Proemio

Permalink
Era Carola una giovane di nobili natali a cui la Natura, così parca abitualmente, così prudente nel dispensare i suoi doni ai mortali, aveva viceversa profuso un'avvenenza e un fascino senza pari: e tutto questo senza volerla sprovvista di un'intelligenza acutissima e viva, e di quel buon senso senza il quale tutte le altre doti e talenti non sono che spinte scomposte in ogni direzione, che tirandoci di qua e di là non ci portano veramente in nessun luogo, incatenandoci viceversa ai nostri fallimenti, quando non sono talmente violente da dilaniarci. Non così per Carola, la quale, al culmine di una carriera ricca di soddisfazioni professionali, dopo essere stata lungamente corteggiata da uomini d'arte e di potere, aveva preso in isposo il Presidente di un reame ricco e potente, il cui popolo l'amava e invidiava con alternante intensità.

Un giorno, mentre nel Palazzo presidenziale ella disbrigava gli affari correnti, gettando uno sguardo distratto a una finestra invasa da un cielo insolitamente sereno, Carola si sentì pungere dal cocente desiderio di rivedere la sorella maggiore, con cui madre Natura non era stata meno generosa, e che aveva sposato l'anziano Presidente del reame confinante. Senza indugio ordinò che fossero preparati i bagagli, e si avvertisse l'augusto marito che sarebbe stata assente tutta la settimana. Ma poi, quando già il convoglio presidenziale era a un buon punto sulla strada dell'aeroporto, si accorse di aver dimenticato una spilla che Verola, la sorella maggiore, le aveva regalato in occasione del suo matrimonio, e che nel trasporto degli addii aveva giurato di portare sempre con sé (ma poi aveva chiuso nel penultimo cassetto a partire dal basso del terzo comò della seconda cabina armadio). Ordinato dunque agli autisti e alla scorta un repentino dietrofront, Carola giunse al palazzo presidenziale ben oltre l'ora del tramonto: credette tuttavia che introducendosi con discrezione nei suoi appartamenti non avrebbe disturbato il diletto marito, il quale era solito lavorare fino a tardi ai suoi decreti nella sala del consiglio. Quale fu dunque lo stupore della povera Carola, quando, penetrata nell'alcova presidenziale, vi trovò il coniuge abbrancato a una robusta domestica circassa?

(Questo pezzo era l'inizio originale delle 1+2+3+4+5+6 notti, che si è qualificato agli ottavi della Grande Gara degli Spunti. Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

Sconvolta da ciò a cui il suo cuore non voleva credere, e di cui pure i suoi occhi non potevano negarle la visione, nulla seppe fare nell'orgasmo del momento, fuorché chiudere la porta sulla scena penosa e grottesca insieme, ripartendo nottetempo senza far parola con nessuno di quanto visto e sentito, e senza aver recuperato la spilla fatale. L'episodio non cessò tuttavia di tormentarla per tutta la durata del viaggio. “Non è tanto il tradimento” (pensava, dibattendosi sulla poltroncina di prima classe) “in somma, siamo uomini e donne di mondo, ma proprio sul nostro talamo nuziale? E il mio aereo non era nemmeno partito! Che razza di uomo è mio marito? Vi è mai stato qualcuno al mondo meno provvisto di rispetto per sé stesso, per la carica che ricopre, e per me? E vi è mai stata al mondo moglie di presidente più vilipesa?”

Di un simile tenore erano ancora i suoi pensieri quando finalmente fu ricevuta da Verola, la quale, pur nell'allegrezza per l'incontro lungamente agognato, non impiegò molto tempo ad accorgersi che un'ombra ostinata di malinconia raffreddava l'umore della sorella adorata. Ma per quanto ripetutamente le chiedesse il motivo di questa tristezza, non ebbe da Carola che vaghe risposte sull'insostenibile vanità degli uomini e blablà. “Non vuoi veramente saperlo, sorella: contentati di riconoscere in me la più triste e insultata delle donne”. Andarono avanti così per due o tre giorni, dopodiché Verola, molto presa dalla sua agenda istituzionale, dovette recarsi da qualche parte a tagliare un nastro o consegnare un premio. “Sorella diletta”, le disse allora, “nel tempo che hai trascorso qui tra noi non hai ancora visitato i giardini presidenziali, luogo di delizie se mai ve ne fu uno in questo Reame. Ora che debbo assentarmi per qualche giorno, te li raccomando fortemente: chi sa che una breve passeggiata nell'ora del crepuscolo, quando spira una lieve tramontana e il sole all'orizzonte incendia le nubi più basse e lontane, non possa in qualche modo lenire le tue pene segrete”. “Ci credo poco, mia cara sorella; comunque grazie”, le rispose Carola, e proseguì a soffiarsi il naso. L'indomani, tuttavia, ella si recò davvero nei giardini, dove ebbe modo di verificare che né gli esemplari botanici unici al mondo, né i cespugli dalle forme bizzarre e favolose, né i leggiadri getti d'acqua avevano il potere di rimettere in sincrono il suo cuore intermittente.

Immersa in pensieri di disprezzo e vaghi propositi di vendetta, Carola non aveva prestato attenzione al trascorrere del tempo: grande fu perciò il suo stupore quando – il sole stava per calare – vide entrare dal lato opposto del giardino una trentina e più di servitori provvisti di torce, al centro dei quali distinse una sagoma tracagnotta nella quale riconobbe immediatamente il Presidente marito di sua sorella, che pure sapeva in missione all'estero. Incuriosita dalla situazione, ma tutt'altro che ansiosa di farsi riconoscere dall'ospite di cui non apprezzava i modi un po' villani, né l'umorismo greve, si nascose dietro un cespuglio, verso il quale tuttavia il gruppetto convergeva: sicché la prudente Carola poté osservare la scena che qui sotto racconto quasi come se vi partecipasse.

Man mano che vedeva i servitori avanzare ignari verso di lei, scopriva che si trattava piuttosto di servitrici: alcune nella livrea della Presidenza, altre fasciate da un'uniforme di crocerossina che appariva tuttavia troppo stretta per risultare pratica; altre le si sarebbe dette, dalla divisa ugualmente discinta, agenti delle forze della pubblica sicurezza o delle forze armate; altre ancora, e non erano le più coperte, vestivano in borghese, e dall'acconciatura o dalla montatura degli occhiali si sarebbero dette istitutrici, se il trucco pesante e le movenze non avessero smentito questa prima impressione nel modo più spettacolare. Tutte quante apparivano poi troppo giovani per le professioni che i loro costumi denunciavano, e per qualsiasi altra professione che non fosse illegale ed esecranda; e tuttavia Carola, da donna di mondo quale in effetti era, non poteva negare una certa dose di professionalità ai loro movimenti (che del resto non rimasero impediti dai vestiti per molto tempo ancora). In mezzo a loro, rosso e tronfio, troneggiava il Presidente marito di Verola, come un fiore che non smettesse di attirare a sé farfalle e api danzanti e frementi; anche se Carola trovava più congruo pensare a una piccola pallina di sterco di cervo o cinghiale, rinvenuta in mezzo al bosco durante una battuta di caccia e sfiorata e baciata da cento moscerini e parassiti.

Capita a volte anche al più giudizioso degli automobilisti di non riuscire a distogliere lo sguardo da un catastrofico incidente avvenuto nella corsia contigua: vuoi per quella morbosa curiosità che ci suscitano gli orrori, vuoi per la torva soddisfazione di non farne parte. Similmente, per quanto trovasse ripugnante e osceno lo spettacolo che si dipanava dinanzi a lei, Carola non trovava modo di saziarsene gli occhi. Ad animarla non era certo un lubrico interesse per gli amplessi, il cui ritmo artificialmente sostenuto conosceva fin troppo bene, quanto un senso di distacco, che man mano che la serata andava avanti si impadroniva sempre più del suo cuore. “Ecco dunque”, si diceva, “un uomo che un tempo fu ambizioso e capace di ogni impresa, e oggi è potente e anziano, ricco di ogni cosa al mondo fuorché di giorni da vivere; che realmente potrebbe realizzare ogni suo residuo desiderio: e quello che desidera a quanto pare è essere lo zimbello di giovinette fatue e inconsistenti, parassiti persino troppo piccine per succhiare realmente, intendo per saper trovare la vena giusta. Cosa può trovarvi in loro, di paragonabile ai trionfi dei suoi giorni più verdi? E che fine ha fatto la sua esperienza del mondo, che lo soccorse in cento e più battaglie e rovesci di fortuna, e ora lo abbandona ai capricci di una scolaresca ginnasiale? Come può non rendersi conto che fingendo un vigore impossibile non si prende gioco del Tempo, ma si rende suo zimbello? Ma è dunque questo il destino dei più dotati fra gli uomini: lottare per tutta la vita per traguardi sempre più ambiziosi, per poi cedere alla più banale e bestiale delle pulsioni?”, e altre simili filosofiche riflessioni con le quali forse Carola nascondeva a sé stessa la ragione più segreta del suo cambio d'umore: la sorella Verola era da compatire quanto e più di lei, e il pensiero, anziché colmarla della necessaria compassione, la consolava: la catastrofe che si annunciava era avvenuta nella corsia opposta alla sua, e un così esibito disprezzo della fedeltà coniugale da parte del cognato non poteva che derubricare il fugace amplesso del marito a banale scappatella, comprensibile, perdonabile e anzi già perdonata, prima che la luce dell'alba venisse a rischiarare la comitiva esausta, che col favore delle tenebre Carola aveva già abbandonato...

