un libro, un catalogo, un manuale per la scuola media..."
"Ah, beh, certo, Storia dell'Arte 3. È qui nella mensola alta, un attimo... Eccolo. C'è la foto a piena pagina, come può notare".
"Già. Splut!"
"Maestro, ma cosa sta facendo? Perché scaracchia nel mio libro e si soffia il naso con la foto del suo capolavoro?"
"Perché lo odio quel quadro di merda! Non lo sopporto più!"
"Ma non dica così, è una pietra miliare del..."
"È una zozzeria orrenda!"
"Ma ci sono fior di critici, e connaisseurs, e collezionisti, che non condividono questa sua opinione".
"Lo credo bene, l'ho dipinto per pigliarli per il culo!"
"Beh, questo ha un senso, almeno nel quadro delle avanguardie artistiche del secolo scorso".
"Sì, appunto, è passato un secolo, mobbasta. Secondo lei io ero talmente coglione da dipingere le facce romboidali? Io se mi impegnavo davo i punti a Rembrandt. Questa schifezza ha rotto le palle".
"E quindi cosa intende fare? Entrare in casa di ogni persona che l'ha vista e distruggerla con le sue mani? È un'impresa impossibile!"
"E perché?"
"Perché l'editoria stampa manuali e cataloghi a getto continuo... e poi c'è internet... e ora che ci penso lei comunque è morto".
"Già, non la trova un'ingiustizia? Che io sia morto e che quella schifezza possa sopravvivermi?"
"Credo che debba rassegnarsi".
"Mai. Dopotutto è roba mia, ci ho messo il nome sopra, perché non posso più distruggerla? Possibile che non ci sia un modo per sabotarne definitivamente la ricezione?"
"No, mi dispiace. L'unico che conosco che ci è riuscito è Frank Miller".
"Chi è Frank Miller?"
"Un fumettista che disegnava tavole violentissime e molto eleganti, che tutti compravamo e mettevamo sulle mensole alte".
"E poi ha fatto come me? È entrato di casa in casa di ogni singolo acquirente e ci si è nettato il culo?"
"No, le ha trasformate in film e ce li ha fatti guardare".
"Interessante".
"Meno di quanto sembra".
"Trasformare l'arte grafica in cinema per distruggerla. Pura avanguardia".
"Sul serio? Non ci avevo pensato".


Una donna per cui uccidere è la prima storia di Sin City che mi capitò di leggere, e dunque è quella che ricordo meglio. Non tanto la storia (le storie di Sin City non sono fatte per essere ricordate): ricordo me stesso che leggeva Una donna per cui uccidere; ricordo la ragazza che me l'ha prestato e che era un'artista, lei, molto promettente. Affrescava pareti e illustrava libri per bambini, privilegiava le tinte pastello e disegnava dolcissimi leprotti. E intanto ascoltava Licensed to ill a palla, e mi prestava i fumetti di Lobo o Sin City di Frank Miller. Una dicotomia davvero affascinante, se solo ci avessi fatto caso. Ma era una di quelle fasi della vita di noi maschietti in cui, come spiegarlo? Non fai caso a niente. Il sistema endocrino governa ogni tua percezione, il sistema nervoso centrale è completamente succube della prima ragazza che ti telefona e dice: mi aiuti ad accendere il computer? a rimettermi col mio ragazzo? a traslocare? a uccidere il marito ricco e noioso? Così potremmo dire che Una donna per cui uccidere parlava di me, in quel modo grottesco e completamente fuori le righe che aveva già allora Miller per parlare delle cose: ma siamo onesti, in quella fase della vita di noi maschietti qualsiasi messaggio complesso parla di noi, anche le istruzioni per lo spremiagrumi. Probabilmente, se lo tirassi fuori da quella mensola alta, scoprirei che Una donna per cui uccidere è un fumetto bislaccamente violento, che ti sbatte in faccia una serie insostenibile di luoghi comuni con la scusa postmoderna della riscoperta del "genere". Ma allora non ci facevo caso. Lo trovavo elegante, nella sua rozza e programmatica abolizione delle sfumature. Ammiravo la sintesi del tratto, la trasformazione degli schizzi di sangue in cascate di luce; e un occhio cavato da un'orbita non mi impressionava più di tanto. Poi, vabbè, la storia era assurda e tagliata con l'accetta: ma l'importante era lo stile, e lo stile richiedeva che la storia fosse così. Le donne erano tutte puttane, tranne le puttane professioniste, loro sì affidabili e deliziosamente spietate: ma che importava, Miller mica faceva il moralista, Miller trasfigurava i cliché dell'hardboiled in sofisticate silhouettes, Miller era un genio. Gli mancava solo di morire in quel momento.

