Come stai vecchia stragista

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Non è commovente che papa Bergoglio telefoni a Emma Bonino per chiederle come sta? Un po’ sì. Però è assurdo.

Non mi considero molto radicale, ma stimo la Bonino; nemmeno così cattolico, ma rispetto Bergoglio. Gran parte della mia considerazione per loro, tuttavia, poggia sul fatto che non possano andar d’accordo, e nemmeno rispettarsi. La Bonino ha combattuto in prima linea la lotta non violenta ma acerrima per la legalizzazione dell’aborto. In un anno si autoaccusò di avere aiutato diecimila madri ad abortire. Non se n’è mai pentita e che io sappia non ha mai rivisto la sua posizione. Il papa dirige l’organizzazione che nel mondo ha più osteggiato la legalizzazione dell’aborto.

Se per Bergoglio la vita inizia col concepimento, e interrompere una gravidanza equivale a interrompere una vita, non si vede come Emma Bonino possa essere per lei altro che un’assassina seriale, e della peggior specie: non avendo lei ucciso per passione o convenienza, ma perché lo riteneva giusto e legalizzabile. Il capo di una religione che costringe le donne ad abortire di nascosto e un’assassina seriale di feti cos’hanno da dirsi di gentile al telefono? Onestamente non lo capisco.

L’unica ipotesi che mi riesce è che sia un gioco delle parti: e che a questa storia dell’aborto-assassinio persino il papa creda fino a un certo punto. Un’iperbole retorica, che si mette via quando è ora di telefonare a una brava persona e chiederle come sta. Ma ai suoi fedeli sta bene? Non ci trovano niente da ridire?
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Liam Neeson ha fatto cose orribili

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Run all night (Jaume Collet-Serra, 2015)


Liam Neeson ha fatto cose orribili in passato. Cose di cui si vergogna. Mission? Schindler's List? E perché mai. La minaccia fantasma? Le cronache di Narnia? Uno deve pur campare. Film di Luc Besson in cui ammazza sequestratori e terroristi che hanno mediamente un terzo dei suoi anni, una dozzina alla volta? Non c'è dubbio che sia una svolta curiosa, proprio alla boa dei sessant'anni. Ma per sua stessa ammissione, sono stati proprio questi ruoli action a distrarlo dall'alcolismo in cui si trascinava dopo la scomparsa della moglie. Liam Neeson ha fatto cose terribili, film scemi in cui massacra centinaia di stranieri cattivi per salvare ex mogli e figlie in pericolo. Ma li ha sempre fatti con un piglio tutto personale e un certo sprezzo del ridicolo, ottenendo risultati incredibili al botteghino (Taken magari non vi dice niente, ma ha fruttato più di 200 milioni di dollari) e fondando un vero e proprio genere: dopo di lui gli action polizieschi sono stati invasi da attori di prestigio sulla soglia della terza età o decisamente oltre, in gruppo (la saga di Red) o da soli (Kevin Costner, anche lui ripescato da Besson in qualche tonnara). Neeson però è stato il primo, e ogni volta che imbraccia una pistola più o si accende una sigaretta con un ghigno triste sembra trionfare a modo suo sull'ingiustizia che lo ha fatto crescere nell'età sbagliata: è vero, è stato il patriota Michael Collins e il sessuologo Kinsey, ma era nato per i western. C'è una scena in Run all night in cui entra in un saloon e li fa secchi tutti - ok, è un pub a Manhattan, un covo della mafia celtica - ma insomma lo spirito è quello.


La cosa è ormai tanto evidente che gli autori si possono permettere di strizzare l'occhio agli spettatori: all'inizio di questa storia Liam è Jimmy Scavafosse, un ubriacone che sonnecchia nello stesso saloon alla vigilia di Natale. Ha bisogno di soldi, e per ottocento dollari d'onore il figlio del boss lo costringe a indossare un costume rosso da Babbo. Liam ubriaco travestito da Santa Claus, circondato da bambini perplessi dal suo odore, è una metafora non troppo sottile, ma efficace... (continua su +eventi!) Anche perché di lì a poche ore suo figlio,  il suo unico figlio che lo disprezza, si ritroverà in grossi guai, e Jimmy si ricorderà di essere stato il più grande pistolero di Manhattan, ingaggiando una guerra all'ultimo sangue con tutta la mala irlandese. L'alba non troverà superstiti. Il tutto per salvare questo ragazzo che non fa che ripetergli quanto sia stato un pessimo padre - e in effetti nel corso della notte Jimmy Scavafosse dimostra di poter inseguire le macchine della polizia a sirene spiegate (in un divertentissimo inseguimento a parti rovesciate), uccidere poliziotti a sangue freddo, strozzare amici di famiglia nei bagni della metropolitana, friggere il volto di killer più professionisti di lui. Il tutto sempre con quell'aria sofferente che lo rende più plausibile dei soliti attori action. Neeson è il padre che tutti vorremmo essere/avere, un tizio che si fa vedere poco e magari ha Fatto Cose Terribili, ma all'occorrenza è pronto a sterminare chiunque ti dia fastidio.