Non è che debba andare avanti così per tutto il tempo, ma se questo è lo spunto che più ti interpella, non avere remore a mettere Mi piace su facebook, o a esprimerti con eloquenza nei commenti. Grazie per l'attenzione così strenuamente mantenuta a dispetto delle avversità, e arrivederci ai quarti di finale.
Comments (8)

Anno 800 ab exitu de Aegypto

Permalink
Gli avevano spiegato tante cose. Che si sarebbe svegliato ogni settimana in un secolo diverso; che si sarebbe sentito unico e solo, e non avrebbe potuto fidarsi di nessuno; che volti e voci sarebbero cambiati a ogni risveglio; non avrebbe potuto affezionarsi, né deviare da quell'Obiettivo che non avrebbe comunque mai raggiunto; che molto presto avrebbe dubitato di tutto, e si sarebbe sentito semplicemente perso, un atomo alla deriva nel vuoto cosmico; e forse un po' più tardi si sarebbe affezionato al suo destino di profeta nel deserto. E che di sette giorni di veglia, due li avrebbe passati a inveire contro il mal di testa.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti (è uno sviluppo di Copernico). Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

Ma non gli avevano detto quanto sarebbe stato difficile rimettersi a respirare. La prima mezz'ora i bronchi sembravano prendergli fuoco in petto, mentre Salem boccheggiava e si convinceva, ogni volta, che sarebbe morto asfissiato. La bella abitudine di riceverlo con un respiratore si era interrotta 500 anni prima - quando la scarsità di ossigeno sulla Stazione l'avrebbe resa un lusso sibaritico. Quella bella bombola in acciaio, qualcuno doveva averla venduta al mercato nero e Salem non ne aveva più viste - qualcuna dovevano pure tenerla per gli interventi esterni di manutenzione - penseranno che se fin qui sono sopravvissuto, ce la posso fare anche stavolta.

I Risveglianti stavolta non avevano nulla per aiutarlo. Salem tendeva a dare una certa importanza alla prima impressione che ne riceveva, quando gli occhi cominciavano ad abituarsi alla luce, e in questo caso l'impressione fu pessima. Non solo non avevano nessuno strumento per aiutarlo, ma si stringevano a lui invece di lasciargli un po' di spazio. Sicuramente non facevano parte di un team medico. Prima brutta notizia. In compenso erano giovani. Questa era una notizia né buona né cattiva - di solito i regimi castali selezionavano Risveglianti anziani, quindi le caste forse erano state superate. Il che era un problema, in teoria - ma in pratica Salem ne era contento, non ne poteva più di vecchie barbe sagge convinte di saperne più di lui. In certi casi i giovani si erano rivelati più malleabili.

Questi però oltre che giovani erano anche incapaci - era evidente che non erano equipaggiati per un Risveglio. L'accappatoio era tarmato. Non avevano respiratore, nessun tipo di medicina, per quel che gli riusciva di vedere non c'erano nemmeno generi di conforto, una caraffa di tè, qualcosa. Il minimo richiesto per un ospite importante che si attende da un secolo. Salem cacciò un urlo. Serviva a schiarire le corde vocali, ma anche ad allontanare gli imbecilli, che in effetti fecero un passo indietro, spaventati. L'aria cominciava ad arrivare. A tastoni, Salem procedette fino al trono. Sedersi non lo avrebbe aiutato a inspirare, ma sentiva la necessità di stabilire le distanze. In fondo quella era la sua stanza, il posto in cui più si sentiva a casa. Lui era il Testimone della stazione, riaffiorato dal coma criogenico dopo un altro secolo. E loro chi cazzo erano?

Il più alto stava dicendo qualcosa - Salem non capiva una parola. Rimase affascinato dal grosso ninnolo di ferro che gli ostruiva parte di una narice. Che moda curiosa. Indica quanto meno che i metalli non scarseggiano. Buono a sapersi. Oppure il contrario, è un gioiello prezioso proprio a causa della scarsità, e indica l'alto lignaggio di chi lo porta - una specie di capo. Ecco perché mi parla anche se sa che non posso capirlo. Deve mostrare chi comanda?

Salem non aveva mai avuto molto tempo per ascoltare i dialetti sviluppati a ogni livello della Stazione, ma orecchio sentiva di trovarsi davanti a qualcosa di nuovo. Quel tizio non aveva certo l'accento dei Meccanici, ma neanche quello degli Intoccabili. Cosa poteva essere successo - avevano trovato una lingua strana nell'archivio e avevano deciso di impararla tutti, perché? Un modo per segnare una frattura col passato, oppure per riallacciarsi a un passato ancora più... cristo santo, sta parlando in ebraico?

Improvvisamente sentì una voce di ragazza comporre frasi in un inglese stentato. Era l'interprete.
"Dottor Salem, lei è sotto la custodia dell'Agenzia di Sicurezza dello Stato Libero delle Pleiadi".

Uno Stato. Curioso. Avevano recuperato la nozione di Stato. Nessuno ci aveva ancora pensato. Salem era passato nelle mani di Governi, Comitati, Assemblee, ma uno Stato era qualcosa di nuovo. Per quale motivo avrebbero dovuto fondarne uno, se non per...

"Lei è accusato di... di complicità in... un massacro; l'Agenzia ha intenzione di processarla davanti al Popolo. Trecento anni fa, come sa, la Stazione si divise in due fazioni, e una sterminò l'altra utilizzando l'agente x. Questo avvenne pochi giorni dopo il suo ritorno al sonno".

Non mi stanno chiedendo nulla. Dicono tutto loro. Pessimo segno.

"Riteniamo di avere le prove necessarie a dimostrare che fu lei a svelare ai membri di una delle due fazioni la formula dell'agente x".

Salem non aveva mai sentito parlare di "agente x" - non era il modo in cui l'aveva chiamato tre risvegli prima. Tutto il resto lo ricordava bene. Quel che era straordinario, è che se ne ricordassero loro. Si era già svegliato altre due volte senza che nessun abitante della Stazione gliene parlasse, non la minima allusione - ne aveva concluso che l'episodio era stato eliminato dai resoconti ufficiali. E invece in qualche modo il ricordo era sopravvissuto, probabilmente ai livelli più bassi, una leggenda che ingigantiva col tempo; poi c'era stata una rivoluzione e adesso qualcuno pretendeva di mostrargli il conto. Brutta storia.

"Posso... posso dire qualcosa?" Salem si era rivolto all'interprete. Il tizio col gioiello alla narice non apprezzò. Disse qualcosa di probabilmente ingiurioso che non fu tradotta.

"Dottore, non è questo il momento per invocare le sue... le sue obiezioni".

"Intendete processarmi per una cosa successa trecento anni fa?"

Parlò un altro uomo, in un inglese un po' più confortevole. Vestiva una tuta un po' più lunga degli altri che poteva essere un camice.

"Per noi sono passati trecento anni, per lei pochi giorni. Se era pericoloso pochi giorni fa, perché non dovrebbe esserlo adesso?"

Salem capiva benissimo il punto di vista. Anche ai suoi tempi, se Hernán Cortés fosse ritornato in vita, l'autorità costituita non avrebbe resistito all'impulso di processarlo. Quale occasione migliore di esibire i propri principi morali. D'altro canto - Salem lo sapeva - dietro a un'esibizione di principi morali c'è sempre qualche brutto segreto da occultare. Coraggio, vediamo il bluff di questi ipocriti. Se solo non dovessi ricordare al mio diaframma di respirare ogni tanto.

"Chi è il capo qui?"

Si guardarono tra loro. Alcuni capivano l'inglese al volo, altri no. Rappresentavano evidentemente gruppi diversi, fazioni concorrenti. Alcuni erano tecnici, altri rappresentanti politici. Alcuni portavano sulla tuta di fibra una giacca blu che avrebbe potuto essere un uniforme. Tutti in generale davano l'idea di essere dei dilettanti allo sbaraglio. Alla fine a parlare fu il solito tizio col monile al naso. Salem aspettò pazientemente la versione dell'interprete.

"Noi siamo i... i facenti parte dell'Agenzia di Sicurezza dello Stato Libero. Non abbiamo capi, noi..."

"Giusto per curiosità, il suo boss sta parlando in ebraico?"

L'interprete represse un sorriso. La domanda era rivolta esclusivamente a lei. Rispose istintivamente, senza consultarsi col superiore.

"Lei è veramente dotato per le lingue, dottor Salem".

"In realtà non sto capendo una parola. Ma c'era un piccolo circolo di cultori dell'ebraico al piano intermedio della Stazione cent'anni fa. Come hanno fatto a diventare egemoni?"

"Non siamo qui per rispondere alle sue domande".

"Vi converrebbe. È una specie di culto? Vi siete immedesimati nel popolo eletto smarrito nel deserto, una cosa del genere?"

"Dottore..."

"Va bene, avete fretta di processarmi. È contemplata la pena di morte? Perché a parte la vita, non ho molto da perdere, come sapete. O volete semplicemente sapere come si distilla il cosiddetto agente x? Il fatto che vi identifichiate come uno Stato mi lascia immaginare che ne esistano altri nella Stazione, magari in guerra tra loro. Pensate che il fatto di controllare la Sala al momento del mio risveglio vi dia un vantaggio tattico?"

Mentre l'interprete traduceva, con qualche difficoltà, qualcuno si stava già scambiando occhiate. Bisognava sempre spiazzarli, era l'unico modo di rendersi indispensabile. Si misero a confabulare - alcuni erano visibilmente preoccupati. Salem cominciava a sentire le fitte dell'emicrania. Era stanco. Viveva in quel secolo da pochi minuti e già non ne poteva più. Ebbe il pensiero folle di rientrare nella vasca e rifarsi una pennichella. Ci pensassero loro alle loro beghe. L'ebraico, tu pensa. Magari raccontano ai bambini che sono scappati dal Faraone. La prossima volta cosa? Klingoniano?

"Potrei almeno sapere con chi siete in guerra? Coi livelli più bassi?" La domanda era volutamente provocatoria. Era molto probabile che quei signori venissero dai livelli più bassi.

"Non ci sono più veri e propri livelli, dottore".

"Piani. Classi. Caste. Anelli. Ogni generazione li chiama in un modo diverso. Ma non è che si possano smontare".

"Dottore", parlò di nuovo il tizio in camice. "Può darsi che lei non abbia le... le categorie per capire quel che sta succedendo nella stazione. Quella che lei chiama 'guerra' è una cosa che ci siamo lasciati alle spalle molto tempo fa".

Eccone un altro convinto di aver trovato il sole dell'avvenire, Gesù, che palle. 

"Lo Stato libero delle Pleiadi non è effettivamente l'unica forma di governo autonomo in tutta la Stazione - anche se è l'unico a garantire la libertà ai suoi abitanti".

Parlava lentamente, scegliendo le parole con attenzione. Salem pensò che non si sarebbero mai sbottonati finché erano così tanti. Si controllavano a vicenda. Doveva trovare un modo per farne uscire un po'.

