Prima o poi lo prendono

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Il calcio è sicuramente molto cambiato dall'ultima volta che ho visto una partita (potrebbe essere stata un'altra finale europea, quindi nove anni fa). C'è tutta una nuova nomenclatura che mi sfugge, una religione del possesso palla e altre cose, però poi alla fine vedi dieci inglesi schiacciati nella loro tre quarti e mi sembra di sentirglielo dire: prima o poi un gol lo prendono, se continuano a giocare così. 

Io potrei anche obiettare che però si coprono bene, tanto che i nostri proprio spazi non ne trovano, e Immobile non si vede da due partite, e anche Insigne, ma lui non risponde nemmeno, ha già detto tutto quello che deve dirmi e ha ragione – quand'è che non ha avuto ragione? Prima o poi qualcuno gliela mette dentro, magari un centrale. Magari juventino. 

Anche se le partite le guardo da solo, non sono mai veramente da solo. A ogni passaggio, a ogni tiro, a ogni dribbling sento qualcuno commentare, gridare, sibilare, le voci di tutte le persone con cui ho visto una partita. Voci eccitate, arrabbiate, sorprese, tranquille. Molte volte dicono sciocchezze. Se la prendono da matti per falli inferti o simulati in quarti di finale di vent'anni fa. Tutto quello che so del calcio l'ho imparato da loro e quindi ne so veramente poco, in teoria. Ma se scavo sotto tutte quelle voci trovo come un brusio di fondo, una nota costante, la voce più tranquilla di tutte che non se la prende mai, tanto alla fine è un gioco. In effetti che ce ne viene in tasca a noi? (Tranne quella volta ad Atene, lì deve esserci restato male davvero se l'ho capito persino io, che ci stava male: ed è stata l'unica volta, l'unica che sono stato in pena per uno juventino). 

Lui non avrebbe dato a notare nessuna particolare attenzione, anzi si sarebbe seduto davanti al televisore qualche minuto dopo il fischio – magari si sarebbe perso il gol inglese, come ieri ho fatto io. Non se la sarebbe presa affatto, un gol nei primi minuti non vuol dire niente. Sarebbe rimasto tranquillo per tutta la partita regolare, senza esibire il fastidio per i gridolini che mi uscivano ogni volta che vedevo un tiro che per me poteva andare in porta. Si sarebbe illuminato per il gol di Bonucci, ma senza urlare, come di una cosa che doveva per forza succedere. Poco dopo forse avrebbe spento, perché supplementari e rigori sono troppo stress, e a una certa età bisogna starci attenti. E il baccano, quaranta minuti dopo, non l'avrebbe probabilmente svegliato. Avrebbe festeggiato il giorno dopo: si fa per dire, un sorriso e via.

Anche se le partite le guardo da solo, non sono mai veramente da solo. Di calcio ne ho imparato così poco, ma anche stavolta mi è bastato. Se avessimo perso non sarebbe stato un dramma: se avessimo vinto senza rigori sarebbe stata più meritata. Se lui ci fosse stato comunque ora sarebbe contento. Lui non c'è più, proverò a essere contento io. Anche se ho il dubbio che non abbia più importanza.

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Il mio corpo è una moquette

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È buffo, è indicativo e imbarazzante: me ne sono reso conto oggi, quando per la prima volta ci ho pensato per più di cinque minuti. Il concetto di Raffaella Carrà – che per molti è indissolubilmente associato a un ombelico, a un caschetto, un sorriso – nel mio caso è legato a una sensazione di moquette. Con tutto quello che la moquette implica per un bambino: una sensazione di libertà e insieme di sicurezza, la possibilità di stendersi liberamente sul pavimento di una palestra mentale in cui deve essere cominciata una specie di educazione sessuale. Sensazione soprattutto tattile, e olfattiva. Quei grandi studi tv pieni di specchi mi sapevano di polvere – forse perché il tubo catodico attirava e ospitava ogni sorta di pulviscolo, ma è anche il profumo della moquette quando ci spremi il naso. Ma insomma io ero bambino, facevo al limite ginnastica correttiva, e questa affermava che il suo corpo era una moquette così accogliente da addormentarcisi. 

Col sesso del poi, una cosa piuttosto fetish, ma cantata con un'allegria sincera, contagiosa. In un periodo in cui la sessualità era associata ad atmosfere morbose (senza cercare troppo lontano basta pensare a Mina negli stessi anni '70, al tipo di smorfie quasi postribolari che doveva affettare in favore di telecamera per risultare sensuale). La Carrà no. Lei sorrideva e ti si srotolava sotto, ti dava l'idea che alla fine il sesso potesse anche essere una cosa simpatica e divertente da fare in compagnia. Poi non lo so quanto ciò mi abbia aiutato: stasera mi piace pensare che sì, molto. 

Raffaella Carrà non mi è stata sempre simpatica: le maestre costantemente sorridenti ed efficienti a una certa età risultano odiose. Ci si accorge quanto erano indispensabili quando se ne vanno in in pensione o all'estero e al loro posto arriva gente che magari s'impegna ma non sempre, non abbastanza, gente che quando sorride tirata ti fa paura, la Carrà non faceva paura mai. Il professionismo è l'ultima qualità che impari ad apprezzare, forse perché è un insieme equilibrato di tante qualità che non devono farsi notare, non devono rubare la scena. Finché c'è non te ne accorgi, poi non c'è più e ti manca. Nove anni fa, a un concerto di beneficienza per l'Emilia Romagna, Raffaella Carrà si mangiò il palco. Prima e dopo di lei artisti che in teoria in uno stadio avrebbero dovuto trovarsi più a loro agio, e invece per un motivo o per un altro non erano in serata. Lei non poteva non essere in serata, non esistevano motivi per cui sarebbe potuto succedere. Non esisteva una Carrà sottotono, non è mai stata prevista, non credo che nessuno di noi sarebbe riuscito a immaginarsela. Non c'è.  
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It's Getting Better (con l'Errata corrige)

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Del resto anche i migliori fanno grandi errori

Sono passati giusto giusto due anni da quando cominciai a scrivere pezzi sulle canzoni dei Beatles, per un progetto a cui non sapevo ancora che forma dare; poi diventò una classifica sul Post e un libro per Arcana. L'anno scorso invece a questo punto ero nel panico perché dovevo consegnare a fine mese e mi mancavano ancora, boh? cinquanta pezzi? ma siccome ero partito dal fondo erano i cinquanta pezzi più importanti. Era un anno complicato, non c'è bisogno di spiegarlo, ma probabilmente mi sarei ridotto all'ultimo momento in ogni caso perché è così che faccio le cose (non mi giudicate) (siete come me). Alla fine il libro non è venuto affatto male: l'unica cosa che non riesco a perdonarmi sono i refusi. Ce ne sono veramente troppi, ogni volta che lo apro ne trovo qualcun altro. Dici: e vabbe', sei un tizio che scrive di getto e consegna all'ultimo momento, tante grazie. No, aspetta. 