Questi film Neeson li fa o con registi francesi della scuderia di Besson, o con lo spagnolo Jaumet Collet-Serra, che può contare sulle maestranze hollywoodiane e quindi cerca di mantenere un tono un po' meno fracassone, ma ogni tanto la mano gli scappa. Dietro all'esibita pacchianeria di certe scelte c'è una mano insicura: più volte i personaggi si infilano in qualche vicolo cieco e buio e non si capisce, nella scena seguente, come ne siano usciti. Anche la storia, malgrado sfrutti un canovaccio solidissimo, che ricalca senza vergogna l'ormai dimenticato Road to perdition (Era mio padre), a ben vedere è piena di buchi: Johnny Scavafosse sembra un consumato artigiano del crimine ma in realtà commette continuamente errori da novellino e fa tutto per trovarsi esattamente nel luogo dove i nemici lo troveranno. Con tutti questi limiti, Run All Night resta un film scorrevolissimo e divertente, tra i migliori di questo sottogenere action per attori in prepensionamento. Nell'età dei superuomini muscolosi o cromati, fa piacere ogni tanto vedere un vecchio ubriacone che incassa pugni e pallottole mentre fa fuori la sua vecchia gang per salvare onore e famiglia.

PS: Mentre entravo in sala per vedere Run All Night è passato il trailer di un film in cui Sean Penn è un ex killer professionista, e all'inizio dice: Ho Fatto Cose Terribili Nella Mia Vita. Non so se vado a vederlo.

Run all night è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (15:15, 17:40, 20:15, 22:40); al Vittoria di Bra (20:00, 22:30); al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30). Buona visione. 
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La Fornero e i tecnocrati che non sapevano fare i conti

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Il paradosso dell’ex ministro Fornero è che pochi dei suoi predecessori avrebbero potuto vantare, al momento della nomina, un curriculum altrettanto prestigioso; e proprio a lei, un ‘tecnico’ di provata competenza, libero dai condizionamenti dei partiti, è intestata una serie di disastri contabili dai quali non ci siamo ancora ripresi.

Non è un caso isolato. Quando si installò il governo Monti anche a sinistra in molti lo salutammo come un salutare esperimento di meritocrazia: non ci illudevamo di aver davanti dei progressisti (e infatti), ma pensavamo che i professori almeno i conti li sapessero fare. Ci trovammo invece davanti a personaggi che parevano cascati dalla Luna come il ministro Profumo, che almeno per un giorno ritenne fattibile aumentare del 30% il carico degli insegnanti senza contrattazione. Non era un bieco schiavista: era un buon professore convinto che si potesse fare. Non aveva fatto due conti.

Se il ventennio di Berlusconi ci tolse ogni fiducia nella classe imprenditoriale italiana, nella sua capacità di rinnovare o anche soltanto di capire i problemi in cui si dibatteva, i 17 mesi del governo dei professori ci squarciarono il velo sul livello della nostra classe accademica e intellettuale. A quel punto tanto valeva far scrivere le riforme al primo arrivato. Non sarà poi difficile trovare qualche esimio costituzionalista pronto a mandar giù un premio del 53% per un partito che arriva al 40%. Del resto che pretendi: sono prof di diritto, mica d’aritmetica.
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Uno schiaffo (con affetto) a Zambardino

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Siccome a Vittorio Zambardino voglio bene, lo schiaffo che gli darei è da intendersi come affettuoso, ma pur necessario come quello che si dà a un compagno in choc: ehi, sei ancora tra noi? Cioè sul serio pensi che i tizi in felpa nera si siano decisi a dar fuoco a Milano solo dopo aver scoperto che Erri De Luca riconosce agli oppressi il “diritto-dovere di sabotaggio”?