Invece è sopravvissuto a sé stesso, Frank Miller, cominciando da un certo punto in poi a sabotare la sua stessa reputazione. Una cosa persino eroica, a suo modo, perché è facile essere iconoclasti col culo degli altri, ma provate a usare il vostro – nessuno è mai stato capace di autodistuggersi come lui. Potremmo dire che si è rincoglionito, ma è troppo facile. Capita a tutti di rincoglionire, è più o meno il destino di tutti  gli artisti che non hanno l’occasione di levarsi di mezzo da giovani. Una sorte in qualche modo persino augurabile. Ma per quanto tu possa rincoglionire, se hai fatto delle cose buone da giovane non puoi rovinarle. Ormai stanno lì, sulle nostre mensole: non puoi venire casa per casa e stracciare ogni singola edizione del Cavaliere Oscuro. Puoi ingegnarti a scriverne un sequel; puoi farlo brutto apposta, ma non servirà a niente: lo dimenticheremo presto e continueremo a sfogliare il Cavaliere Oscuro. Per quanto il nuovo Miller si sforzasse di autosabotarsi, non c’era nulla che potesse fare per distruggere la stima che avevamo di lui.
Ma a questo punto entra in scena Robert Rodriguez, el Rey dei tamarri.
Un giorno si presenta a casa di Miller e gli mostra un pezzo del suo Sin City trasformato in film. Non è una semplice trasposizione cinematografica. È proprio Sin City. Gli attori si muovono come nelle vignette. I dialoghi sono gli stessi delle nuvolette. Dunque si può fare! Abolire lo script tradizionale e usare le tavole di un fumetto come storyboard. Era da anni che non facevamo che scomodare l’aggettivo ‘cinematografico’ per l’arte di Frank Miller, e benché i suoi rapporti col mondo del cinema non fossero del tutto incoraggianti, era impossibile non accostarsi al primo film tratto da Sin City con curiosità. Quante volte ci eravamo detti insoddisfatti di un fumetto tratto da un film? Più o meno tutte le volte che abbiamo avuto il coraggio di andarlo a vedere. Bene, col primo Sin City non avevamo più scuse: il film era il fumetto. Rodriguez prometteva di girarlo esattamente come Miller lo aveva immaginato. Direttamente dal cervello di Miller al grande schermo.



Questa è sempre la Dawson, ma secondo i due registi non dovremmo accorgercene subito: cioè questa secondo loro è la Dawson mascherata.

