Scritto in mancanza di ChatGpt (in attesa della sua resurrezione)

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 – In questi giorni ho letto molti pareri sul pronunciamento del Garante della privacy contro ChatGpt: alcuni a favore, alcuni contro; alcuni competenti, molti no. Sarò sincero: non ci ho capito quasi niente. Forse Chat Gpt mi saprebbe spiegare meglio, ma probabilmente no. In questa fase la mia principale preoccupazione è che i miei studenti cerchino di usare come motore di ricerca uno strumento che non fa che copia-incollare frasi fatte che sembra sempre abbiano un senso, anche se non ce l'hanno. Soprattutto se non ce l'hanno. Tutto un rumoreggiare di idee verdi che dormono furiosamente, sognando i nostri dati sensibili. Il linguaggio da questo punto di vista è veramente una delle invenzioni più strane che abbiamo fatto. In seguito abbiamo inventato cose più pratiche – la locomotiva, il computer – cose che perlopiù fanno quello per cui le abbiamo inventate. Il linguaggio non sembra comportarsi così (forse l'abbiamo inventato in sogno?): il linguaggio, quando assolve alla sua funzione teoricamente primaria, che è informare qualcosa di qualcuno, lo fa quasi per una pura coincidenza, e così succede con ChatGpt: quello che ci piaceva morbosamente del dialogare con lui era il fatto che ogni tanto sembrava umano, come una specie di miracolo che però si svelava subito come fallace. Istintivamente, rifuggiamo da qualsiasi cosa che finga di essere umano; altrettanto istintivamente, non resistiamo all'impulso di verificare se magari un po' di umanità c'è – se poi fosse benevola e servizievole, che bello che sarebbe (come se gli umani fossero mediamente benevoli e servizievoli). Che Omero con le Sirene alludesse a questo? È chiaro che un'intelligenza ostile utilizzerebbe proprio uno strumento come ChatGpt per soggiogarci. È persino possibile che questa intelligenza ostile sia il capitalismo.


– Contrariamente a quello che molti credono, il Garante non ha bloccato ChatGpt sul territorio italiano: ha semplicemente richiesto di spiegare come facesse ChatGpt a ottemperare a una serie di normative sul trattamento dei dati che peraltro valgono per tutta l'Unione Europea. Di fronte a queste richieste ChatGpt si è piantata come faceva talvolta, magari proprio nel momento in cui volevamo chiederle chi fosse il più grande scacchista tra i calciatori fiamminghi: tranne che stavolta non si è ripresa più. Probabilmente ChatGpt non sta ottemperando alle norme comunitarie sul trattamento dei nostri dati. Probabilmente si prende le mie informazioni sensibili (ma gliene ho date?) e le usa per allenarsi alle prossime risposte alle prossime stupide domande che gli facciamo. Magari una volta per ridere gli ho chiesto: conosci il blogger Leonardo? E siccome no, non mi conosce (del resto non 'conosce' veramente nulla) potrei avergli io raccontato qualcosa di me, di buffo o di vero o di personale, qualcosa che adesso sa e potrebbe risputare fuori in una prossima conversazione. Certo molto dipende dal fatto che continuiamo a prendere ChatGpt per un motore di ricerca – prendiamo tutto per un motore di ricerca ormai, questo è il mese delle prove Invalsi, il mese in cui puntualmente mi scontro con l'alfabetizzazione tecnologica dei miei studenti, che con l'introduzione degli smartphone è precipitata: interagiscono con i software come i bambini dei film di fantascienza anni '50 si comportavano coi robot maggiordomi, dicono Cortana fammi questo anche davanti a un Windows Vista. L'idea che un robot maggiordomo possa abusare delle confidenze del suo padrone viene gestita dalla maggior parte degli utenti come una scrollata sulle spalle, la cui versione telematica è quel clic indispettito che mettiamo ogni volta che ci troviamo davanti a un banner che ci chiede se siamo consapevoli che stiamo cedendo i nostri dati – uffa, sì, che palle. Immagino che anche il blocco di ChatGpt si risolverà così, con qualche banner in più. Nel banner si dovrebbe leggere molto bene che ChatGpt non è un motore di ricerca (come se la maggior parte degli utenti sapesse cos'è un motore di ricerca), che non è tenuto a dire la verità anche perché non la conosce: che l'unica cosa che sa fare è pasticciare con tutte le bugie che gli diciamo. E per quanto sarà grosso il banner, e onnipresente, dopo un po' non lo leggeremo più, la maggior parte di noi non lo leggerà mai. Non è così che funzioniamo. Non impariamo a stare al mondo leggendo le istruzioni.