Parliamo di pezzi che scrivevo su un blog; poi li trascrivevo su un altro blog (quello del Post), correggendo tutti i refusi che trovavo. Poi li ricopiavo di nuovo sul mio blog perché per una questione di incomprensioni tra Blogger e Wordpress bisogna fare così, non vi annoio ma fidatevi. E anche lì continuavo a trovare magagne e anche lì le ricorreggevo. In seguito continuavo a leggerli maniacalmente per settimane perché uno dei sistemi per trovare un'idea è rileggermi. E altri errori ne trovavo. Finché, appunto, un anno fa non ho buttato tutto su un file di testo, togliendo un sacco di cose che in un libro non avrebbero avuto molto senso e inoltre avevo paura di sforare – anche qui, lettura e rilettura e correzioni. Dopodiché la bozza era finita e l'ho mandata all'Arcana. All'Arcana mi hanno tolto l'accento al "sé stesso", sapevo che l'avrebbero fatto, io ho provato anche a negoziare e loro sapevano di non avere del tutto ragione, ma non c'è niente da fare, se lavori nell'editoria lo sai che ti tocca. A parte questo diversi errori li hanno trovati pure loro, e li hanno corretti; in alcuni casi mi hanno chiesto cosa diamine avessi scritto e a quel punto l'errore l'ho corretto io, ma capite che a questo punto avevamo già falciato centinaia di refusi, ormai pensavo che le bozze fossero buone. Ciononostante le ho rilette tutte una volta e mezzo, mi ricordo bene, con la tipografia già in stato di allerta, le ho rilette e ho trovato ancora qualcosa (però a quel punto lo sapete che l'autore ormai non legge più; è convinto di leggere ma in realtà salta le parole). Dopodiché siamo andati in stampa: e malgrado tutto questo, abbiamo ancora decine di refusi. Veramente io non so, forse non dovrei scrivere nella vita, anzi fortuna che faccio un altro mestiere.

Comunque. 

Mi rivolgo ai gentili acquirenti, che non ringrazio mai abbastanza. Siccome non posso entrare nelle case di ciascuno di voi e correggervi le copie a mano (ma guardate che lo farei volentieri); in attesa di ristampe che saranno, si spera, un po' più corrette, ho pensato di allungarvi qui un 

ERRATA CORRIGE

Che non è neanche il primo, visto che il buon Codogno ci aveva già pensato mesi fa. Alcuni di quelli che lui ritiene errori secondo me non sono proprio errori; è un po' come quando Ringo va controtempo, è una questione di stile. Altri invece sono proprio errori e nel frattempo ne ho trovati altri, del resto adesso davvero mi basta aprirlo a una pagina a caso – guardate l'ho appena fatto – pagina 230 – mioddio c'è scritto "occasione" due volte in due righe – che vergogna. 

paginarigaerratacorrige
1010(a volta(a volte
297A ventun anni PaulA vent'anni Paul
2912nel 1963nel 1962
5224Sol 7 minoreSol minore 7
6711per far notaleper far notare
7022V-I-VIIV-I-vi
1073Dr FeelgodDr Feelgood
11022a cinque toni di distanzaa una quinta di distanza
125terzultimamomento impazziva proprio per le cose[Va una virgola tra "momento" e "impazziva"].
14111voce solista in I Need You e You Like Me Too Muchvoce solista in Think For Yourself e If I Needed Someone
145ultimaIn comune le due canzoni hanno anche il telefono, strumento non già di comunicazione ma di torturaCome in No Reply, il telefono è uno strumento non tanto di comunicazione quanto di tortura
1535una cornice in qui la demenzialitàuna cornice in cui la demenzialità
1567le canzoni incontrare prima di conoscerlale canzoni incontrate prima di conoscerla
1573una delle più strane canzoneuna delle più strane canzoni
1608dettaglio baraccodettaglio barocco
16614dal La bemolle si rimbalza di una quinta al Do#dal Sol# si rimbalza di una quinta al Do#
17115era un trucco tenereera un trucco per tenere
17713ma dal fondoaccordo in maggiore settimaaccordo di settima maggiore
21120tanti e solditanti soldi
2395voce solista in Within You Without Youvoce solista in Blue Jay Way
241quartultimaquel Capodannoquel santo Stefano davanti alla tv
251quartultimache nel 1967 aveva 5 anniche nel 1968 aveva 5 anni
25410sotto la ritinteggiatura di su qualche muro storicosotto la ritinteggiatura di qualche muro storico
264terzultimail cielo e bluil cielo è blu
28312My Dear LordMy Swet Lord
28413che si ricorda con più effettoche si ricorda con più affetto
28612che scene come in tvche scene così in tv
3182trasmessa dall'Abc dal 1965-67trasmessa dall'ABC nel 1965-67
3328Instant KharmaInstant Karma
333quartultimal'- hal'ha (questa mi ricordo che l'avevo corretta maledizione)
3373Instant KharmaInstant Karma
3384uno toccoun tocco
34415ogni appostaogni giorno apposta
35319lennonnianilennoniani
36315Oh you gonna be my dream tonightAre you gonna be in my dreams tonight?

Come vedete ce n'è abbastanza per voler sparire in una crepa, ma se ne trovate altri scrivetemi pure, si fa ancora in tempo a pubblicare l'Errata corrige dell'Errata corrige.