E quindi insomma, cosa avevamo da obiettare al viso di cartapesta di Mickey Rourke? Ai ridicoli completi sadomaso di Rosario Dawson? Non erano uguali a quelli stilizzati sulle tavole di Miller? Perché ci faceva strano che le teste tagliate parlassero? Non succedeva la stessa cosa nella storia più divertente di Miller? Com’è possibile che trovassimo insostenibili le continue voci narranti? Non facevano che rileggere le didascalie di Frank Miller. Alcune di quelle didascalie le sapevamo persino a memoria (“il suo bacio è una promessa di paradiso”). Perché ci sembrava ridicolo il colore bianco del sangue? È che quella che sulla tavola di Miller sembrava una cascata di luce, al cinema diventava una cagata di piccione. Il primo Sin City fu un film importante se non altro perché mise definitivamente i patiti di fumetto di fronte alla realizzazione dei loro desideri, sbattendo loro in faccia l’amara verità: sul serio desideriamo questo? Sul serio crediamo che quelle silhouette in bianco e nero possano trasformarsi in personaggi in carne e ossa e indugiare in quei monologhi paratattici senza passare dal ridicolo?
Da lì in poi non ci siamo più lamentati del fatto che le storie a fumetti al cinema diventassero un’altra cosa. Anzi, abbiamo cominciato ad augurarci che incontrassero registi privi di timore reverenziale, pronti a violentarli se necessario; perché se invece i film pretendono di mettere in scena le vignette come tableaux viventi, come sacre rappresentazioni, non solo diventano ridicoli, ma irradiano di ridicolo anche gli originali cartacei. Io sul serio non mi ero reso conto di quanto fosse tamarro Frank Miller, finché el rey Rodriguez non mi ha levato il velo artistoide dagli occhi. Tutte quelle puttane che saltano sui tetti imbracciando cannoni, un immaginario softporno anni Settanta, ma sul serio abbiamo perso così tanto tempo ad ammirare un misogino negato con l’anatomia che racconta sempre la stessa storia ed è pure una storia scema? Noi credevamo di essere fini connaisseurs, poi arriva Rodriguez e ci dice wow! tacchi a spillo e pistole! tette e teste mozzate! katane e frusini! i miei sudditi prolet cafoni andranno pazzi per questa roba! Daccene ancora! Dici: e vabbe’, sarà il cinema che deforma, che svilisce, che semplifica. Ma sotto sotto sai che non è vero; che se avessi davvero voglia di riaprire quel volume nella mensola lì in alto, ci troveresti tutto già deformato, svilito, semplificato. 

Nove anni dopo, Miller e Rodriguez tornano sulla scena del delitto. Chissà perché poi. Probabilmente entrambi sono in una fase non particolarmente felice della loro rispettiva carriera e hanno bisogno di lavorare; nel frattempo il digitale ha fatto grandi progressi, e probabilmente girare un film completamente su green screen è diventato così facile che sembra stupido non provarci. Mickey Rourke non è che abbia l’agenda fitta di impegni, Bruce Willis è un signore e cinque minuti di set non li negherebbe neanche a Ed Wood; le storie ci sono già, il brand bene o male esiste e non è ancora stato definitivamente sputtanato – ecco, appunto, rimaneva solo questa mossa: sputtanare definitivamente il brand. Non credo che nessuno dei due registi sperasse davvero di cavarci fuori un film decente. In particolare le storie nuove scritte da Miller esplicitamente per il film ribadiscono che il tizio odia sé stesso e passa il tempo a farsi il verso da solo. Me li immagino, registi e produttori seduti a un tavolo, mentre si pongono il problema: ok, molto probabilmente verrà una merda. Possiamo fare qualcosa per mandare comunque la gente a vederla? Qualcuno ha qualche idea? Tu là in fondo. 

“Tette”.
“Un po’ banale, forse”.
“Di Eva Green”.