Quando scrivi che ti senti colpevole, tu e la tua generazione che ne ha dette e fatte tante... non so quanti scheletri tu abbia nell’armadio, però lo capisci che non c’entra più niente? Che i ragazzi in felpa non hanno la minima idea di chi voi siate e di che abbiate fatto di buono e di cattivo; che “l’ambiente informativo che abbiamo dato ai nostri figli” ha su di loro un sedicesimo dell’influenza che può avere Assassin’s Creed?

Che si va ai riots a Parigi o Londra per l’adrenalina; per provare il proprio coraggio ed emulare i compagni più grandi che esibiscono cicatrici e raccontano di epiche battaglie; per i triti motivi per cui cent’anni fa si partiva volontari e mille fa s’andava alle crociate; e in tutto questo il ruolo tuo, di De Luca e della vostra benedetta generazione non è che uno starnuto nell’eterno russare della Storia?

Quando la smetterai, almeno tu, di crederti così centrale; di sentirti in colpa ogni volta che un coglione che non conosci ribalta un cassonetto, di voler portare il mondo sulle spalle? Non è mai stato sulle vostre spalle. È un'altra cosa che vi raccontavate, per sentirvi grandi.
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Date un quotidiano a Calabresi

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A questo punto potremmo vedere nel vandalismo in felpa nera un fenomeno pandemico, che s’annida in qualsiasi manifestazione, da Baltimora a Milano, indifferentemente dai motivi per cui si convoca, parassitandone la visibilità. Potremmo anche pensare che questa è la prima occasione che ha la polizia, dopo la sentenza di Strasburgo, di farsi un po’ desiderare: basta lasciar campo libero ai vandali (in fondo la stessa tecnica del G8), e in pochi minuti le nostre bacheche si riempiono di invocazioni agli uomini in uniforme. Potremmo pensare tutto ciò: e Mario Calabresi ci darebbe torto. Lui sa perché oggi davano fuoco ad auto e vetrine. È successo perché nessuno ha mai parlato delle devastazioni al g8.

Chiaro, no?
Qualcuno potrebbe trovare la cosa opinabile: a me per esempio sembra di ricordare che se ne parlò parecchio. Questa per dire era la prima di un quotidiano di Torino che Calabresi forse conosce, il 22 luglio: nota bene che la sera prima la polizia aveva devastato le Diaz, in un orario in cui le redazioni non erano ancora chiuse. Non c’era la Diaz in prima.


E il giorno dopo?



Uno potrebbe far notare che non solo di vandalismi si è parlato, ma che ci sono stati processi e sentenze (un secolo di galera diviso tra 10 condannati in appello). Ma si tratta di obiezioni speciose. Forse Calabresi ha ragione: se dai più visibilità ai vandali, loro magari smettono. Se solo Calabresi potesse farci qualcosa, se solo qualcuno gli desse la possibilità dirigere un quotidiano.
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L'America di Renzi (non esiste)

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Come Veltroni, Renzi sogna l’America (“Il mio sogno è che in Italia si sfidino due partiti sul modello americano, Democratici e Repubblicani”). Mentre abolisce il bicameralismo perfetto, una delle poche caratteristiche che avevamo in comune con gli USA; mentre fa ingoiare al parlamento un premio di maggioranza al 55% che laggiù, ovviamente, non esiste. Quelli d’altro canto sono presidenzialisti seri, non se ne vergognano; inoltre hanno questa idea curiosa del bilanciamento dei poteri, per cui capita spesso (e anche in questo momento) che la maggioranza il presidente non ce l’abbia affatto, e debba coabitare con un congresso che non va d’accordo con lui. C’è che mentre i nostri statisti sognano l’America, gli americani studiavano Montesquieu.

Renzi auspica l’alternanza di due grandi partiti - e nel frattempo abbatte la soglia al 3%, il che gli consentirà di occupare saldamente il centro dell’offerta politica mentre gli avversari si frammentano in liste e listine in lotta tra loro per la visibilità. Renzi sogna l’America, ma è appunto un’America filtrata dal sogno: una libera prateria dove nessuno potrà dire allo sceriffo cosa deve o non deve fare. La sera delle elezioni tutti scoprono il nome del presidente e il dibattito in sostanza finisce lì: il parlamento garantirà diritto di tribuna a bastian contrari impotenti che troveranno nuovi modi di rendersi ridicoli in favore delle telecamere. Renzi vuol fare l’americano, ma risulta, ineluttabilmente, nato in Italy.
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Non potresti picchiarci più piano, Matteo Renzi?