(Gli accenti su sé stesso però li hanno trovati tutti, oh, l'editoria italiana anche stavolta è salva).
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Inginocchiarsi per chi, per cosa

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Le foto sono strumenti potenti, ma non dicono necessariamente la verità. Le foto che immortalarono il podio olimpico dei 200 metri all'Olimpiade del 1968 mostrano due atleti neri col braccio alzato e il pugno chiuso – anche se non sappiamo ancora quanto il gesto costerà a entrambi, intuiamo di trovarci davanti a un gesto forte di protesta. A rendere l'immagine così potente è soprattutto il contrasto col terzo atleta, bianco e apparentemente indifferente: è lui a creare l'asimmetria necessaria. Il bianco guarda avanti, i neri protestano. Per innalzare quelle mani guantate serve così tanta forza di volontà che a Tommie Smith e John Carlos non ne resta per alzare la testa: sanno di essere vittime sacrificali ma fanno quel che è giusto fare, e poi sia quel che sia. Dopo aver visto queste foto è facile provare un moto d'odio per Peter Norman, il velocista australiano medaglia d'argento che guarda avanti e pare inconsapevole. È inevitabile ma è anche un errore: Norman non solo simpatizzava coi due colleghi e collaborò alla loro protesta (pagando anch'egli un prezzo alto); ma fu proprio lui a suggerire a Smith e Carlos di alzare in quel modo i pugni che, se ci fate caso, sono complementari: uno alza il destro e uno il sinistro.

John Carlos, Tommie Smith, Peter Norman (pubblico dominio).
John Carlos, Tommie Smith, Peter Norman (pubblico dominio).


In effetti l'idea originaria era di alzare insieme pugni destri e sinistri, in una posa che avrebbe potuto essere scambiata per quella dell'atleta trionfante: a rendere esplicita la protesta nei confronti del segregazionismo USA sarebbero stati i guanti neri – oltre alla coccarda del movimento che promuoveva la protesta, l'Olympic Project for Human Rights. Carlos però si era scordato i guanti al villaggio olimpico. Fu Norman a suggerire a Smith di prestargli uno dei suoi: forse da australiano gli sfuggiva l'ostilità del pubblico mainstream americano nei confronti della gestualità del pugno chiuso, da decenni associata all'antagonismo di sinistra. Quello che invece Norman colse al volo è che mostrare i pugni spettava solo ai due colleghi: la loro protesta era giusta, ma era la loro protesta. Un pugno bianco e non guantato l'avrebbe soltanto annacquata. Norman si accontentò di indossare la coccarda dell'Olympic Project: tanto gli bastò per essere squalificato dalla federazione australiana. Ma perché mi sono messo a raccontare di un episodio di protesta sportiva di più mezzo secolo fa?

Molti lettori potrebbero averlo già capito (in fondo sono lettori del Post). Magari l'intento è confrontare le epiche e iconiche proteste del passato – quando alzare un pugno ti costava la carriera – con la situazione presente in cui ogni azione diventa immediatamente standardizzata e pigra, al punto che agli Europei non si capisce nemmeno più se il gesto veramente politico sia inginocchiarsi o no. Ecco, sì, forse volevo scrivere un pezzo del genere, ma come la metto con Colin Kaepernick? Come faccio a definire 'pigro' il gesto che ha inventato e che gli è costato una carriera professionistica nel football americano, non nel 1968 ma dal 2017 in poi? Quando Kaepernick smise di alzarsi durante l'inno nazionale Trump si era appena insediato alla Casa Bianca e i media stavano documentando una inquietante recrudescenza degli episodi di violenza delle forze dell'ordine nei confronti dei cittadini afroamericani (chi ricollega il gesto al più tardo assassinio di George Floyd sta già facendo della mitologia). In una prima fase Kaepernick rimaneva semplicemente seduto: un gesto di rottura molto forte nei confronti di una ritualità particolarmente consolidata negli USA, dove vige tuttora un rispetto religioso per simboli unificanti come l'Inno e la Bandiera. Ai giornalisti che glielo domandarono rispose senza mezzi termini: "Non mi alzerò per mostrare orgoglio per la bandiera di un Paese che opprime la gente nera e la gente di colore. Per me questo è più importante del football, e sarebbe egoista da parte mia guardare da un'altra parte. Ci sono morti nelle strade e gente stipendiata che uccide e la passa liscia". In seguito, dopo una serie di discussione con colleghi e veterani, Kaepernick decise di non restare seduto durante l'inno, ma di inginocchiarsi.


Il gesto nasce quindi da un compromesso: Kaepernick non intendeva offendere chi serve con orgoglio la sua nazione, ma continuava a far presente che questo orgoglio non poteva condividerlo. Così codificato, il gesto cominciò a essere imitato da alcuni colleghi, ma soprattutto divenne un'ossessione per Trump, che a più riprese chiese il licenziamento per chi lo praticava. Kaepernick probabilmente passerà alla Storia, proprio come Carlos e Smith: nel frattempo però ha smesso di giocare; nessuna squadra l'ha più cercato. Protestare è ancora un gesto rischioso, quando la causa è controversa e il pubblico non è pronto – ovvero, in tutti i casi in cui protestare ha veramente senso. Ecco, forse ora è chiaro dove sto andando a parare: quello che è nato negli USA all'interno di un movimento preciso (Black Lives Matter) con richieste precise (eliminare la violenza poliziesca soprattutto nei confronti della comunità afroamericana), forse in Europa è arrivato un po' di rimbalzo, più che per emulazione che per una reale esigenza sociale. Sto veramente arrivando lì? Perché non è molto lontano da quel che potrebbero dichiarare Orban e Salvini sull'argomento. Faccio ancora in tempo a correggere un po' la rotta?

A quanto pare i primi a inginocchiarsi in Europa sono stati i calciatori della Premier League – come sempre la Gran Bretagna è il filtro da cui ci arriva la cultura americana, un filtro tutt'altro che neutro. Inginocchiarsi su un campo di calcio inglese è un gesto irrituale, ma senza quella punta di blasfemia e vilipendio che veniva percepita sugli spalti degli stadi americani; la pratica si ispira esplicitamente al movimento Black Lives Matter, ma spostando l'obiettivo verso un più generico antirazzismo. Se è comunque abbastanza chiaro per cosa si stiano inginocchiando i calciatori inglesi, è un po' più difficile capire contro chi. Il bersaglio polemico non sembra più l'autorità costituita e le sue forze di polizia; in molti casi sembra che l'avversario sia il pubblico, le frange di tifosi che in effetti talvolta reagiscono fischiando. È uno scenario molto più vicino a quello degli spettatori italiani: la tensione tra squadre sempre più meticce e tifosi sempre più identitari o razzisti. A ogni contestazione, il sindacato dei calciatori professionisti ribadisce che i suoi iscritti continueranno a inginocchiarsi e che il pubblico questa cosa la deve accettare; insomma inginocchiarsi è un modo di chiedere al pubblico: da che parte stai? Anche in questo caso dietro al successo di un gesto di protesta c'è una negoziazione: inginocchiarsi è un gesto semplice, non rovina lo spettacolo e crea senz'altro meno tensioni e strascichi di altri (pensate ai casi in cui un calciatore o un'intera squadra reagisce ai cori razzisti ritirandosi dal campo e incorrendo in una squalifica).