“Ah, beh no, allora è un classico”.
“Non stancano mai”.
“Non hai tutti i torti”.
“Io ho già consumato due dvd dei Dreamers”.
“Eh, ma d’altronde il grande cinema europeo, Bertolucci, il Sessantotto francese…”
“Ah, è ambientato in Francia?”
“Credo di sì, onestamente non l’ho mai visto intero”.
“Neanch’io”.
“Ok, quindi se nessuno ha un’idea migliore tagliamo su tutto il budget e investiamo nelle tette di Eva Green, qualcuno è contrario? Ok, all’unanimità”.
***
Drin Drin
“Casa Rodriguez, chi parla?”
“Chiedo scusa, lei è proprio Roberto Rodriguez? El rey dei tamarri?”
“In carne e cappellone”.
“Mi presento, sono Pablo Picasso, un pittore del secolo scorso, forse avrà già sentito parlare di me”.
“Vagamente”.
“Volevo proporle un soggetto che la renderà ancora più ricco, famoso e culturalmente rilevante: una torbida storia ambientata in un bordello nella Francia del sud”.
“Un bordello nella Francia del sud?”
“La storia è ispirata a un mio quadro famoso”.
“Ci sono le tette?”
“In tutte le angolazioni possibili, e inoltre volti deformati senza un perché”.
“Tette e volti deformati. Ha la mia attenzione”.
Sin City 2, se proprio uno ci tiene a vedere Frank Miller che si sputa addosso, è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10 e alle 22:45, e in versione 3d al Multisala Impero di Bra alle 22:30. 
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Come dar ragione alle Sentinelle

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Trentino - Corriere delle Alpi, 5 ottobre
È molto difficile immaginare ormai come sarebbe la mia vita senza social network - senz'altro più piena, più soddisfacente, e chissà quanti libri avrei letto in più eccetera - in particolare credo che questa settimana non avrei sentito parlare delle Sentinelle, un gruppo non particolarmente numeroso o interessante di attivisti pro-life e anti-gay, che a quanto pare si ritrova nelle piazze a legger libri. Svanito l'effetto novità, un tipo di manifestazione del genere è destinato a scivolare nelle pagine locali dei quotidiani, dove senz'altro non me lo sarei andato a cercare: e probabilmente a questo punto me le sarei anche dimenticate, le Sentinelle. 

Invece è da sabato che sento soltanto parlare di Sentinelle sui social network, il che è molto interessante dal momento che come tutti tendo a selezionare, più o meno consapevolmente, i contatti che condividono con me informazioni e sensazioni. Chi continua a farmi sapere quanto siano fasciste le Sentinelle, intolleranti le Sentinelle, stupide e ignoranti le Sentinelle, è una persona che più o meno la pensa come me su tante cose. Nello specifico, considera l'aborto un diritto, e il matrimonio pure, e ritiene che finché quest'ultimo non sarà esteso anche ai gay, essi saranno vittima di una grave discriminazione. Io perlomeno la penso così, e così più o meno la pensa la nuvola di contatti che mi circonda sui social. Ed è da tre giorni che gran parte di questi contatti mi sembrano scandalizzati, piccati, in alcuni casi persino arrabbiati, perché un gruppo di attivisti che non la pensa come loro sta manifestando in alcune piazze nel modo più pacifico possibile.

È come se l'abitudine di circondarsi di persone che la pensano come noi ci stesse in un qualche modo disabituando a convivere con un dato di fatto: là fuori c'è un mondo, che molto spesso (quasi sempre) non la pensa come noi. In particolare l'omofobia delle Sentinelle, per quanto penosa, si attesta probabilmente intorno alla media nazionale: che è poi il banale motivo per cui in altri Paesi i gay si sposano tranquillamente da anni, ormai, e da noi i politici fanno ancora un po' di fatica a parlarne. Però con le Sentinelle avviene una curiosa inversione: quando sento parlarne sui social, mi sembra quasi che la minoranza siano loro. Insomma, tutti gli danno addosso. Tutti li prendono in giro. Li trovano ridicoli, irridono le loro fisionomie e i libri che leggono, li paragonano a nazisti o mullah, eccetera. Un'altra caratteristica dei social, proprio perché formano comunità più o meno lasche di individui, sono le dinamiche di branco; non importa quanto siamo in pochi, c'è da qualche parte in rete uno spazio in cui siamo la maggioranza, la pensiamo tutti uguale, e quindi possiamo infierire sulla pecora nera. Con le Sentinelle il meccanismo scatta fin troppo facilmente, anche perché pur muovendo da premesse fasciste e omofobe, ostentano in piazza l'atteggiamento più passivo possibile. Si mettono lì in piedi e leggono un libro (va bene uno qualsiasi). Troppo facile prenderli di mira, no? Appunto. Così facile che basta rifletterci appena un po' per fiutare il trabocchetto. Il tizio che va in piazza, e nemmeno ha uno slogan da comunicare; nemmeno prova a convincerti; si mette lì impalato e sfoglia un libro, che altro sta facendo se non offrirsi proprio al tuo sdegno? E se ti sdegnerai, come in fondo è normale che sia se solo accetti di dargli un po' della tua attenzione, non gli starai per caso facendo un favore?