(Se tutto ciò non non ti ha ancora addormentato, non lasciar passare 100 anni prima di votare per Anno 800 ab exitu de Aegypto. Se la gioca contro il Proemio delle 1+2+3+4+5+6+... notti. Puoi farlo mettendo Mi piace su facebook, o esprimendoti nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto).
Comments (46)

Vegan contro Zombi, tu da che parte stai?

Permalink
Appunti per una distopia vegana + zombi (qualcosa che in un qualche modo si è qualificata agli ottavi di finale della Grande Gara degli Spunti).

- Una saga young adult, però brevissima (i tre cd "volumi" sono di 100 pagine o poco più).

- Evangelina si sente diversa, tutti le dicono che è speciale, lei non sa in che senso è speciale, però sicuramente è diversa, insomma, si capisce che non è una ragazza banale come gli altri? Forse è meglio esplicitare che è una ragazza fuori del comune.

- I suoi compagni sono imbecilli a un livello che è impossibile da mantenere in una civiltà. Ad es., se gli dici "fuori del comune", loro pensano "oltre i confini della più piccola unità amministrativa". Cioè non ce la possono fare. Evangelina non è sicuramente come loro. Inoltre di notte sogna di morsicarli.

- Nel primo volume si copiano intere pagine da Twilight cambiando i nomi. Nel secondo volume si copiano pagine intere da 50 sfumature di grigio cambiando i nomi (che dunque risulteranno ugualmente copiate da Twilight). Nel terzo volume si copiano pagine intere dalle 120 giornate di Sodoma, i nomi a quel punto saranno irrilevanti.

- Ma vi faceva così schifo Dama e cavaliere?

- Dare il voto agli scimpanzé non è stato senza conseguenze - si è scoperto che tendono a votare qualsiasi stemma sia in alto a destra, con grande scorno di chi aveva messo la banana nello stemma apposta.

- A un certo punto l'ironia anti-vegan dev'essere di gusto talmente cattivo da suggerire nel lettore che si tratti di bieca propaganda della lobby della carne alla griglia.

Vabbe',

I VOLUME - EVANGELINA È DIVERSA

Evangelina si sente diversa. Non riesce più a mangiare le fave. Le vomita di nascosto. Beve soylent di straforo. Si sente sempre più diversa. Suo padre capisce che Evangelina capisce i discorsi figurati e chiede la sua consulenza per certe antiche pergamene che illustrano la Terra degli Zombi. Tutti i compagni di Evangelina sognano di vincere una vacanza premio per andare nella Terra degli Zombi e sparare in testa a più zombi possibile. Se qualcuno non l'ha ancora capito, le uniche creature a cui si può sparare sono gli zombi, tutti gli altri esservi viventi sono sacri, nutrie comprese. Evangelina si sente diversa. Indovinate chi passa i test a pieni voti e vince il biglietto per la Terra degli Zombi. Tesoro sta' attenta, quelli non hanno rispetto, quelli ti mangiano.

II VOLUME - EVANGELINA È INNAMORATA

Siccome Evangelina sa cose della Terra degli Zombi che non avrebbe dovuto sapere, si avventura là dove non sarebbe stato consentito e viene catturata da questi Zombi che, si scopre, in realtà sono bei ragazzi - al limite un po' sfigurati dalle pallottole esplosive dei vegan che li vengono a braccare. Così spiegano alla sconvolta Evangelina che loro sono gli ultimi rappresentanti di una cultura orgogliosamente onnivora, e pur coltivando i frutti della terra non disdegnano di tirare il collo a un pollo ogni tanto. O sgozzare un maiale. O abbattere un bufalo. Siamo orrendi? Siete peggio voi che fingete di avere tutte le proteine che vi servono e mangiate noi tritati nel soylent. Ecco perché siete così stupidi, siete tutti ammalati di una qualche encefalite - ma d'altro canto la stupidità è molto facile da governare. Tutto questo glielo dice un ragazzo con molto carisma dopo aver legato Evangelina a un gancio da mattatoio. E poi comincia la rieducazione. Tie', assaggia la mortadella. Sei un... chomp... mostro! Senti che profumo l'abbacchio, ecc. ecc. Evangelina si innamora.

III VOLUME - EVANGELINA CAPEGGIA LA RIVOLUZIONE degli zombi contro i vegan, che però finisce malissimo. La fanteria degli scimpanzè infatti ha facile ragione di questi sfigati con gli archi e le frecce. Vengono tutti catturati, torturati e fatti in padella. Ma proprio quando sembra che Evangelina stia per morire malissimo...

Se insisti ad apprezzare questa roba, ebbene, a questo punto sai cosa devi fare: mettere Mi piace su facebook al Telecomando di Yasir, o apprezzarlo nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto.
Comments (22)

Il telecomando di Yasir

Permalink
I primi sospetti Yasir li aveva avuti a fine maggio, quando i compagni di quarta fila avevano cominciato a presentarsi al mattino in classe con una strana espressione svagata e dolce. Per qualche giorno aveva temuto che si fumassero qualcosa; soprattutto che si fumassero qualcosa senza fargliela provare. Ma no: arrivavano alla spicciolata, quasi tutti col fiatone per un autobus perso o una volata in bicicletta: capelli arruffati e occhi semichiusi, non del tutto rassegnati alla luce di un sole già parecchio alto. Alla fine Yasir aveva capito: sognavano il ritorno.
Il primo a confessare era stato Taverniti : la ***** della sorella lo aveva interrotto nel bel mezzo di un ***** di sogno di mare, ma non un mare del ***** qualunque come ne avete anche voi nei vostri buchi *******, no: si trattava di uno specifico litorale calabrese che Taverniti riusciva a sognare meglio che al cinema, con l'odore della brezza e persino il ruvido degli scogli sotto i piedi, ******* di una ****** e ******! Ché se li sentiva ancora sotto le suole!
“Ma se non fate un po' di silenzio laggiù... Taverniti!”
“Sipprof?”
“Taverniti, tu hai un'idea benché minima di ciò di cui stiamo parlando?”
“...”
“E tu invece di che parlavi?”
“Calabria, prof”.
“Calabria, interessante. Capoluogo?”
“...”
“Vedi, Taverniti? Tu riesci a prendere un quattro anche sulle cose che t'interessano”.

Taverniti in realtà non ignorava il nome e l'ubicazione del capoluogo calabro (Catanzaro), ma neppure sotto tortura lo avrebbe riconosciuto, a causa delle fiere origini reggine; in ogni caso il racconto del suo sogno aveva infranto l'omertà. La mattina dopo Qu Ti aveva dettagliato la sua accurata ispezione onirica al Grande Mercato dove lavoravano i nonni, e dove anche lui avrebbe preso servizio per le vacanze: una distesa di bancarelle grandi come una città, con odori e sapori accessibili solo in sogno qui, sull'altra faccia del terra. A questo punto Amir aveva ammesso un volo di ricognizione notturna sull'intera Tunisia. Il solito esagerato, ma Yasir queste cose le capiva.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti (è uno sviluppo di Non si esce vivi dalla scuola media). Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

Anche a lui, qualche anno prima, era capitato di svegliarsi con un indefinibile sapore sotto la lingua. Ma adesso non riusciva a sognare più niente di familiare. Da quando suo fratello, che occupava il letto superiore al suo, aveva cominciato ad agitarsi nel sonno; o forse non era effettivamente sonno, in ogni caso quando finalmente Yasir riusciva ad addormentarsi, cadeva in una tenebra di piombo che al mattino non gli lasciava più nulla.

Ma forse, con un po' d'impegno. Yasir aveva cercato di pensare intensamente al suo Paese, mentre si strofinava sul cuscino; ricordi non gliene mancavano, per esempio; i vecchi amici del cortile, gli occhi neri di Fahmida... a quel punto però il pensiero deviava immediatamente sulla foto ricordo del matrimonio che era arrivata tre mesi prima per posta, e questo non era più un ricordo. Per esempio, il tizio cicciottello in un ridicolo vestito blu che aveva sposato Fahmida nei suoi ricordi non c'era, essendo venuto giù dalla Germania apposta, per ripartire il mese successivo; ed ecco che Yasir si era già messo a riflettere sulla Germania, ottanta milioni di abitanti capitale federale Berlino, e dovrebbe farci più freddo di qui, e chissà se Fahmida le sapeva queste cose sulla Germania prima di trasferircisi? Forse avrei dovuto dirglielo un giorno, mentre giocavano a nasconderci tra gli ulivi: lo sai che la Germania è una fredda repubblica federale con capitale Berlino?

“Piantala di muoverti. Non riesco a prender sonno”.
“Sei tu che ti muovi”.
“Io ho smesso due minuti fa. Adesso sei tu”.

E insomma non era un'ingiustizia, che tutti riuscissero a sognare le vacanze e lui no? Con tutti i suoi sforzi, i sogni non lo portavano più in là del check-in all'aeroporto. A quel punto lo assaliva una tremenda necessità di pisciare, e quindi chiedeva alla madre che lo aspettassero, che ci avrebbe messo un minuto, un minuto appena, ma si sa come vanno a finire queste cose nei sogni. Appiccicato alla tazza del gabinetto c'era un insetto, che per quanto Yasir cercasse di indirizzare il getto non andava via. Quando finalmente usciva dal bagno, la famiglia non c'era più, e l'aereo era in partenza. Yasir si metteva a correre per tutto il lounge, incerto se cercare la famiglia o l'aeroplano, ormai sicuro in cuor suo che avrebbe fatto perdere le vacanze a tutta la famiglia...

“Ma la vuoi piantare! Sono le due! Sei un maiale!”
“Stavo facendo un brutto sogno”.
“Chiamiamoli così”.

Yasir aveva sempre saputo di non poter pretendere chissaché: in famiglia secondogenito, a scuola extracomunitario, un po' disgrafico e allergico al pelo di cane. Non aveva mai preteso di dettar legge a nessuno. Mai aveva trattenuto per sé il telecomando, perché uno solo era il satellite, e scegliere i programmi non spettava certo a lui. Tutto questo era nell'ordine delle cose – ma almeno i sogni erano suoi, non li divideva con nessuno; quindi perché non ne poteva scegliersi almeno quelli? Chi gli aveva nascosto il telecomando, e perché?