Più che un gesto di protesta, in Europa l'inchino diventa un gesto identitario: appoggiare il ginocchio significa dichiarare rapidamente il proprio antirazzismo. Ed eccoci agli Europei, dove – contrariamente a quello che si sente in giro – nessun organo ufficiale ha chiesto ai calciatori di inginocchiarsi. I calciatori inglesi hanno fatto sapere che lo avrebbero fatto, gli scozzesi hanno scelto di farlo in occasione di Inghilterra-Scozia; altre nazionali sono andate in ordine sparso; la UEFA si è limitata a chiedere rispetto per chi decideva di inginocchiarsi. Nel frattempo però l'argomento ha raggiunto le prime pagine, forse perché la fase a gironi non è così eccitante (se a Cristiano Ronaldo basta spostare una bottiglietta per far discutere un paio di giorni). Con un'inversione tipica delle guerre culturali contemporanee, la scelta identitaria è diventata quella di non inginocchiarsi: persino Orban ha dedicato un po' del suo tempo a spiegare perché i calciatori ungheresi non sono tenuti a farlo. In effetti chi si inginocchia sta ancora protestando, o si sta limitando a citare in favore di videocamera un gesto ormai estrapolato dal contesto originario? La forza del movimento Black Lives Matter risiedeva anche nel modo in cui circoscriveva la sua protesta. Non un generico antirazzismo, ma le Vite dei Neri Contano: uno slogan che non a caso gli avversari hanno cercato di scimmiottare per depotenziarlo, con lo slogan All Lives Matter. La standardizzazione dell'inchino pre-partita corre forse lo stesso rischio: chi si inchina rischia di non sapere perché lo fa. Senz'altro non per chiedere il taglio dei fondi alla polizia americana, come chiedono gli attivisti BLM: e allora per cosa? Se è un gesto che si limita a definire un'identità, il rischio è che si trasformi in una ritualità vuota, l'ennesima pratica di virtue signaling un po' fine a sé stessa; col non trascurabile effetto collaterale di far emergere, per contrasto le posizioni di chi rivendica a voce alta il rifiuto dell'inchino, l'insofferenza per un antirazzismo imposto dall'alto più con la pressione mediatica che con la forza degli argomenti.

Spero di non essere frainteso (ma è inevitabile): sono contento se molti calciatori si sentono antirazzisti e vogliono testimoniarlo sul campo; ovviamente preferirei che avessero obiettivi chiari e non un generico antirazzismo d'importazione, visto che anche in Italia c'è molto da fare (pensate se qualche calciatore italiano s'inginocchiasse per le vittime delle forze dell'ordine italiane o per le vittime del razzismo italiano: pensate che scandalo vero sarebbe). Mi dispiace che tutto debba sempre essere importato acriticamente dall'America, non perché gli americani non abbiano ottimi motivi per protestare come protestano, ma perché sono motivi che non capiamo e comunque non sono i nostri. Ho la sensazione che l'inchino in Italia venga percepito come il blackface, cioè una cosa che non si è capito come funziona tranne che se ti sbagli tutto il resto del mondo ti dà del razzista e quindi anche chi non capisce prima o poi si adegua – laddove capire sarebbe sempre la cosa più importante. Trovo controproducente la pressione mediatica che sospinge giornalisti e politici a etichettare come razzisti i calciatori che rimangono in piedi e che magari semplicemente hanno le idee confuse (anche i calciatori a volte possono averle confuse). I gesti di protesta dovrebbero fare scalpore e generare emulazione, come successe a Carlos, Smith e a Kaepernick; se invece diventano divisivi, rischiamo che un sacco di gente si ritrovi sul lato dei razzisti semplicemente perché erano in piedi quando abbiamo fatto le squadre. Quando vedo un gruppo di calciatori un po' in ginocchio e un po' no, cerco di combattere l'impulso a dividerli in buoni e cattivi; lo stesso impulso che mi faceva odiare Peter Norman, quando ancora non conoscevo la sua storia e l'equilibrio con cui seppe stare dalla parte dei giusti senza togliere loro l'onore della ribalta.

 

(Quasi dimenticavo: oggi 23 giugno ricorre la festa dei 1003 Santi Martiri di Nicomedia, che si presentarono davanti all'imperatore Diocleziano per testimoniare la loro fede, e Diocleziano li fece ammazzare tutti e 1003. Giusto per ribadire che protestare è sempre stato pericoloso. Chi non rischia qualcosa non sta protestando davvero. Vale per tutti noi, in ginocchio o dritti in piedi).

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Albergatori, mettetevi in giogo

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Poi mi rendo conto di non essere l'unica persona al mondo con qualche problema, ma una volta all'anno i giornali potrebbero anche interessarsi ai miei. Per esempio, uno di questi fine settimana mi piacerebbe passarlo al mare, diciamo riviera di Levante. Mi piacerebbe trovare un albergo vista mare, niente di speciale, e potrei pagarlo 80 euro. 

Beh, ci crederete? Ho chiamato tutti, da Lerici a Sestri, e niente: stanze ne avrebbero, ma a 80 non me le vogliono dare. E non credo solo a me. Penso che migliaia di cittadini abbiano lo stesso problema.

Allora ho pensato che forse ci converrebbe metterci d'accordo, federarci, mandare qualcuno a farsi intervistare dai giornali. Qualcuno che dicesse chiaro e tondo che gli albergatori non possono continuare così, devono mettersi in gioco, rinunziare alle sovvenzioni e tirare fuori gli spiriti animali del capitalismo. Ho pensato che magari qualche pesce abboccherebbe, del resto i giornali una volta a questo servivano: a incartarci il pesce. E forse è ancora un po' così. 