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Non solo Renzi non è Mussolini, ma si fatica a immaginare tra i suoi oppositori un Matteotti, un Gramsci. In particolare tra gli interni al Pd, che dopo aver adombrato derive totalitarie si sono accontentati di uscir dall’aula: dietro magari c’è un raffinato ragionamento tattico precongressuale che appassionerà gli addetti. Da qui Bersani e soci sono solo sembrati patetici; spiace a me per primo.

Si poteva far di peggio? 50 deputati della minoranza hanno votato sì, ma cogliendo un’occasione per un rimbrotto a Renzi: chissà quanto c’è rimasto male. Non è questo “il modo di relazionarci”, ha spiegato Mauri; è stato “un grave errore aver continuamente esasperato i toni”! Lo ha detto accingendosi a ingoiare l’Italicum. “Così si è solo dimostrato una volta in più che le prove muscolari non portano lontano”. Senza dubbio Renzi non li mostrerà più i muscoli, ora che ha visto con quanta velocità vi inginocchiate.

Non è Mussolini, no, e a voi non sarebbe riuscito nemmeno un Aventino. Piagnucolare che non si fa così, non si esasperano i toni, mentre ci si prostra a terra con tanto senso di responsabilità e la speranza che si ricordino di voi stilando i prossimi listini elettorali. Non si capisce però perché in quell’occasione Renzi dovrebbe preferirvi a qualche ragazzo/a di bell’aspetto, in grado di pigiare gli stessi pulsanti con meno melodramma e più fotogenico entusiasmo. Sul serio, credete di essere più utili alla democrazia? Ieri non s’è visto; oggi è tardi.
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E fascista qua e fascista là

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Questa cosa dei paragoni col fascismo magari ci sta un po’ sfuggendo di mano, come accade spesso verso la fine di aprile. Renzi è uno sbruffone, ma non è Mussolini. Vuole comandare per 5 anni senza darsi pena di ottenere la maggioranza dei suffragi, ma l’Italicum non è la legge Acerbo...

…E stavo quasi per buttar giù 1500 caratteri sul tema, quando ho sentito il ministro dell’istruzione definire “squadristi” gli insegnanti che, non apprezzando una riforma pasticciata che trasferisce tutti i poteri delle scuole a una specie di preside-prefetto, osavano contestare il suo comizio. La Giannini, che ha idee vaghe su chi siano questi dirigenti scolastici che tra pochi mesi dovrebbero governare la scuola, forse è parimenti inconsapevole del fatto che gli squadristi, di solito, non interrompevano i discorsi dei ministri, ma le manifestazioni dei lavoratori: e non facendo un po’ di chiasso, ma con bastoni e armi da fuoco.


Conviene rassegnarsi: dal ‘45 in poi l’accusa di fascismo è un’iperbole a cui attingiamo tutti troppo spesso, per comodità e scarsa fantasia. In fondo è meglio così che se ce lo fossimo dimenticato. Invece, a furia di lanciarcelo addosso, siamo costretti a ripassarlo. Ne possiamo ottenere addirittura parametri oggettivi: ad esempio, Mussolini pretese un premio di maggioranza al 25%, Renzi si accontenta del 40. Non solo possiamo dire che non è fascista, ma abbiamo anche una cifra precisa: non lo è per un 15%. È tanto, è poco? Io non mi accontenterei.
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Come odiavamo (lettera dal 2009)

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Quando ho letto della nuova tirata di Aldo Grasso sul "popolo del web" ho avuto, ovviamente, un déja vu. Ero sicuro di avere già scritto da qualche parte la risposta - del resto al Corriere scrivono le stesse cose da vent'anni - ma dove? Ci ho messo un po' a recuperarla: era il primo pezzo che scrissi sull'Unità.it, nel lontanissimo 2009: e già allora la discussione sembrava vecchia. Non rispondevo a Grasso ma a Stella che scriveva esattamente le stesse cose; è come se si passassero i canovacci. Io invece credo di essere cambiato un po'. Era l'unico pezzo che non avevo ripubblicato qua sopra, lo faccio adesso per scongiurare l'orribile eventualità che vada perso (il server dell'Unità potrebbe azzerarsi da un momento all'altro). È anche una manovra per placare l'ansia dei nostalgici dei pezzi lunghi - se provate a leggere questo magari un po' vi passa, la nostalgia.