“Amir”.
“Dormi”.
“Amir, tu sogni mai di tornare a casa?”
“Sì, certo”.
“E come fai?”
“Come faccio cosa?”
“Come fai a sognare proprio quel sogno?”
“Non so come faccio, mi viene e basta”.
“A me non viene più”.
“E cosa sogni? La biondina della tua classe?”
“No”.
“Meno male, la devo sognare io. Dormi”.

Non importa su cosa lo si interrogasse, Amir era in grado di far entrare le ragazze in qualsiasi risposta. Yasir era spaventato da questo. Pensava: succederà anche a me?

Per ora le uniche donne che riusciva a sognare erano professoresse che lo interrogavano. Spesso era la Zenobia, che nei sogni dava più quattro che dal vero. Con altre le cose andavano meglio. Certe interrogazioni in inglese o in geografia erano anzi prodigiose, Yasir sentiva la lingua sciogliersi e pronunciava lunghi e saggi discorsi con parole che non aveva mai conosciuto, e che purtroppo dimenticava appena sveglio. Ma era bello sentirsi sapiente. A volte le professoresse iniziavano a fargli domande insidiose e personali: dove abiti? Come va con la famiglia? Ti fa sempre impazzire Amir? Ti piace la tua classe? C'è qualcosa che possiamo fare per te? Nel frattempo la classe era scomparsa, restavano solo lui e la prof in un ambiente più raccolto che forse era lo sgabuzzino dei bidelli al primo piano. Yasir non avrebbe saputo spiegare quanto questi sogni lo commuovessero. Poi però arrivava a scuola e rischiava di salutare una prof con troppa familiarità: e questa, ignara di aver assistito a una sua lunga confessione notturna, gli affibbiava note sul registro difficili da contestualizzare.

Per fortuna in famiglia avevano ben altri problemi. L'estate era vicina, sarebbe stata la più calda del secolo, e papà ancora non aveva comprato i biglietti dell'aereo. Non è prudente, diceva, c'è la guerra. La madre friggeva: quale guerra? Non c'è nessuna guerra.

“Non ne parlano, ma c'è”.
“Ci sarà qualche bomba ogni tanto, e allora?”
“Qualche bomba ogni tanto? Ti senti? Dovrei spendere tremila euro di biglietti per portare la mia famiglia in un posto dove tirano qualche bomba ogni tanto?”
Al che la madre ribatteva i tremila euro sarebbero stati a malapena ottocento se papà avesse pensato a prenotarli per tempo, e che erano tutte scuse, la guerra, le bombe: lui non voleva tornare al Paese perché non aveva il coraggio di affrontare la questione dell'eredità, il fratello che aveva approfittato della loro assenza per intestarsi l'intera proprietà, e inoltre -
“Una volta per tutte: mio fratello si può tenere tutte le proprietà che vuole! Di sicuro non faccio un viaggio di trentamila chilometri per reclamare due pollai”.
“Perché sei un debole, aveva ragione tua madre quando mi diceva che... ma si può sapere chi c'è in bagno? Yasir, sei tu?”
“Amir, forse”.
“Amir! Sei dentro da un'ora, stai male?”

Amir passava la notte ad agitarsi sul letto, e il giorno fuori e dentro il bagno, e secondo la mamma il ritorno al Paese gli avrebbe fatto bene. C'entrava forse anche un fidanzamento, ma su questo il padre era categorico: se voleva frequentare una ragazza, che se la cercasse in Italia, avrebbe avuto tutta l'estate.

In quindici anni di permanenza in Italia, Yasir non aveva mai visto suo fratello scambiare due parole con un individuo di sesso femminile, nemmeno una barista o la panettiera: e con tutta la sua più sfrenata fantasia non riusciva a immaginarselo nel ruolo di corteggiatore. Difficilmente l'estate in città avrebbe migliorato le cose. Perciò era normale che sognasse il favoloso oriente, dove le bambine s'innamorano di te a distanza, non devi parlargli, tu un bel giorno arrivi lì e sono già lì sotto il velo, pronte ad amarti per tutta la vita, questa è civiltà.

Poi le togli il velo ed è una chiatta coi baffi, hai presente la moglie di Khan?

Se trovi che questa roba abbia un senso, almeno un po' più senso di una finta saga young adult su una ragazza che incontra uno zombie, non esitare a votare per Il telecomando di YasirPuoi farlo mettendo Mi piace su facebook, o esprimendoti nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto.
Comments (16)

Che sia Fronte o che sia Islam, purché magnam

Permalink
Sprofondato in poltrona, una vaschetta da micro-onde sull'addome, François manovra stancamente il telecomando. Sta aspettando i barbari. Spera che sappiano far da mangiare, almeno loro. 

Io non ho mai galleggiato nello spazio, così l'esperienza più simile a un Ritorno sulla Terra che ho avuto è stata attraversare il tunnel che dalla Francia sbocca nell'autostrada dei fiori. Ci sono passato dozzine di volte, ma almeno quella avevo la radio accesa, che in un varco improvviso cominciò a trasmettere Vasco. Ero in Italia. Un chilometro più indietro, Vasco era un perfetto sconosciuto.

Stiamo a immaginare universi paralleli, e a poche centinaia di chilometri abbiamo questo universo completamente alternativo e incomprensibile che si chiama Francia. Non è straordinario? Pensa al nuovo libro di Houellebecq. Non è incredibile che un'ucronia interessante, appena a venti miglia da Ventimiglia diventi inimmaginabile? La storia di un tizio profumatamente pagato dallo Stato per insegnare cose inutili a gente a cui non interessano. A un certo punto subentra un nuovo governo che guida una rivoluzione culturale tesa a rinnegare un millennio e mezzo di cristianesimo, il cui risultato concreto sulla vita del protagonista è che qualcuno lo paga un po' di più per smettere di insegnare. Poi ci ripensano e lo pagano ancora di più per riprendere. Lui ci pensa un po' e poi accetta. Fine.

(Questi sono appunti su Sottomissione di Houellebecq. Uno degli spunti di oggi è un seguito parodico a un libro che secondo me è, bof, come definirlo senza offendere chi l'ha preso sul serio, uhm, comunque anche questo pezzo partecipa a modo suo alla Grande Gara degli Spunti. Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

Ora io non voglio dire che in Italia non esistano studiosi altrettanto inutili e inutilmente pagati - ma ve lo immaginate un libro che ruoti esclusivamente su uno di loro senza un intento esplicitamente anti-accademico? Un intento che in Houellebecq semplicemente manca. Ovvero, non è che a lui sfugga l'enorme vacuità di tutto il carrozzone accademico, un sontuoso castello gonfiabile che alla fine della fiera serve soltanto per procacciare fanciulle in fiore e tramezzini di qualità ai rinfreschi (nulla che l'Islam non possa allestirci meglio, ci sussurra). Però manca completamente quel disprezzo, quel sentimento anti-intellettuale che in Italia è egemonico da un secolo tondo. H. non dipinge un intellettuale inutile per denunciarne l'inutilità. Lo dipinge perché gli sembra un buon esemplare di francese medio. L'accademia inutile non è un obiettivo polemico in quanto accademia inutile. È solo un correlato oggettivo della Francia intera: per H. è fatta così, un posto dove tutti hanno un sacco di tempo libero e risorse per complicarsi l'esistenza intorno alle semplici esigenze di nutrirsi e fottere.

Una vita fa scrissi una cosa su Le particelle elementari di cui ovviamente mi vergogno, però a quanto pare quel che mi sorprende continua a essere la stessa identica cosa.
...I nostri eroi, invece, hanno tutti il posto fisso. Djerzinski e Desplechin sono ricercatori. Annabelle lascia il suo lavoro alla TF1 per fare la bibliotecaria; Bruno è un insegnante che non può più insegnare, per aver molestato una sua allieva: viene aggregato a una Commissione per il Programma di Francese (“mi giocavo gli orari da insegnante e le ferie scolastiche, ma il salario restava lo stesso”). La sua ex moglie è un’insegnante; la sua amante è un’insegnante: coincidenza sbalorditiva, ma nessuno dei personaggi ci fa caso. Ho la sensazione che non ci abbia fatto troppo caso neanche l’autore. Sembra una cosa normale: se sei insegnante finisci sempre a letto con insegnanti. [...] Djerzinski è in anno sabbatico quasi per tutto il libro (il suo superiore quasi si vergogna di doverlo richiamare). Bruno e Christiane si fanno certificare una malattia fasulla da un medico compiacente per recarsi a Cap D’Agde dove, dice lei “è pieno di infermiere olandesi, di funzionari tedeschi, tutti molto corretti, borghesi, genere paesi nordici o Benelux. Mica male, ammucchiarsi con un paio di poliziotte lussemburghesi, no?” Funzionari ed infermiere, il cuore pulsante e libertino dell’Europa. Niente operai nelle ammucchiate, figurarsi. Ma nemmeno un artigiano. O un imprenditore. Niente. È uno dei romanzi contemporanei più classisti che mi sia capitato di leggere. Anche perché ho il sospetto che sia un classismo involuto: Houellebecq non parla di operai e artigiani perché per lui non sono rappresentativi, come se si trattasse di esigue minoranze in un’umanità di impiegati statali
Stavolta chi abbiamo? Un ottocentista, François - una versione un po' più virile e affermata di Bruno Clément - che discute soltanto con accademici pari di lignaggio e un paio di escort, una delle quali comunque studia alla Sorbona. Siccome non è gente che più di tanto capisca di geopolitica, il narratore gli fa incontrare ogni tanto fortuitamente un analista dei servizi segreti (lo incrocia persino nel cuore della Dordogna, il che renderebbe chiunque paranoico, ma non François).