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Marina e l'invidia del saio

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18 giugno – Santa Marina di Bitinia, travestita

Non so di chi sia,
è convenzionale ma
è la rappresentazione più
 androgina che ho trovato.
[2013] Santa Marina vergine visse in Bitinia o da qualche altra parte, tra il terzo e l’ottavo secolo, una vita pia e abbastanza noiosa come capita alle monache, con un’importante eccezione: Marina la visse in un monastero maschile, col nome di “Marino”. Orfana di madre, Marina si nascose nel saio per restare vicina al padre che aveva deciso di entrare in un monastero. Come eccezione non è nemmeno così eccezionale: di sante travestite, soprattutto in area bizantina, ne fiorirono diverse. Santa Eufrosina, Santa Matrona, Sant’Anna, Santa Eugenia, Sant’Anastasia (che aveva fatto perdere la testa a un imperatore e si nascondeva dalle ire della di lui moglie), Santa Teodora, e chissà quante altre, l’invidia del saio era insomma una patologia diffusa e non c’era probabilmente monastero senza la sua mascotte. Un sistema per scansare i sospetti era dichiarare di essere eunuco; questo poteva spiegare la voce acuta e la difficoltà a far crescere una barba monacale. Sempre che ce ne fosse il bisogno. Nel caso di Marina, il travestimento fu così efficace che la santa fu accusata di aver messo incinta una cameriera. 

L'episodio un po’ boccaccesco fece il giro del mediterraneo e ci è arrivato in dozzine di versioni diverse. In sostanza, il giovane Marino/Marina, già stimato da tutti i confratelli per la rettitudine e le virtù eccetera, viene inviato da qualche parte insieme con una delegazione di monaci. Nella locanda dove pernottano, un soldato giunto nottetempo stupra la figlia dell’oste. Quando i genitori se ne accorgono è troppo tardi, il soldato è già tornato alla tenebra donde è venuto, e la fanciulla è disonorata per sempre. L’unica è incolpare qualcun altro; in questo sono fortunati, perché Marino, l’irreprensibile Marino, denunciato davanti al suo superiore, non osa difendersi. Anzi, a un certo punto confessa la sua impossibile colpa. In questo possiamo ravvedere il masochismo tipico del folle di Dio, che decide di caricarsi delle colpe degli altri, ma anche un atteggiamento più prosaico: Marino aveva ben altro da temere che un’accusa di violenza sessuale, robetta. Al risarcimento ci avrebbe pensato il monastero. Quello che rischiava veramente, Marino/a, era il rogo per travestitismo: indossare indumenti non confacenti al proprio sesso era peccato mortale, e mille anni dopo sarebbe stato ancora il cardine di tutto il processo-farsa a Giovanna d’Arco. Marina insomma è una peccatrice, che diventa santa proprio in quanto peccatrice: una contraddizione che si spiega soltanto se immaginiamo la sua storia all’incrocio tra due civiltà diverse.

Il Vangelo di Tommaso prometteva il Regno dei Cieli a “ogni donna che si farà uomo” – ma fu escluso abbastanza presto dai testi canonici. Quando la storia di Marina comincia a diffondersi nel Mediterraneo, il cristianesimo è già una cultura egemone che aspira prima d’ogni cosa all’ordine: donne e uomini se ne stiano al loro posto. Ma il nocciolo della storia contiene ancora l’anima del cristianesimo degli inizi, una setta di folli che in attesa di una fine imminente avevano abolito la proprietà e le differenze di ceto e di genere. Marina nel frattempo deve abbandonare il monastero, ma pazienza: basta trasferirsi lì nei pressi, vivere rettamente e aver pazienza, prima o poi l'avrebbero riaccolto/a – figurati se lo bandiscono a vita per uno stupro, uno stupro solo? figurati.

Nove mesi dopo, la sorpresa.

Marino/a si trova un fagotto davanti alla porta di casa. Non le resta che improvvisarsi padre. Con che latte? Qui le versioni divergono: chi s’immagina una miracolosa montata lattea nella vergine-monaco, chi suggerisce che il latte glielo portassero i pastori. Preferisco quest’ultima: mi lascia il sospetto che una storia del genere possa essere capitata davvero. Marina cresce il figlio non suo come un padre, avviandolo ovviamente alla carriera monacale; e ovviamente se lo porta con sé quando i confratelli decidono di riammetterlo, a tre anni dal fattaccio. Continuerà a mostrarsi un esempio di rettitudine e virtù per il resto della sua esistenza; il suo segreto sarà scoperto soltanto quando i monaci ne spoglieranno il cadavere per pulirlo. Questo aspetto della storia a un certo punto divenne un po’ scabroso (monaci scoprono vagina in un cadavere), sicché nacque la variante del biglietto: prima di morire Marina avrebbe lasciato scritto: “sono una donna, ciao, non fate troppi pettegolezzi”, o qualcosa del genere. Noi ovviamente preferiamo la scena in cui i monaci si trovano davanti alla vagina di un cadavere:

“Ehi, aspetta, ma l'affare dov'è?”

“Non capisco. Forse è molto piccolo”.

“Pure pare lo sapesse usare”.

“Zitto! Cerca bene, dev’esserci”.

“Ma succede così quando muori? Ti si ritira?”

“Miracolo!”

“Ma sta’ zitto! Questa è una vagina”.

“Che cosa?”

“È una vagina, ti dico”.

“Fratello, non può essere!”

“Invece è così”.

“Come fai poi a esserne così sicuro?”

“Ne... ne vista una, da ragazzino a Tessalonica”.

“A Tessalonica?”

“Da ragazzino. Quella. È. Una. Vagina”.

“Io non sarei così sicuro, fratello, di quel che hai visto da ragazzino in un bordello a Tessalonica”.

“Ehi, ritira quello che hai detto”.