Stella che brilli lassù


Ho una teoria. Quando a un giornalista capita di scrivere il solito pezzo demonizza-internet (un genere relativamente giovane, ma già irrigidito nella statuaria dei luoghi comuni senza età, come gli elzeviri sulle mezze stagioni o sugli esodi d'agosto) la prima reazione di chi su internet ci scrive davvero, e magari da anni si sbatte per difendere e diffondere contenuti di qualità, è più o meno: Nonno Non Hai Capito Niente. Probabilmente parli per sentito dire e non sai distinguere un profilo facebook da un blog, avrai una connessione modem a 56k con il fischiettino (vi ricordate il fischiettino?) oppure la stagista schiavetta che ti scansiona i comunicati battuti in Olivetti Lettera22.

Tante volte devo aver reagito così anch'io, qualche anno fa, ma appunto: era qualche anno fa. Adesso siamo nel 2009 e davvero anche il nonno ha capito come si accende il computer. Parlare di Internet per sentito dire non solo non è più ammissibile, ma è davvero impossibile. Eppure le cose che ha scritto Gian Antonio Stella sono un po' le solite: “zona franca dove divampa una guerra che quotidianamente si fa più aspra, volgare, violenta” (Montecitorio? No, Internet) “individui e gruppi che, pur nella diversità di accenti e idiomi utilizzati, parlano tutti [...] il linguaggio della violenza, della sopraffazione, dell’annientamento” (Curva di stadio? Set del Grande Fratello? Nooo, Internet). A gente come me, come probabilmente anche voi, che frequenta internet ogni giorno e ci trova lampi d'intelligenza, di fantasia e di creatività che nessun altro media gli offre, può sembrare strano e triste che Gian Antonio Stella si trovi in casa la stessa finestra sul mondo e non ci trovi nient'altro che volgarità, violenza, odio, anzi, “libertà di odio”. Eppure è così: come si spiega?

Io una teoria ce l'ho, dicevo: dipende tutto da dove è piazzata la finestra. Gian Antonio Stella guarda internet come tutti noi, ma da una posizione infelice: quella di giornalista. Rifletteteci bene. Voi praticoni di internet avete i vostri riferimenti, i vostri feed, le persone simpatiche ed esperte di questo o quel settore che avete selezionato in anni di frequentazioni, ed è questo a rendere la vostra finestra così colorata e interessante. Stella ha avuto meno tempo di voi, e i frequentatori di internet forse li conosce soprattutto sotto forma di commentatori medi del sito del Corriere. Ma i commentatori medi al Corriere (o alla Repubblica), beh... è il caso di dire no comment. Davvero, cosa pensereste di Internet e di chi lo frequenta, se le uniche prove della loro esistenza fossero le tracce di bava che lasciano sui siti dei grandi quotidiani, e su qualche gruppo di facebook?

Internet è piena di melma, inutile negarlo (nessuno infatti ci ha provato). Però in mezzo alla melma ci sono cose straordinarie che valgono tutta la bolletta, e persone che sostengono, come me, che è inutile criticare la melma: l'unico sistema per migliorare la qualità è creare piccole oasi di cose intelligenti e interessanti, in zone non troppo remote da quelle dove passa il grande traffico. I blog che leggo quotidianamente sono una realizzazione imperfetta di questa idea di oasi: mi riassumo i fatti importanti del giorno in modo esauriente e divertente, mi raccontano notizie singolari e importanti che da solo non avrei trovato mai, a volte mi fanno arrabbiare, ma sempre per un'idea diversa dalla mia, non per uno schizzo d'odio. Però ci ho messo anni a selezionarli, e ho dovuto vincere il fascino per la melma, per i deliri dei dementi, che soprattutto all'inizio mi soggiogavano e mi facevano perdere tempo prezioso (tuttora, a portata di clic, c'è la perdizione). Insomma, ci ho messo anni per rendere davvero efficiente e interessante quella che una volta si chiamava “navigazione” su Internet. E questo smentisce il luogo comune che Internet sia facile come schiacciare un bottone: no, se schiacci un bottone per prima cosa escono quintali di melma che ti schizza dappertutto. Il setaccio di contenuti interessanti è una pratica difficile che si acquisisce con gli anni, è più complesso che imparare a guidare. Basta vedere cosa combinano gli adolescenti in rete: in teoria dovrebbero capire tutto alla svelta, in pratica finiscono subito impantanati in luoghi assurdi, e ci impiegano anni a trovarsi una posizione rispettabile, a costruirsi un profilo decente.