Questa percezione centralista, napoleonica della società - per cui il cristianesimo può anche tramontare, ma solo in seguito ai risultati di un ballottaggio, e all'Eliseo ci sarà sempre un Président, e sul tuo conto lo stipendio entro il 28 del mese - mi piacerebbe capire quanto sia condivisa dal pubblico francese e quanto non sia idiosincratica di Houellebecq, uno scrittore peraltro convinto di incarnare un qualche atteggiamento anarchico. Mi piacerebbe capire quanta consapevolezza ci sia nella sua decisione di ignorare completamente alcune dimensioni della società, ad esempio l'economia: si sa solo che la Francia è in crisi (non si capisce nemmeno che tipo di crisi), finché il nuovo presidente islamico non ha l'idea di tenere le donne a casa e rilanciare la piccola impresa a conduzione familiare: pochi mesi dopo "la Francia ritrovava un ottimismo che non ricordava dalla fine delle Trente Glorieuses". Per tutto questo servirebbero come minimo misure protezioniste, ma Houellebecq viceversa immagina la Francia al centro di una nuova comunità euro-mediterranea, un nuovo impero romano napoleonico islamico. Ma l'aspetto veramente più paradossale è il modo in cui il libro narra la violenza. Non la narra. Dà per scontato che durante la campagna elettorale ci siano ovunque incidenti e conflitti a fuoco tra islamisti e fascisti, ma che nessuno riesca a farsene un'idea perché la televisione deciderebbe di non mostrarli - la televisione, s'intende, controllata dai socialisti al governo. No, ma sul serio?

"No, so già che sui canali d'informazione non ci sarà niente. Forse sulla CNN, se ha una parabola".
"In questi giorni ho provato: niente sulla CNN e nemmeno su YouTube, ma me l'aspettavo. A volte su RuTube si trova qualcosa, riprese di gente che filma con il cellulare; ma è molto casuale, e comunque non ho trovato niente neanche lì".
"Non capisco perché abbiano deciso il blackout totale; non capisco a cosa miri il governo".
"Questa, secondo me, è l'unica cosa chiara: hanno davvero paura che il Fronte nazionale vinca le elezioni. E qualsiasi immagine di violenze urbane significa voti in più per il Fronte nazionale".

È l'indizio che più di tutti mi fa sospettare che Houellebecq semplicemente si sia ridotto a un anziano misantropo che contempla stancamente il mondo dal journal télévisé di TF1. Nel 2022 in Francia nessuno riuscirebbe a postare il video di un tafferuglio su internet? (Continuerebbe pure, ma non diventerà nulla di narrativo se non voti questo spunto contro Il chiar di luna colpisce ancoraPuoi farlo mettendo Mi piace su facebook, o esprimendoti nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto).
Comments (6)

Il chiar di luna colpisce ancora

Permalink
“Vi saranno inoltre areoplani-fantasmi carichi di bombe e senza piloti, guidati a distanza da un areoplano pastore. Areoplani fantasmi senza piloti che scoppieranno con le loro bombe, diretti anche da terra con una tastiera elettrica. Avremo dei siluranti aerei. Avremo un giorno la guerra elettrica.” L’alcova di acciaio, 1921 (1).
“Professor Modena, voi ritenete che esista un argomento inappellabile contro la possibilità di viaggiare nel tempo, non è vero? ”
Angelo Modena riprese fiato e tornò a fissare il suo interlocutore nella penombra del salotto. Le mani dell’uomo aderivano ai braccioli della poltrona come se ne fossero un’estensione naturale. Sembrava aver preso forma in quella stessa posizione, pochi minuti prima, mentre in cucina il professore preparava un caffè.
Una pioggia opaca sbatteva granuli di piombo sulla parete-finestra, affacciata sulla laguna. La tangenziale di Venezia era da qualche parte oltre lo smog. Più in fondo lampeggiava il faro per i dirigibili in cima all’orribile grattacielo Sant’Elia, appena inaugurato e già annerito da un catrame che sembrava secolare.