Segue rissa. Per cercare di disbrigare il bandolo, i monaci tornano alla locanda fatale. L’oste cade dalle nuvole; la figlia invece confessa durante una crisi isterica, o come si diceva allora, esorcismo. San Marina è patrona delle gravidanze difficili, dei genitori non standard, e si invoca per far sgorgare l’acqua o il latte. Il nome l’ha resa molto popolare tra i marinai, i monaci del mare, anche loro spesso inclini a favoleggiare di fanciulle travestite, compresse in abiti da mozzo. Dopo il crollo dell’Impero Bizantino, Venezia ne volle a tutti i costi le spoglie e le trovò, ma non fu sempre un’ospite all’altezza.
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Al fiol dal mecanic

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Nella macchina nuova si è accesa una spia enorme, una spia del motore. Al telefono il concessionario ci tranquillizza, se la luce è arancione non è niente, portatecela e fissiamo un appuntamento. Ma è enorme. È il motore. 

Apro il cofano, non sembra neanche un motore da tanto che è pulito, brilla quasi. Dov'è la lancia dell'olio? Sembra che non ci sia olio. Gripperà sulla strada del concessionario, io lo so, ero il figlio del meccanico, io. Sono cresciuto respirando nafta, capivo dal rumore se stava parcheggiando un diesel o un motore a scoppio, ma siete sicuri che non picchia in testa tra due isolati? Ma sì dai, fissiamo un appuntamento.

E dàgli col fissare gli appuntamenti, cosa siete diventati, parrucchiere? Adesso la porto e vediamo.

C'è un'officina enorme dietro la concessionaria, ma non puzza di officina. L'odore di olio frusto e benzina, la morchia, non si sente più. Non è neanche la prima officina dove non riesco a sentirlo, ma almeno qui le piastrelle del pavimento sono rettangolari e rosso mattone, almeno quello. Ci sono computer dappertutto, il tizio mi ascolta con un orecchio e con un altro ha già attaccato un laptop a uno spinotto misterioso sotto il volante. Un tizio lo sta tormentando perché ha testato il suo suv con tre tester diversi e continua a dargli un messaggio 404 "problemi al sistema cinematico", cos'è il sistema cinematico? mi vengono in mente gli avengers e mi vergogno.

Dove sono i ripostigli a rotelle pieni di chiavi inglesi buttate alla cazzo, dove sono i crick mobili a forma di enormi monopattini di ghisa, dov'è il figlio deficiente del gestore che gira in skate in braghette in mezzo agli attrezzi dov'è la mia infanzia.

Non era neanche il Duemila quando m'imbattei in una delle prime barzellette on line, c'era Bill Gates re del mondo che spiegava che se la Mercedes negli ultimi dieci anni avesse fatto i progressi nel suo campo della Microsoft, le macchine volanti sarebbero state pronte a conquistare la luna. Al che gli ingegneri della Mercedes rispondevano che se avessero fatto nel loro campo i progressi della Microsoft, ogni auto si sarebbe fermata in mezzo all'autostrada con il segnale: spegnere e ricominciare l'autostrada dall'inizio. La trovavo molto divertente e oggi ci sono dentro.

Mio padre dopo una giornata di duro lavoro si grattava la morchia dalle mani con una pasta rugosa che non so nemmeno se è ancora in commercio. Quando confrontavo le mie mani con quelle degli adulti, mi sembravano strumenti completamente diversi e dubitavo che sarei mai cresciuto, anche mio padre suppongo dubitasse. Avevamo ragione.


Già fine anni Ottanta suo fratello non vedeva più il futuro nell'autoriparazione e lo convinse a investire in autogrù più grandi che caricavano qualsiasi cosa, alzavano i silos in mezzo alla pianura, arrivavano, puntavano sei piedi a terra ed estraevano questo braccio superfallico con scritto sopra: Tondelli. Alla Festa del Lambrusco il braccio svettava sopra il campanile, reggeva una vecchia botte di legno, voi lettori modenesi l'avete vista di sicuro ma con la ricordate. Con quel che bevevate. 

D'estate quando avevo vent'anni ogni tanto mi portava con sé in un cantiere, lo aiutavo a muovere qualche leva, una volta poi tornammo a casa e non so dov'era il resto della famiglia, forse al mare? Io tirai fuori dallo scantinato una boccia di bianco e vomitai tutto l'indomani. Tuttora non posso respirare nei dintorni di chi ha aperto un Bianco di Castelfranco (effettivamente un vino da sciagurati). Ero già allergico a tante cose, mio padre dovette concludere che lo ero anche al lavoro e non mi portò più. Spiegargli che ero semplicemente un ventenne coglione sarebbe stato troppo doloroso.

Ancora vent'anni dopo, mio padre mi controllava l'olio e non importa dove mi trovassi, a che ora e in che situazione, io sapevo che mi bastava chiamarlo e sarebbe arrivato, con una gru o un carro attrezzi o quel che serviva, mi avrebbe appeso un gancio e mi avrebbe sollevato di peso da qualsiasi fossato, da qualsiasi problema, senza dirmi niente, perché era mio padre e non doveva mai dirmi niente. Doveva salvarmi e basta. 

E ora eccomi qui. Alla fine con la macchina non era niente: uno scompenso di pressione in un affare, un falso positivo, invece l'olio era ok.
"Eh io temevo l'olio".
"Si preoccupano tutti per l'olio. Comunque se succede di nuovo telefona, e..."
"Fissiamo un appuntamento".
"Esatto sì grazie".
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It's getting better giovedì sera a Carpi

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Buongiorno a tutti. Giovedì sera 10 giugno alle 19:30 (le vere 19:30, ché bisogna finire presto) presenterò per la prima volta dal vivo di Getting Better a pochi metri da dove l'ho scritto, cioè al Mattatoio di Carpi. Accorrete puntuali, distanziati e mascherati. 

 


Non preoccupatevi, non ci sono solo io che parlo ma anche un po' di musica anche se non posso dire di che genere. 

Colgo l'occasione per segnalarvi che, in occasione dell'80esimo compleanno di Bob Dylan, Niccolò Vecchia ha organizzato uno speciale su di lui su Radio Popolare chiedendo ad alcuni dylaniti italiani qual è il loro disco preferito. (L'ha chiesto anche a me) (non vi dico qual è, dovete sentire il podcast).