Con gli anni s'impara a tenersi lontani da certi luoghi come i commenti su youtube, i gruppi su Facebook... o i commenti di Repubblica.it, o del Corriere. Ma non è paradossale che la melma su Internet tenda ad addensarsi proprio intorno a siti informativi professionali? Immaginatevi il Corriere on line come un grattacielo in mezzo a una discarica: ecco, Gian Antonio Stella vede gli internauti da una finestra di quel grattacielo, e cosa volete che veda? Mostri subumani che inneggiano al ferimento di premier mediante souvenir, negatori di olocausti, odiatori di “negri”, insomma, brutta gente. Come spiegargli che quelli non sono tutti gli internauti... ma solo quelli che più spesso circolano intorno al Corriere? E perché proprio intorno al tuo giornale, è colpa della linea editoriale? No, assolutamente. È solo una questione di dimensioni: il grattacielo è un punto di riferimento nazionale, attira la massa, e in mezzo alla massa la suburra, i cospiratori, i mitomani.

Per contro in un piccolo sito come il mio, mantenere un discreto livello di discussione è relativamente semplice. Molto di rado negli ultimi anni mi è capitato di dover mettere i mattoidi alla porta. Merito mio? No, assolutamente, anche in questo caso è una questione di dimensioni. I mattoidi accorrono naturalmente verso i centri di traffico, sono attirati dalle celebrità. Non sono massa, ma si disseminano sempre nella massa. Nei piccoli blog che negli anni abbiamo selezionato con cura, i mattoidi non vengono: al limite passano di sbaglio se gli capita di scambiarci per qualcuno più importante di noi. Ma appena hanno capito che noi siamo pesci piccoli, ci lasciano nella nostra nicchia e se ne tornano in piazza a vandalizzare gli editoriali delle Grandi Firme coi loro commenti.

Così senza volere siamo riusciti a parlare del povero Tartaglia, che nemmeno aveva un profilo Facebook. Peccato, ci si sarebbe trovato bene. E forse iscrivendosi a qualche gruppo idiota gli sarebbe passata la voglia di realizzare le sue idiozie nel mondo vero. Perché Internet è anche questo: una valvola di sfogo per colletti bianchi che giocano a fare gli odiatori di negri, i negatori di olocausti, gli inneggiatori a Tartaglia. Sì, non è molto coraggioso da parte loro. Ma ognuno dovrebbe essere libero di gestirsi la sua melma come vuole, finché non schizza gli altri.
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Mussolini era una zecca

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Al ragazzino che oggi prova a rimpiangerlo direi: ma lo sai chi era davvero Benito Mussolini, morto oggi 70 anni fa?

Perché se hai fatto i compiti a questo punto dovresti saperlo. Una zecca. Nei vari e non simpatici sensi del termine. Socialista, per esempio; e figlio di socialisti. Porta il nome di un rivoluzionario messicano. Da giovane scappò in Svizzera per non fare il militare. Ateo e mangiapreti, e quando in Libia c’era da difendere il sacro nome della patria, lui andò a mettersi sui binari per non far passare i treni.

Poi, certo, ha cambiato idee. Quando scoppiò la Grande Guerra cominciò a parlare di Patria e Valori. Ma prendeva ancora i soldi dai socialisti francesi, che speravano di portare dalla loro gli italiani. Poi dagli industriali che annusavano l’affare. Cominciava a metter pancia. Succhiando un po’ qui, un po’ là, mandando avanti bravi reduci e ragazzini in camicia nera, eccolo a Roma. Da lì in poi, naturalmente, tutto Dio Patria e Famiglia: anche nel senso che succhiò da tutte e tre. Il primo s’accontentò di un quartierino sul Tevere, la seconda tra Etiopia e leggi razziali si ritrovò il nome infangato per sempre. Alla terza prese pure le fedi nuziali.

Non ci credi? Giusto. Non fidarti di nessuno: studia. A De Felice puoi dar retta? Rimpiangilo pure se vuoi, ma ricordati da dove veniva. Era un maestro di scuola, pensa: e socialista. Vi ha succhiato per vent’anni e vi ha lasciato gusci vuoti. Dimmi che lo rivorresti indietro, dimmi che ne vorresti un altro.
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