(Questo è un racconto di qualche anno fa, ambientato in un passato alternativo non molto diverso da quello di Il chiar di luna non passerà! Tutto questo partecipa ovviamente alla Grande Gara degli Spunti! Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 
“Non sono un’allucinazione, professor Modena. Sono perfettamente reale e potrà toccarmi, se lo desidera. Ma la prego, risponda alla mia domanda. Qual è la miglior prova del fatto che i viaggi nel tempo non siano possibili?”
“Stamattina ho scritto un appunto”.
“Sul vostro diario, certamente, eccolo qui”. L’interlocutore estrasse da una tasca esterna un taccuino ingiallito, oscenamente logoro. “Tre febbraio 1929. Ho ritrovato una vecchia edizione di un grande amore della mia gioventù, La Macchina del Tempo di H.G. Wells. Oggi come ieri mi sbalordisce l’intuizione del tempo come quarta dimensione. L’idea del viaggio nel tempo è una delle più originali mai concepite, anche se purtroppo impraticabile al di fuori della finzione narrativa. D’altro canto è molto semplice dimostrare che l’umanità non potrà mai viaggiare nel tempo…
“Chi vi ha dato il permesso di frugare tra i miei appunti?”
“Il vostro diario è come sempre nel cassetto dello scrittoio. E non ricordo dove voi teniate la chiave. Stavo dicendo: è molto semplice dimostrare che l’umanità non potrà mai viaggiare nel tempo…
“…non abbiamo mai avuto visite dal futuro”.
“Molto brillante, professor Modena. È vero. Se il viaggio nel tempo fosse praticabile, noi riceveremmo senz’altro visite degli uomini dal futuro. Ma questa – se posso farle un’obiezione – non è una vera prova contro il viaggio nel tempo. Al limite è un indizio. E forse non ha valutato altre ipotesi”.
“Quali ipotesi?”
“Viaggiare nel tempo potrebbe essere molto complesso. E pericoloso. I viaggiatori nel tempo potrebbero essere costretti a nascondersi per evitare alterazioni nei rapporti di causalità, mi segue? Essi proverrebbero da un futuro che consegue dal nostro presente, ma palesandosi per viaggiatori nel tempo altererebbero questo stesso presente, generando nuove catene di cause ed effetti che potrebbero mettere a rischio la loro stessa esistenza, non so se riesco a spiegarmi”.
“Potrebbero uccidere un loro antenato”.
“Per esempio”.
“O sé stessi”.
“Non deve veramente preoccuparsi di questo”.
“Si verrebbe a creare una specie di…”
“Noi lo chiamiamo paradosso”.
“Voi del futuro, mi è lecito immaginare”.
“Proprio così, professor Angelo Modena. Il viaggio nel tempo è possibile, voi stesso lo dimostrerete tra sette anni. Ne serviranno altri tre per le verifiche sperimentali, dopodiché…”
“Questo spiega le rughe e la calvizie, professor Angelo Modena. Deve aver lavorato molto nei prossimi dieci anni”.
L’interlocutore sospirò. “Mi dispiace. Mi rendo conto di essere un’immagine perturbante per lei. Ne ho discusso a lungo coi miei collaboratori. Abbiamo vagliato diversi scenari, ma alla fine abbiamo convenuto che nulla sarebbe stato più convincente di vedere una copia invecchiata di sé stesso…”
“Sulla mia poltrona, come il cattivo demone di Stavroghin. Potevo avere un infarto! E voi sareste morto con me”.
“Questo non sarebbe stato possibile. E infatti non è successo, come vede. Abbiamo un cuore di ferro, io e voi. E possiamo concederci un dito di cognac, la bottiglia che nascondete dietro all’attestato della Corporazione Futurista Israelita”.
“Quella ve la ricordate”.
“La memoria funziona in un modo davvero curioso, lo sto sperimentando”.
“Spiegatemi però meglio questo punto”, continuò il Modena meno anziano, mentre strappava l’etichetta fiammante dei futur-monopoli dal tappo del liquore. “Io inventerò la macchina del tempo – a proposito, dov’è?”
“È restata nel mio tempo. Non è un veicolo come quella di Wells – pensate piuttosto a una specie di cannone. E a me come a un proiettile umano”.
“Ma questo significa che…”
“Non posso tornare nel 1949, no. Almeno finché non ne costruiamo un altro”.
“Voi mi avete appena spiegato che il viaggio nel tempo è possibile. E mi avete convinto. Questo avrà senz’altro cambiato il rapporto di causa-effetto che vi ha portato nel 1949 a farvi sparare qui col cannone”.
“Certamente. Il 1949 non è più quello da cui sono partito. La mia sola partenza lo ha già modificato per sempre”.
“Eppure voi continuate a esistere, e a ricordarvi quel 1949, che è giocoforza diverso dal 1949 che io vivrò. Per dire, se io ora prendessi un coltello dalla cucina e mi praticassi un taglio…”
“Non comparirebbe sul mio corpo nessuna cicatrice, no. Non sono più soggetto ai rapporti di causa-effetto che ho contribuito a modificare”.
“Ne è sicuro?”
“Ragionevolmente sicuro. Ci abbiamo messo molto tempo, e abbiamo spedito molti oggetti e cavie nel passato per misurare gli effetti. Vedete, viaggiare nel tempo significa precisamente sottrarsi dai rapporti di causa-effetto. Viaggiando, ho modificato il mio presente dal mio punto di osservazione, restando però uguale a me stesso, e continuando a conservare gli stessi ricordi di un tempo che non esiste, e rughe scavate da esperienze che non esistono più. In effetti non sono io il viaggiatore, io rimango fermo. È il continuum causa-effetto che si modifica intorno a me, riuscite a capirmi?”
“Forse. È curioso che continuiamo a darci del voi”.
“Non riesco a farne a meno”.
“Nemmeno io. Ma dev’essere successo qualcosa di orribile, immagino”.
“Come avete fatto a…”
“Per venirmi a trovare avete distrutto venti anni di esperienze. Voi non lo fareste… io non lo farei mai, a meno che non fossi costretto da ragioni estreme. Ho ragione?”
“Ovviamente”.
“È successo qualcosa a Isacco?”
“Vostro figlio sta benissimo. Nel 1949 che ho lasciato era il vostro collaboratore più prezioso. Nel nuovo 1949 naturalmente le cose potrebbero essere diverse, ma c’è ben altro in gioco”.
“Non riesco a immaginare nulla di più…”
“L’umanità, professore. La stessa vita sulla terra. Nel futuro da cui provengo vi sono state altre due spaventose guerre mondiali, e la quarta è alle porte. Lo stesso progresso tecnico-scientifico che ha reso possibile il mio viaggio, ha trasformato i conflitti in spaventose carneficine. Intere città possono essere distrutte in pochi secondi, grazie a bombe di spaventoso potenziale attivate su razzi comandati a distanza. I gas venefici sono stati sostituiti da agenti batteriologici in grado di contagiare milioni di persone. Gli abitanti autoctoni dell’Africa nera sono stati scientificamente sterminati. Di decine di milioni di cinesi si ignora il destino – non sono mai esistiti. La stessa Europa è una polveriera radioattiva…”
“E tutto questo dipende da me?”
“Tutto questo dipende dalla Guida – lo chiamate ancora così nel 1929, se non sbaglio. Il primo Ardito, l’Audace, Il Volante della Nuova Italia. In seguito rivaluterà l’impero Romano e prenderà il titolo di Duce, ne apprezzerà la sintesi. Ma in sostanza è sempre lui”.
“Filippo Tommaso Marinetti. È ancora al potere?”
“È durato molto più di tanti papi e imperatori del passato che disprezza. Ha saputo sbarazzarsi con destrezza dei rivali più pericolosi. Lo si è già visto, no? Nel modo in cui liquidò i Savoia e riuscì a emarginare D’Annunzio dopo la Corsa su Roma”.
“Sapete, questo mi stupisce molto. Detto tra noi, non l’ho mai ritenuto un uomo particolarmente prudente”.
“Lo so. Ci sbagliavamo sul suo conto. O forse non è la prudenza che mantiene un uomo in una posizione del genere. Da un certo momento in poi, per lui si è trattato di correre o cadere. E ha corso molto. Il suo sogno di svecchiare l’Italia poteva realizzarsi soltanto con una politica aggressiva su tutti i fronti, e così è ridiventato il vecchio guerrafondaio degli anni Dieci – se lo ricorda?”
“A quei tempi era solo un artista. Abbastanza mediocre, a voi posso dirlo”.
“Era già un buon organizzatore, con un gusto spiccato per il paradosso”.
“Sì, ma quando uno va al governo e poi Venezia la asfalta davvero…” (2)
“Nel mio 1949 Porto Marghera è la capitale tecnicoindustriale d’Europa. La messa in vendita dei patrimoni artistici del passato (3) ha fornito la spinta necessaria a un’evoluzione senza precedenti, attirando nei nostri laboratori gli scienziati più visionari e spregiudicati del Vecchio e del Nuovo Mondo. È il secondo Rinascimento italiano, quello tecnico e scientifico. Conoscete Enrico Fermi”.
“Un bravo ragazzo”.
“Tra quattro anni la sua équipe scinderà per la prima volta il nucleo di un atomo di uranio”.
“È a questo che stanno lavorando?”
“Non ancora. La guerra civile in Germania accelererà di molto le cose. Anche Albert Einstein si fermerà da noi per un po’”.
“Quindi ci sarà una guerra civile in Germania”.
“I gotico-nazionalisti prenderanno per qualche mese il controllo della Baviera. A Berlino il cancelliere Gropius accuserà il partito della Tradizione di aver incendiato il Reichstag”.
“Quel tizio non ha l’aria di un assassino”.
“Il potere corrompe, specialmente quando comincia a traballare. Lo aiuteremo noi, e i cubosovietici naturalmente. Lui e Majakovskij si spartiranno anche la Polonia. Noi ci accontenteremo di avere campo libero nei Balcani e in Africa. Vendicheremo Adua con le armi batteriologiche”.
“Adua? Per quale motivo al mondo…”
“L’uranio. È inutile essere la nazione più progredita, se mancano le materie prime. È una bizzarria della storia che Marinetti si adopererà a correggere. La Repubblica Futurista Italiana diventerà l’Impero Futurista Mediterraneo e Africano. E il nostro “duce” perderà completamente la testa. Nel tentativo di giustificare il massacro di intere popolazioni, svilupperà un’ideologia sempre più razzista. Lo scandalo internazionale ci porterà alla seconda guerra mondiale contro gli inglesi e i francesi”.
“Gli ultimi da cui prendere lezioni in fatto di umanità coloniale”.
“L’antico amore di Marinetti per la Francia la salverà dai bombardamenti più atroci. Brazzaville, nel Congo francese, e York, saranno letteralmente spazzate via dalle prime bombe nucleari che verranno messe a punto qui, tra quindici anni, dai migliori alunni di Fermi”.
“Bombe nucleari?”
“L’arma spaventosa che garantirà a noi e ai nostri alleati – razionalisti tedeschi, cubosovietici russi, industrialisti giapponesi – la superiorità militare per quasi un decennio. La Francia capitolerà, Le Corbusier sarà messo a capo di un governo collaborazionista…”
“Mi faccia immaginare, sventrerà i fauburg per costruire grattacieli”.
“Sarà inevitabile. L’Inghilterra negozierà una tregua che metterà tutto il continente africano a nostra disposizione. Credetemi quando vi dico che il ricordo dei vecchi soprusi coloniali sbiadirà di fronte alla crudeltà dei giovani cresciuti alla scuola del futurismo politico italiano. Le popolazioni negroidi verranno usate per testare nuove armi batteriologiche. Giapponesi e cubosovietici faranno la stessa cosa coi cinesi. E nel 1941 l’attacco nipponico a una base americana nel Pacifico darà inizio alla terza guerra mondiale: inglesi e americani contro le tecnocrazie di Europa e Asia”.
“Il capitale contro la tecnologia…”
“Sarà più complicato di così: gli inglesi riusciranno a salvare la loro isola dalle incursioni dei nostri bombardieri, grazie a un’arma segreta difensiva. E a partire dal 1944 anche gli americani avranno sviluppato la bomba atomica. Dopo l’armistizio comincerà una lunga corsa agli armamenti. Già verso il 1950 il potenziale accumulato negli arsenali dei paesi europei e in USA sarà sufficiente a porre fine alla vita sulla Terra”.
“Ed è tutta responsabilità di Marinetti? Mi state dicendo questo?”
“È più complicato, è sempre più complicato di così. Non si tratta di responsabilità, ma di una variabile cruciale di una complessa formula causa-effetto… nel vostro 1929 non esiste nemmeno la matematica necessaria per dimostrarvi quello che vi sto spiegando. Dovete fidarvi di me – è il motivo per cui abbiamo deciso di inviare me stesso, l’unica persona che vi può chiedere un simile atto di fede. Anni di calcoli ed esperimenti ci portano a concludere che sia Marinetti la chiave di volta delle catastrofi scoppiate in Europa a partire dagli anni Trenta del secolo XX. Senza il suo esempio cruciale, nessuna avanguardia artistica si sarebbe tramutata in partito politico. Gropius e Le Corbusier sarebbero rimasti architetti, Majakovskij un poeta inquieto. Dovete credermi quando vi dico che le artecrazie europee si sono rivelate la forma di governo più crudele della storia dell’umanità. Abbiamo formulato ipotesi anche su questo – la componente narcisistica che era fortissima nelle avanguardie storiche, una volta trasferita sul piano politico, ha propiziato massacri di intere popolazioni, di intere classi sociali”.
“E quindi, lasciatemi indovinare, io dovrei cercare di avvicinarmi al Primo Ardito d’Italia e traforargli le cervella con un revolver?”
“Sarebbe inutile. Probabilmente un attentato del genere fallirebbe, oppure lo spazio occupato da Marinetti verrebbe riempito da qualcuno molto simile a lui. In anni di esperimenti abbiamo capito che i rapporti di causa-effetto hanno una certa rigidità. La Storia si può entro certi limiti cambiare, ma non si può prendere di petto. È come cercare di spezzare un diamante con un temperino. Io sono riuscito a prendere forma in questo salotto, oggi pomeriggio, perché le modifiche che il mio lancio ha compiuto sulla Storia sono ancora molto contenute. E un lancio ancora più lungo è tecnicamente impossibile”.
“Quindi non possiamo soffocare il piccolo Marinetti nella sua culla, o impedire ai genitori di conoscersi”.
“Non funzionerebbe, no. Ma ora che sono qui, posso effettuare ulteriori modifiche”.
“Devo nascondervi?”
“Tutt’altro. Deve denunciare subito la mia presenza al ministero dell’innovazione scientifica. Il fatto che io sia qui, e che possa collaborare da subito con voi, ci permetterà di sviluppare la tecnologia dei viaggi del tempo con 10 anni d’anticipo. Fingeremo di lavorare a maggior gloria della Repubblica Futurista. Ma con il prossimo lancio dobbiamo riuscire a raggiungere il 1919”.
“Piazza San Sepolcro? Vuole tirare una bomba a mano sul palco?”
“Voi non sapete quanto mi piacerebbe. Ma no, i calcoli escludono che una mossa del genere sia possibile. Mi toccherà un ruolo più imbarazzante. Dovrò contattare una signorina di 21 anni, Benedetta Cappa. Avrete senz’altro sentito parlare di lei”.
“Una poetessa, mi pare. Una delle innumerevoli amichette del Primo Ardito”.
“È molto di più. Tra qualche anno denuncerà le violenze d’Abissinia e sarà espulsa dal partito futurista. Sarà una della principali organizzatrici dell’opposizione clandestina, e l’ispiratrice e finanziatrice delle nostre ricerche. In effetti il piano che sto eseguendo è in gran parte opera sua. In questa busta, che vedete, c’è una lunga memoria che la signora Cappa del mio 1949 ha scritto alla sé stessa di trent’anni prima. Io dovrò assicurarmi che la legga, e che accetti col suo sacrificio di salvare il mondo dal baratro”.
“Che tipo di sacrificio?”
“Dovrà fidanzarsi e sposare Marinetti”.
“Questo è ridicolo”.
“Purtroppo non posso mostrarvi le equazioni che lo dimostrano…”
“Il Primo Ardito conquistato da una ragazzina? Si ricorda cosa scriveva nei suoi manifesti? Il disprezzo della donna, eccetera? Non si sposerà mai”.
“Non è mai riuscito a trovare quella giusta. Una proiezione della madre, ovviamente. Leggete il polpettone futuristico che scrisse nel ’09, Mafarka, si chiamava. Un libro profetico, anche se di rara goffaggine. Tra qualche anno sarà introvabile. La Cappa è la donna che più si è avvicinata al suo ideale – ma si sono incontrati troppo tardi, quando la discesa nell’agone politico era ormai irrevocabile. Eppure è mancato poco – avevano già avuto un breve incontro nel 1918. La Cappa era una ragazzina, e quel reduce donnaiolo le faceva paura. Dovrò convincerla ad accettare le sue avances”.
“Avete ragione, sarà molto imbarazzante”.
“La memoria della Cappa cinquantenne la ragguaglierà su come soggiogare il suo seduttore. Il momento cruciale è l’autunno del 1919. Non so se ve lo ricordate, ma le prime elezioni a cui partecipò Marinetti furono un fiasco solenne. Fu arrestato la notte stessa per detenzione d’armi da fuoco. Passò una settimana in cella, era deluso e spaventato (4). Credeva che i bolscevichi avrebbero vinto. Quello è il momento in cui la signorina Cappa deve andarlo a visitare (5). C’è una finestra nel continuum causa-effetto che possiamo sfruttare. Cambieremo la Storia con un colpo preciso, come il tagliatore di diamanti che sa dove deve incidere per ottenere una sfaccettatura perfetta. Non siete convinto”.
“No”.
“Nessuno vi conosce quanto me. Siete già un uomo fuori dal tempo – positivista per formazione, e socialista per ideologia. Voi non accordate molta importanza al ruolo dell’individuo nella Storia. Credete che al posto di Marinetti vi sarà qualcuno come lui”.
“Sono in errore?”
“Vi mancano gli elementi per capire il vostro errore. Nel vostro 1929 la Storia è ancora una scienza umana, un’arte più che una scienza vera e propria. Nel mio 1949 è una disciplina scientifica rigorosa quanto la chimica o l’astrofisica. Ci sono eventi irripetibili – noi le chiamiamo “singolarità”. Uno di questi è l’avvento al potere di un artista d’avanguardia, Filippo Tommaso Marinetti. Un evento fortuito, verificatosi per un esilissima catena di circostanze, che avrà effetti a catena catastrofici. Non possiamo fare nulla per sciogliere le catene, ma se riusciamo a risalire al 1919 ci basterà un bigliettino profumato per salvare l’Italia dall’infamia e il mondo dalla guerra”.
“Chi prenderà il suo posto? Ignoro del tutto le vostre formule, ma so che l’Italia era alla vigilia di una rivoluzione. D’Annunzio?”
“Non ha nessuna chance, dopo Fiume è soltanto una presenza decorativa. Nessuno fa davvero affidamento su di lui. Abbiamo diversi scenari, tutti migliori di quello in cui Marinetti prende il potere. Per esempio… Si ricorda come si chiamava il movimento fondato a Piazza San Sepolcro?”
“I fasci futuristi, mi pare”.
“Fasci di combattimento. Il futurismo non era ancora la corrente egemone. C’era una forte componente socialista rivoluzionaria. Si ricorda di Benito Mussolini?”
“Il giornalista? È a Parigi coi Rosselli, mi pare”.
“Era lui il capo, a San Sepolcro”.
“Ma veramente?”
“La propaganda futurista sta già modificando la memoria collettiva. Ma controllate sui giornali del tempo. Mussolini verrà messo in minoranza soltanto al congresso del 1920, e poi cadrà in disgrazia. Il fidanzamento con Benedetta Cappa può modificare la situazione”.
“Niente più Corsa su Roma?”
“La organizzerà Mussolini. E otterrà l’incarico dal Re. È una persona molto più pragmatica di Marinetti; altrettanto ambiziosa, ma senza il narcisismo dell’artista. Non congiurerà contro la Corte; dovrebbe riuscire nell’obiettivo di pacificare socialisti e popolari”.
“Lo odiavano entrambi. I socialisti, soprattutto”.
“Vecchi rancori, li seppelliranno”.
“Ci sono delle equazioni che lo dimostrano, immagino”.
“Nulla è dimostrabile al 100%. Comunque è difficile immaginare uno scenario peggiore di quello dell’ascesa al potere di Marinetti. Ed è altamente probabilità che senza il suo esempio anche i cubofuturisti non riescano a liquidare Giuseppe Stalin. Quest’ultimo avvierà una politica di industrializzazione molto meno aggressiva – non massacrerà i contadini, è di estrazione contadina lui stesso. La repubblica di Weimar salderà il suo debito di guerra e grazie agli investimenti americani già verso la fine degli anni Venti sarà la prima potenza industriale d’Europa. Ovviamente ci saranno ancora guerre, e scenari al di là delle nostre possibilità di calcolo: ma l’incubo futurista sarà spazzato via prima ancora di prendere forma. Di Marinetti ci ricorderemo soltanto come di un artista mattoide che dopo la Grande Guerra mise giudizio e si sposò”.
“E Venezia?”
L’anziano professor Modena fissò negli occhi il sé stesso di venti anni prima, e sorrise. Per un attimo l’illusione di specchiarsi fu perfetta. “Venezia non sarà mai asfaltata. A nessun altro verrà in mente un progetto così folle”.
“Non me lo può garantire al cento per cento…”
“Al novantasei virgola quindici”.
“Mi basta e mi avanza”.
(Filippo Tommaso Marinetti e Benedetta Cappa si sposarono nel 1923. Il professor Angelo Modena non ha mai scritto il suo appunto sulla Macchina del Tempo di Wells. È morto a Birkenau nel 1944).