Si fanno chiamare Sentinelle, ma funzionano da esche: si mettono in mostra affinché li odiamo, e in breve riescono a invertire il quadro. Non sono più espressione di una maggioranza silenziosa omofoba o antiabortista, ma eroici difensori di una minoranza perseguitata, vilipesa, e sbeffeggiata. Poi, sì, restano omofobi; ma con poca fatica sono riusciti a dimostrare che sono gli altri a odiarli: gli altri, la maggioranza succube dell'"egemonia omosex". E per farlo è sufficiente passare una mezza giornata in piedi. Non male per un gruppo né particolarmente numeroso né molto interessante. A volte davvero basta avere l'idea giusta. 

Io credo che irridere i propri avversari non faccia avanzare di un passo la lotta per difendere o estendere i diritti civili, e che insomma la migliore risposta alle Sentinelle sia ignorarle. Non mi stupisce che a Bologna si sia fatto l'esatto opposto: nello stemma ideale dei movimenti bolognesi è ormai iscritto il motto "sbagliamo tutto dal '77". Reagire al loro silenzio con un silenzio incomparabilmente superiore: mi rendo conto quanto sia difficile, nel momento in cui pure io sto buttando giù 5000 battute sull'argomento. Da una parte c'è la loro esigenza di trasformarsi in vittime, dall'altra il nostro bisogno di sentirci più intelligenti, più liberi, ma anche più tosti - avrete fatto caso a come una certa goliardica arroganza sia il vestito di ordinanza in ogni comunità che prenda forma su un forum o un network. Ma insomma questi arrivano coi loro libriccini e le loro idee sceme, in sostanza ti supplicano di detestarli - e noi siamo troppo furbi, troppo splendidi per non cascarci a piedi pari. 
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Dieci cento mille trattative

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La Trattativa (Sabina Guzzanti, 2014).

Di cosa parliamo, quando parliamo di trattativa Stato-mafia? Di quale trattativa, quale Stato, quale mafia? Fino a che punto Riina o Provenzano furono parti in causa, da quale in poi diventarono merci di scambio? L'argomento, già oscuro e intricato di suo, negli ultimi anni è stato deformato a piacere da cronisti e impresari di talkshow più interessati a restare in prima pagina (allevando mostri, se necessario) che a fornirci un quadro d'insieme. A colmare la lacuna è arrivata Sabina Guzzanti e il suo "gruppo di lavoratori dello spettacolo", con una ricostruzione ovviamente parziale, ma efficace e soprattutto non noiosa. Anche chi non condivide né le premesse né le conclusioni della regista, in capo a un'ora e mezza almeno questo glielo deve riconoscere: la Trattativa è un film originale, che si prende tanti rischi e in un qualche modo riesce a scansarli tutti, sbandando allegramente tra cinema teatro e tv.