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Breve invito a non speculare sui suicidi

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State tutti parlando di un suicidio e non si fa. Peggio: state cercando di fare politica con un suicidio, ed è una mossa disperata. Cioè non dico che non possa funzionare – talvolta il mondo è stato cambiato anche dalle discussioni scatenate da un suicidio, abbiamo una manciata di esempi, quindi è vagamente possibile – ciò che invece è statisticamente sicuro è che discutendo di suicidi, si provocano altri suicidi: il fattore emulazione è molto forte, lo sappiamo da due secoli e non ci è consentito fingere che no.

Sarebbe cosa giusta, ogni tanto, imparare dai nostri errori: abbiamo ripudiato la guerra, abbiamo smesso di considerare il terrorismo una forma di lotta accettabile, nessuno definisce più il sequestro di persona come una valida alternativa alla pastorizia o alla disoccupazione; sarebbe ora che un mero calcolo costi/benefici ci portasse a censurare anche il suicidio come pratica cento volte più nociva che utile. 

Liquideremo dunque la pratica del suicidio come gesto antisociale, anche quando non lo è: le lettere dei suicidi, per quanto toccanti non le leggeremo (o lo faremo di nascosto), e in società non ne parleremo se non per esprimere superficiali note di biasimo. La depressione è una malattia, merita rispetto e trattamenti sanitari, non morbose attenzioni di romantici fuori tempo massimo. Per combattere chi fa violenza su di sé la faremo anche noi a noi stessi, liquidando Majakovskij come un depresso, Mishima come un fanatico, e Jan Palach avrebbe dovuto risparmiare la benzina per tirarla a un carro sovietico.  Non ascolteremo le canzoni su di loro; considereremo decadente chi le scrive e speculatore chi ci guadagna. Noi canteremo piuttosto come Battiato (e Sgalambro): Questa parvenza di vita ha reso antiquato il suicidio; questa parvenza di vita, signore, non lo merita. Solo una migliore.

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La figlia di San Pietro, o forse no

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31 maggio – Santa Petronilla martire, I secolo

Di tanti santi non ci resta che un nome sul muro. È comunque notevole quante storie siamo riusciti a inventarci, con quel nome e poco altro. L'esempio limite sono sempre le undicimila vergini di Sant'Orsola, nate tutte e undicimila da un errore di trascrizione; quanto a Santa Petronilla, a un certo punto si ritrovò su altari importanti semplicemente perché il suo nome ricordava quello di Pietro: e in seguito, per lo stesso motivo, fu accantonata. Sic transit gloria coeli.

 

L'affresco della matrona, nella Catacomba di Domitilla.

Il nome Petronella mart[yr] si legge in quello che forse è il più antico affresco cristiano che si sia conservato, risalente al IV secolo, presso la Catacomba di Domitilla, sulla via Ardeatina. Petronilla è raffigurata mentre indica alla matrona Santa Veneranda una pergamena (le Scritture?) e forse la conduce in cielo. Tutto qui. "Petronella" però è un nome curioso. L'origine non è difficile da rintracciare: la gens Petronia era una delle più importanti famiglie Romane nel periodo repubblicano e imperiale. Oggi la ricordiamo soprattutto per quello scrittore sconcio, ma fior di senatori e latifondisti hanno portato il nome Petronius. Prima che ironizziate sulla scarsa fantasia di uno di questi Petroni che avrebbe chiamato sua figlia "Petronilla", cioè piccola Petronia, vi devo rammentare che non funzionava così, cioè i Romani non davano un vero nome alle loro figlie – o forse lo davano, ma era talmente privato che non veniva mai divulgato agli estranei, né registrato dai documenti, e quindi non lo conosciamo. In società le donne venivano chiamate col femminile del nome gentilizio del padre, che in periodo imperiale assume spesso la forma diminutiva: per cui se nascevi figlia di un Domizio eri Domitilla; se invece ti dava la vita un Petronio, eri Petronilla e stop. Se poi avevi sorelle, per distinguerti potevano chiamarti "Prima", "Secunda", "Tertia", a seconda dell'ordine dell'arrivo. Possiamo trovare l'usanza un po' barbara (in realtà furono i barbari ad abolire l'usanza), ma senz'altro ha risparmiato a generazioni di genitori quei nove mesi di discussioni. Di Santa Petronilla, assente dai più antichi martirologi, si conosceva insomma soltanto la famiglia d'origine, e nient'altro: ma a partire dal V secolo anche questo dettaglio fu rimosso, in favore di un'ipotesi più suggestiva accreditata a partire dalla Passione dei martiri Nereo e Achilleo: che il nome "Petronilla" cioè non discendesse da "Petronio", bensì da "Pietro", il primo tra gli apostoli nonché fondatore della Chiesa di Roma. Proprio a Roma, mentre esercitava il suo apostolato, Pietro avrebbe avuto una figlia, che sarebbe morta martire come lui. Ovviamente non ci sono prove, ma se è per questo anche quelle che collegano Pietro Apostolo a Roma sono molto labili.

Ne abbiamo già discusso: non c'è un solo versetto del Nuovo Testamento che affermi esplicitamente un passaggio di Pietro a Roma. Viceversa è proprio Pietro a concludere la sua Prima Lettera porgendo i suoi saluti da Babilonia. "Babilonia" ai tempi di Pietro era ancora uno dei nomi di una città reale, ovvero Seleucia-Ctesifonte sul fiume Tigri; per estensione poteva indicare tutta la regione mesopotamica, dove davvero Pietro potrebbe essersi spinto dopo dopo il suo soggiorno ad Antiochia di Siria, questo sì attestato dagli Atti degli Apostoli. E allo stesso tempo "Babilonia" potrebbe essere un riferimento in codice a Roma in quanto tronfia capitale del peccato, immediatamente decifrabile per tutti i cristiani e appassionati lettori di Isaia. Così almeno hanno voluto leggerlo nei secoli successivi i cristiani romani e in generale tutti gli autori a cui premeva insistere sul primato petrino. Certo, è curioso che Luca, l'autore degli Atti, a un certo punto abbandoni completamente Pietro e si concentri soltanto su Paolo di Tarso, che nel finale del libro arriva a Roma ed è messo agli arresti domiciliari. Se in quel periodo anche Pietro fosse già stato a Roma, Luca ce lo avrebbe detto: a meno che Pietro non fosse in quel periodo un clandestino, un ricercato, ed è possibile anche questo.