Se a differenza del professore hai una voglia matta di vedere Venezia asfaltata, approva con futuristico vigore lo spunto che oggi se la gioca contro Redenzione. Tutto quello che ti si chiede è mettere Mi piace su facebook, o esprimervi nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto.
Comments (32)

Non ho mai visto Carcassonne

Permalink
Ricapitolando: nel '35 il nuovo governo sciovinista francese (che nei libri postbellici non risulta) comincia a deportare i catari in Corsica e Algeria. Quelli che almeno in un primo momento erano stati concepiti come campi di prigionia diventano campi di sterminio in seguito alla vicenda del Languedoc, un vecchio transatlantico affondato dalla marina francese dopo che i deportati catari ne avevano preso il controllo. Tutto questo ufficialmente all'insaputa della popolazione. E va bene.

I catari avevano sempre avuto molti nemici, in Francia e altrove. Ma anche molti amici. Com'era possibile che nessuna potenza straniera fosse intervenuta? La cosa più difficile da mandar giù era il ruolo di Roosevelt. Aveva veramente finanziato il New Deal coi patrimoni sequestrati ai banchieri catari? I campi di concentramento per i cittadini giapponesi erano davvero nati cinque anni prima per segregare gli americani di fede catara? Più facile da capire l'indifferenza di Hitler, che stava preparando qualcosa di analogo in Germania. L'Italia in un primo momento aveva lasciato aperta la frontiera ai profughi (con grande disappunto della Santa Sede). Mussolini sperava in un qualche modo di poter usare la "questione catara" per uscire dall'isolamento internazionale seguito all'invasione dell'Etiopia. Nella versione non censurata del discorso del 10 giugno, il dittatore accenna più volte alla causa dei Catari. Forse era esistito un progetto per trasformare un settore della Corsica in un "Foyer catarà". In realtà Mussolini non si era sbilanciato più di tanto, ma il risultato fu l'adesione indiscriminata di molti profughi catari al fascismo - a differenza che in Spagna, dove si erano schierati contro Franco pagandone le conseguenze. Dopo l'otto settembre gran parte dei catari italiani erano rimasti fedeli all'Asse: entrando chi nell'esercito repubblichino, chi direttamente nelle SS. E tra il 1945 e il 1946 erano scomparsi. Evaporati.

Ai catari di Nagasaki non era andata molto meglio. Come mai una bomba più potente di quella di Hiroshima aveva fatto - secondo i resoconti ufficiali - metà delle vittime? E perché era stata scelta proprio Nagasaki? Com'era possibile che nessuno, nemmeno Truman, avesse dato un ordine preciso? Per quanto folle, tutto a un certo punto sembrava quadrare. I soprabiti neri di Pirandello, che in una prima stesura del racconto (poi censurata) prendevano vita e raccontavano l'orribile storia del loro popolo. La funebre allusione tra le righe di quella canzone di Brassens. "Non ho mai visto Carcassonne". Il massacro dei catari era la pagina di Storia che gli Alleati avevano deciso di strappare a Jalta. Imbarazzante per la Quarta Repubblica e per gli USA, irrilevante per Stalin. Dal suo punto di vista due milioni di individui non dovevano sembrare che un trascurabile episodio.

Se davvero vuoi vedermi proseguire in questo delirio, occorre che tu voti per Carcassonne, che oggi gioca contro La pace separataPuoi farlo mettendo Mi piace su facebook, o esprimendoti nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto.
Comments (19)

La pace separata

Permalink
"Ci sto ragionando sopra da qualche tempo, Prandini, e adesso vorrei discuterne con te".

Prandini non poteva impedirsi di provare una certa deferenza nei confronti del vecchio. Quanti anni aveva? Per i ragazzi della Brigata esisteva da sempre, ed era sempre stato lì. Prandini se lo ricordava un po' meno grigio, ai tempi della Stella. Era sopravvissuto a tutti i suoi compagni, così raccontava Prandini. Mentiva: una buona metà della Stella era passata dalla parte dei valligiani, in seguito a certi eventi confusi che era meglio ignorassero.

"Io ormai sono fuori dai giochi", continuò il vecchio. "Hanno smesso di cercarmi".
"Hai firmato la tua pace separata".
Il vecchio corrugò la fronte, forse non aveva capito l'espressione. Oppure non gli piaceva.
"Sono un pensionato ormai. Hai mai pensato alla pensione, Prandini?"
"Da giovane".
"Quando io me ne sarò andato - e non ho fretta, ma potrebbe succedere uno qualsiasi di questi giorni - tu sarai il più vecchio della montagna, lo sai?"
"Amen".

(Questo pezzo prosegue lo spunto dei Banditi della montagna, e ovviamente partecipa alla Grande Gara degli Spunti. Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

"Ti ho osservato in questi anni. Hai fatto un buon lavoro coi ragazzi".
"Grazie".
"Prima di incontrarti erano una banda di monelli in gita. Non avevano speranza, nessuna".
"Mentre adesso".
"Quindi capisco la tua ritrosia ad abbandonarli".

Fu il turno di Prandini di aggrottare la fronte.