Nella Trattativa c'è un po' tutto quello che avevamo paura di trovarci - filmati di repertorio con cortei di prefiche al ralenti, invettive alla ka$ta coi violini di Piovani in sottofondo, verbali di interrogatorio sbobinati e affidati alle cure di teatranti ispirati, infografiche tagliate con l'accetta, insomma tutti gli ingredienti di uno speciale di Servizio Pubblico che non guarderemmo più nemmeno sotto tortura. Questo passa il convento, ma la regista riesce ugualmente in qualche miracoloso modo a cucinare una pietanza interessante, raffinata perfino. Come ha fatto? Il segreto è forse la misura, la consapevolezza dei propri limiti. La Guzzanti sa che recitare i verbali conduce inevitabilmente a risultati grotteschi, e volge la cosa a suo favore dichiarando dopo pochi minuti l'artificiosità della messa in scena. Sa che il tema che si è scelto ha un peso specifico che mette alla prova il più motivato degli spettatori, e non ha remore ad alleggerire il dramma con siparietti tragicomici che ci fanno arrivare alla fine del film senza aver guardato una volta sola l'orologio. Riesce a piazzare qua e là persino la sua imitazione di Berlusconi - ormai più che satira è un talismano, una mascotte grottesca, il gemello cattivo che si porta con sé su qualsiasi set - e che in un qualche perverso modo anche qui funziona. Sa che come presentatrice non rende al massimo, e cede volentieri la voce narrante agli attori che si truccano e travestono in scena, entrando e uscendo giocosamente dai loro personaggi.

Lo straniamento brechtiano che ne deriva è ovviamente agli antipodi del culto dell’innocenza fondato da Pif in La mafia uccide solo d’estate. Pif vuole farci tornare bambini, cerca di farci immedesimare in una Palermo assediata dagli uomini cattivi. La Guzzanti ci parla come si parla agli adulti: ci tiene a distanza, ha un ragionamento da fare ma è abbastanza onesta da ammettere che certi dettagli non tornano. Il risultato è così notevole che fornisce abbastanza strumenti anche a chi vuole criticare la sua impostazione.  In sostanza la Guzzanti crede che ci sia stata una sola grande Trattativa, tra un solo Stato colluso e una sola Mafia. Nel momento in cui quest’ultima sembrava a un passo da essere sconfitta per sempre, lo Stato colluso ha lasciato che fossero eliminati i suoi servitori troppo intransigenti e attivato i suoi emissari che dopo una serie di equivoci sarebbero riusciti a stabilire un contatto solido e a normalizzare la situazione: il risultato di questa normalizzazione sarebbe la nascita di Forza Italia, l’ascesa al potere di Berlusconi, e il conseguente sfacelo della Repubblica. Nel finale del film, la Trattativa diventa in sostanza la causa di tutta una ventennale degenerazione della società italiana; tra le ultime immagini di repertorio compare a mo’ di esempio l’Ilva di Taranto. Se lo Stato non avesse ceduto alla Mafia, il malaffare non avrebbe trionfato e le fonderie non avrebbero avvelenato le persone. È una generalizzazione talmente grossa che a mio modesto parere si sgonfia da sola.
Quel che credo di aver capito io – guardando il film: questa è la sua forza – è che le cose sono davvero parecchio più complesse: e se ci fu a un certo punto una trattativa tra uno stato (che non è lo stato di adesso) e una mafia (che non è l’organizzazione malavitosa di adesso), probabilmente non fu l’unica e non fu così decisiva. Quella che nel ’91 stava cadendo sotto i colpi del maxiprocesso, e cominciò a dar furiosi colpi di coda a Capaci e in via d’Amelio non era “la Mafia”: era una mafia, la cui crisi rischiava di cedere spazio ad altre organizzazioni malavitose, ‘ndrangheta camorra o stidda – che nei fatti occuparono progressivamente il vuoto che Cosa Nostra lasciava. In una situazione del genere, un apparato dello Stato (il Ros di Mori?) potrebbe effettivamente aver cercato di sostenere una fazione moderata e normalizzatrice all’interno di Cosa Nostra, rappresentata da Bernardo Provenzano. È un’ipotesi ragionevole, anche se fin qui smentita dai processi. La Trattativa è al cinema Fiamma di Cuneo alle 21.
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