Comunque tutte le successive avventure di Pietro nell'Urbe sono contenute in testi che già la Chiesa dei primi secoli liquidava come apocrifi. La presenza di Pietro a Roma era però necessaria per giustificare il principio del primato del vescovo di Roma su tutti gli altri presuli della cristianità: ogni indizio in tal senso era prezioso. Si può immaginare quanto avrebbero apprezzato, i successori di Pietro, una sola iscrizione di epoca imperiale recante il nome dell'Apostolo: ma non la trovarono. In compenso trovarono una Petronella mart.: meglio che niente.

L'antica Basilica di San Pietro in un'incisione rinascimentale: il primo edificio a pianta circolare dall'alto era la Cappella di Santa Petronilla, già mausoleo di Onorio.

La necessità di accostare Petronilla a tanto padre portò alla produzione di ulteriori leggende in cui San Pietro guariva la figlia da questo o quel male. Nell'ottavo secolo papa Stefano II decide che Petronilla deve riposare nei pressi del padre, sulla cui supposta tomba già in epoca costantiniana era sorta l'Antica Basilica. La traslazione viene effettivamente ordinata dal successore, papa Paolo I: le ossa attribuite a Petronilla martire vengono spostate dalla catacomba a un edificio che sorgeva a fianco della Basilica. Si trattava dell'ultimo mausoleo imperiale di Roma, quello dell'imperatore Onorio (V secolo), da lì in poi conosciuto come Cappella di Santa Petronilla.

Nel frattempo sta finendo l'ottavo secolo. Il papato deve scegliere da che parte stare tra Franchi e Longobardi, e questi ultimi danno meno affidamento, anche solo perché a Roma li conoscono meglio. Quando Carlo non-ancora-Magno arriva a Roma la prima volta, papa Adriano lo porta in visita anche alla tomba di Petronilla, la cui cappella viene ora dedicata ai re Franchi. È un piccolo gesto di enorme significato: il regno dei Franchi è adottato come un figlio dalla Chiesa, così come Petronilla è figlia di Pietro. E siccome sulla tomba di Petronilla pare fosse inciso un delfino, questo simbolo entrerebbe a far parte dell'araldica imperiale, dove sarebbe stato associato soprattutto alla contea di Vienne sul Rodano, dal XIV secolo in poi destinata all'erede al trono di Francia, conosciuto fino all'Ottocento come il "Delfino".

Petronilla insomma ha le carte in regola per diventare la patrona di uno dei più importanti regni della cristianità: e invece dal decimo secolo in poi la sua fama si eclissa. Nessun re Franco e poi francese viene effettivamente tumulato nella cappella; il nome "Petronilla" resiste ancora in quanto associato all'edificio, finché nel Rinascimento gli umanisti non decidono che doveva trattarsi di un antico Tempio di Apollo e non cominciano a chiamarlo così. Nel 1519 viene comunque demolito senza troppi rimpianti per far spazio al complesso architettonico della nuova Basilica. Nel frattempo Petronilla era tornata a essere poco più di un nome inconsueto su qualche antico documento. Cos'era successo? In breve, l'idea che Pietro avesse avuto una figlia era ormai diventata imbarazzante.

La cosa in sé non era scandalosa: nei vangeli di Marco e Luca, Gesù guarisce la suocera di Pietro, che quindi come minimo era sposato. Nella sua Prima Lettera, proprio mentre saluta da Babilonia, Pietro cita un Marco come "suo figlio", quindi non era impossibile che ne avesse avuto altri. Impossibile no, ma poco edificante per i suoi successori che dall'Anno Mille in poi insistono sempre di più sul celibato sacerdotale. È una fase in cui papi importanti come Leone IX e Gregorio VII cercano di recuperare la credibilità di un clero sempre più corrotto. I mali del secolo si chiamano simonia e nicolaismo: il primo è la compravendita di titoli ecclesiastici, molto ricercati dalle nobili famiglie che dovevano piazzare i figli non primogeniti esclusi dall'asse ereditario. Il risultato è che molti seggi vescovili anche importanti erano occupati da figli di papà non esattamente portati al sacerdozio, con una conseguente rilassatezza dei costumi che è facile immaginare. Eppure il nicolaismo era una piaga anche peggiore, e consisteva nell'abitudine dei sacerdoti a prendere concubine o addirittura a sposarsi, lasciando dunque eredi, malgrado già da secoli vescovi e padri della Chiesa lo sconsigliassero fortemente, quando non lo vietavano proprio. Questi divieti venivano troppo spesso ignorati e i preti continuavano a far figli a cui spesso cercavano di intestare parte dei propri benefici, il che minava alle fondamenta tutta l'istituzione.

Gregorio VII, al secolo Ildebrando di Soana

Non si trattava tanto di una questione di castità (i sacerdoti non fanno voto di castità, ma appunto di celibato): a scandalizzare i laici di ogni classe sociale era il modo in cui questi chierici sposati amministravano i beni della Chiesa, badando più agli interessi famigliari che a quelli della diocesi o della parrocchia. Gregorio VII reagì alla questione con intransigenza, pretendendo che i vescovi rispettassero e facessero rispettare il principio: con il suo papato, la Chiesa fece un passo definitivo verso la trasformazione in quella gerarchia di celibi che è tuttora, un'enorme organizzazione che assorbe benefici e donazioni in ogni continente senza doverne mai cedere una parte a nessun erede legale. Ma a quel punto l'idea che il primo degli Apostoli e il primo dei Pontefici romani avesse avuto una figlia diventava scomoda da gestire. Di questa Petronilla nulla di certo si sapeva, tranne che aveva il nome del padre e in virtù di questo si era meritata una cappella tutta sua di fianco alla Basilica più importante: non un buon esempio per una Chiesa che volesse respingere il nicolaismo e il nepotismo. Già in qualche leggenda più tarda Petronilla è soltanto una figlia adottiva, o una convertita che assume il nome dell'Apostolo in modo non dissimile da come gli schiavi affrancati derivavano il loro nome da quello dell'ex padrone che li aveva liberati. La stessa Francia si dota col tempo di Santi più blasonati e storicamente attestabili come Re Luigi IX o Giovanna d'Arco.  Quest'ultima rischia per un soffio di sovrapporsi a lei anche nel calendario, dove Petronilla è festeggiata nell'ultimo giorno di maggio. Giovanna invece fu bruciata a Rouen il giorno prima, il 30 maggio del 1431.

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