"...ma prima o poi deve accadere. Proprio perché hanno imparato tanto da te, non hanno più bisogno come un tempo. Tra un po' sarai un peso per loro".
"Un peso".
"Sei ingombrante. Hai sgozzato il figlio di un valligiano, ci sarà ovviamente un rastrellamento, e la colpa ricadrà su di te".
"Non potevo fare diversamente".
"Non ti sto giudicando. Ti sto dicendo come andranno le cose. Saliranno con l'artiglieria, faranno baccano per settimane".
"Non lo troveranno mai".
"È importante? Cominceranno a battere la montagna, dovrete ritirarvi dietro il crinale e perderete il raccolto. Ci saranno conflitti a fuoco, morti feriti e prigionieri e tutte queste stronzate che a una certa età, Prandini, stancano. Sul serio non sei stanco?"
"Io e te siamo diversi".

Il vecchio chinò il capo di scatto, aveva capito l'insinuazione.

"Io non ti giudico, e mi piacerebbe che tu non giudicassi me".
Ti piacerebbe.
"Ho fatto delle scelte discutibili", continuò il vecchio, fissandosi le scarpe lacere, "che se avessi avuto più tempo per riflettere..."
"È così che è andata al passo del lupo? Li hai venduti perché eri stanco?"
"Oh oh", il vecchio cercò di sorridere. Senza incisivi non gli riusciva molto bene. "Che parola che hai usato. Che brutta parola. È quel che pensi di me?"
"È quel che ho sentito dire".
"Non ho venduto nessuno. Li ho salvati. Metà di loro non avrebbero passato l'inverno. A quel tempo coi valligiani si poteva ancora ragionare".
"Spiegami il ragionamento".
"Un accordo orale, un patto tra... come si dice?"
"Gentiluomini".
"Grazie. Non avremmo cambiato bandiera. Ci chiedevano di mantenere un presidio sul passo, e di far transitare i loro convogli di notte, con discrezione. Impedendo a qualche altra formazione di prendere il nostro posto. Mantova ovviamente non era d'accordo".
"L'hai ammazzato tu?"
"Ha importanza?"
"Curiosità".
"Ha veramente importanza chi ha fatto fuori quella testa di cazzo che non chiedeva altro che morire in qualche sparatoria inutile? Cercava la gloria, è stato accontentato. Io volevo soltanto che la mia famiglia mi sopravvivesse. Anche tu avevi una famiglia, mi pare".
"L'avevo".

Se tutto questo per qualche motivo non ti dispiace, è l'ora di votare per La pace separata, che se la gioca contro CarcassonnePuoi farlo mettendo Mi piace su facebook, o esprimendoti nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto.
Comments (17)

Qualcuno continua a uccidere le mie ex (e io non ho un alibi)

Permalink
Riassunto dello spunto precedente: un tizio arriva in questura disperato, chiede di essere arrestato per aver ucciso nove donne in cinque anni - anche se non se lo ricorda. Quattro delle vittime sono concentrate nella stessa provincia (in cui da anni la polizia ricerca un maniaco seriale), le altre sono sparse per l'Italia e addirittura l'Europa, e nessuno le aveva mai collegate, anche perché ogni omicidio ha modalità diverse. Solo il Tizio conosce il collegamento tra tutte le vittime: sono tutte sue ex.

(Questo pezzo partecipa alla Grande Gara degli Spunti! È uno sviluppo di Qualcuno sta uccidendo tutte le mie exSe vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

Tizio vive un incubo da anni. Per molto tempo ha esitato a informare gli inquirenti, perché sapeva che sarebbe stato sospettato ed era convinto di essere innocente - anche se in un qualche modo non riesce mai ad avere un alibi (è un tizio insolitamente solitario). Ma dopo la tragica scomparsa di una signora di Innsbruck incrociata ai tempi dell'Erasmus, decide di costituirsi. Pensa di essere vittima di uno sdoppiamento di personalità, e teme per Caia, l'unica ex superstite, di cui è ancora segretamente innamorato anche se si è fatta una famiglia. Mentre è in stato di fermo, il commissario che ha ricevuto le sue confidenze ha un'idea: e se fosse Caia ad aver assassinato le povere donne? Tizio ha ammesso di aver tenuto una lista delle sue conquiste, e di averla mostrata almeno una volta all'ex compagna. Se si esclude Tizio, l'unico colpevole non può essere, per quanto improbabile...

Mentre sta ragionando su tutto questo, Caia muore misteriosamente davanti all'agente di scorta che le era stato fornito senza spiegazioni. Stavolta però Tizio dovrebbe avere un alibi! era in cella, no?

No.

Coincidenza, i termini della custodia cautelare erano scaduti il giorno prima. Lui naturalmente non si ricorda nulla, anche se aveva scritto diverse lettere anonime a Caia per metterla in guardia. Chi sta uccidendo tutte le sue ex?

Non lo saprete mai - se non voterete per questo spunto, che oggi se la gioca contro Addio ai procioni, mettendo Mi piace su facebook, o esprimendovi nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto.
Comments (21)

Cosa ci insegnano i procioni

Permalink
Come tutti i procio-linguisti (e più in generale i procio-studiosi, e i procio-divulgatori, e tutto l'indotto umanistico e scientifico che ruotava intorno al Pianeta dei Procioni), Aron aveva grosse difficoltà a mascherare il disprezzo che provava per i cosiddetti "procionidi terrestri", quei gruppi di svitati che dopo aver visto un documentario di troppo erano andati a vivere nei boschi in piccole comunità di soli maschi o sole femmine - fatta eccezione ovviamente per quelle quattro settimane tra marzo e aprile, dedicate al corteggiamento e all'accoppiamento. Aron non riusciva nemmeno a individuare l'aspetto più paradossale: che le istruzioni per la vita in armonia con la natura provenissero da trasmissioni inviate e captate con le tecnologie più sofisticate a disposizione? o che una specie vivente dedita al genocidio fosse percepita come più "naturale" soltanto perché viveva tra gli alberi?

(Questo pezzo prosegue lo spunto della Fine del mondo dei procioni, e ovviamente partecipa alla Grande Gara degli Spunti. Se vuoi provare a capirci qualcosa, leggi qui. Puoi anche controllare il tabellone). 

"Non hai mai pensato che è anche colpa nostra?", le aveva detto Sara un giorno. "In fondo non sono che vittime della procio-mania. Quella cosa che ci dà da vivere".
"Noi non viviamo di procio-mania. Noi studiamo i linguaggi dei procioni".
"Certo, e per farlo servono computer dall'enorme potenza di calcolo, e specialisti ben pagati, e tutto questo lo pagano gli sponsor che vogliono vendere il prossimo film 3d ambientato nel mondo dei procioni".
"Sara..."
"La soap dei procioni sta andando fortissimo - anche se non abbiamo ancora capito chi è il buono e chi è il cattivo - ammesso che ci siano - i peluche autorizzati dall'Agenzia Spaziale sono già pezzi da collezione, e ci sono ragazzini che da cinque anni in qua non fanno che sentir parlare di procioni, procioni, procioni. Ti sorprende che una piccola parte di loro comincino ad arrampicarsi sugli alberi? Tra un po' ci arrampicheremo tutti. Hai visto i progetti della nuova torre di Berlino?"
"Prima o poi si renderanno conto che i procioni sono come noi".
"Non sono come noi".
"È vero. Ma non sono né meglio né peggio. Sono violenti, devastatori, hanno un forte senso del branco ma nessuno scrupolo per gli estranei".
"Bene, e ora dimmi qualcosa che li differenzi dai sapiens".
"Sin da quando abbiamo cominciato a capire qualcosa della loro Storia, abbiamo cercato di combattere il luogo comune di specie-in-armonia-con-la-natura. Abbiamo raccontato di come abbiano sterminato un'altra razza intelligente nel continente inferiore".
"Probabilmente noi abbiamo fatto la stessa cosa coi Neanderthal".
"Loro lo hanno fatto con armi batteriologiche".
"Allora è la stessa cosa che noi abbiamo fatto agli Incas".
"Non abbiamo usato armi batteriologiche contro gli Incas... non consapevolmente".
"Hanno iniziato a usare armi batteriologiche più o meno quando noi cominciavamo a perfezionare le catapulte, non puoi fare un paragone con..."
"Sei tu che hai iniziato a fare paragoni".
"Va bene. Fare paragoni è sempre sbagliato".
"Sempre".
"Perché abbiamo iniziato?"
"Non riesco a capire come sia passata l'idea dei procionidi in sintonia con la natura. Hanno devastato più habitat di quanto non abbiamo fatto noi".
"Ma vivono ancora sugli alberi, mentre noi siamo scesi".
"Tutto qui?"
"Certo che no. Hanno quella pelliccia adorabile, e quel mese all'anno in cui pensano soltanto al sesso. Tutte cose di cui eravamo convinti fosse necessario liberarsi, per diventare civili. Loro ci hanno dimostrato che non è vero. Si può fondare una civiltà senza scendere dagli alberi, senza perdere i peli, senza rinunciare alla stagione dell'amore".
"Hanno cacciato gli orsi fino all'estinzione. E manco li mangiano".
"Erano comunque pericolosi. Piuttosto ci sarebbe da domandarsi perché noi non abbiamo fatto la stessa cosa".
"Perché abbiamo sviluppato il concetto di biodiversità, mentre loro..."
"Loro si sono stabilizzati sul miliardo di abitanti, su un pianeta un po' più piccolo della Terra, forse è una strategia più ecologica della nostra".
"Il loro modo di stabilizzarsi è massacrarsi tutti gli autunni".
"Anche lì, ci sarebbe da domandarsi perché non facciamo la stessa cosa".
"Sei seria?"
"Forse non stiamo distruggendo il pianeta perché facciamo troppe guerre, ma perché non ne facciamo abbastanza. Ci hai mai pensato?"
"Ok, non sei seria".

Se sei un furry, o non hai il coraggio di ammetterlo a te stesso, ma hai quello per votare Cosa ci insegnano i procioni, che oggi se la vede con Qualcuno continua a uccidere le mie ex, non hai che da mettere Mi piace su facebook, o esprimerti nei commenti. Grazie per l'attenzione e arrivederci al prossimo spunto.
Comments (28)
See Older Posts ...