– Una volta lessi un libro (una volta, sapete, ero capace). Questo libro affrontava la crisi della scuola, che esisteva già allora, in un modo un po' diverso, ponendosi il problema: ma se stessimo sbagliando tutto? Nel senso che noi a scuola insegniamo appunto una serie di istruzioni molto vaghe, generali, che di solito non servono a nessun compito specifico. C'è una serie di motivi storici per cui facciamo così, ad esempio fino a qualche generazione fa la scuola era concepita soltanto per la classe dirigente, che appunto doveva dirigere, non svolgere mansioni specifiche. Ma anche in seguito, insegnare cose troppo tecniche rischiava di essere una perdita di tempo perché non si sa mai poi nella vita cosa uno si trova a fare, e quindi la scuola preferiva darti un quadro generale che magari in certi casi era utile davvero. Per questo motivo la scuola aveva inventato ad esempio la grammatica (sì, l'hanno inventata i maestri) che se uno ci pensa è un tentativo di lingua universale, che non esiste e forse nemmeno funziona, però mette assieme fenomeni che esistono in tantissime lingue. Ad esempio il complemento oggetto esiste in tutte le lingue che conosco (sei o sette le conosco), in alcune se non lo conosci sei fuori alla prima frase, in altre puoi placidamente ignorarlo per tutta la vita senza che nessun parlante se ne accorga, però indubbiamente ha un senso insegnare a tutti quelli che parlano lingue indeuropee il complemento oggetto. In linea teorica, se insegni benissimo a qualcuno tutta la sintassi di una lingua indeuropea, lui poi avrebbe uno strumento che gli consentirebbe di imparare molto bene qualsiasi altra lingua indeuropea in breve. Questo in linea teorica. In pratica nessuno impara le lingue così, nemmeno al liceo classico. Si imparano chiacchierando, ascoltando la gente parlare e cercando di rispondere, facendo errori e correggendosi: persino a scuola ormai abbiamo accettato che le lingue vive si imparano così, da più di cinquant'anni. Tutto si impara così. La letteratura si impara leggendo tanto, la danza ballando tanto, la guerra combattendo tanto; non è che la teoria non aiuti ma ha un ruolo, quando ce l'ha, ancillare. Anche ChatGpt, se ho capito bene, ha imparato a parlare così: ha letto tantissimo testo e non è concettualmente diversissimo da qualsiasi software che cerca di immaginare la parola che stai scrivendo o la seguente; la differenza è che il software che completa il tuo messaggino trova una parola alla volta, mentre ChatGpt può andare avanti per molti paragrafi. Dietro non c'è nessuna "intelligenza" nel senso italiano del termine (in inglese "intelligence" ha una sfumatura più pratica, meno filosofica), non c'è nessuna Skynet che possa o voglia ribellarsi all'uomo; non c'è coscienza, solo più efficienza nel mettere insieme tonnellate di testo: qualcosa che fino a pochi mesi fa consideravamo l'ultima frontiera dell'umanità, ciò che solo noi nell'universo eravamo in grado di fare. Ma siamo sempre noi: abbiamo solo trovato, come sempre facciamo, un modo più efficiente di produrre lenzuolate di testo che credevamo dovessero rimanere un patrimonio artigianale. Testi ridondanti, testi ovvi, luoghi comuni, nozioni completamente sballate: tutta roba che sapevamo già fare prima, la differenza è che ora anche queste stronzate possiamo produrle con la pressione di un tasto. Una cosa in cui ChatGpt sembrava già molto efficiente in italiano era, mi dicono, la produzione di progetti didattici. 

– Mi è già capitato di scriverlo: sono sempre stato convinto che la letteratura sia un disagio linguistico. Non dico che non esistano scrittori che funzionano proprio come ChatGpt, qualcuno gli dice: fammi un giallo middlebrow, loro si mettono alla tastiera e tictic, in due settimane è pronto ed è pure bello. Io onestamente li invidio quegli scrittori lì, anche se di rado li leggo (forse proprio per l'invidia). Immagino che abbiano imparato a scrivere gialli leggendone tanti, magari di nascosto in classe mentre un povero insegnante cercava di introdurli ai rudimenti della narratologia. Gli scrittori che mi dicono davvero qualcosa sono in linea di massima scrittori che non riuscivano veramente a dire quello che volevano dire: ci provavano, ma qualcosa non funzionava. Scrittori spesso disgrafici, che si trovavano male nella lingua in cui dovevano comunicare; scrittori che tentavano di dire qualcosa di nuovo e nella maggior parte dei casi fallivano. Suppongo che ChatGpt possa imitare anche il loro stile, ma appunto: sarà sempre un'imitazione. Potremo chiederle, ehi ChatGpt, finiscimi l'Amerika di Kafka, e ChatGpt ci risponderà: sei sicuro? Ora so che leggi Kafka, acconsenti al trattamento di questo dato? Uffa sì ChatGpt, ma adesso dicci come finisce l'Amerika di Kafka. Non posso dirti come finisce, perché Kafka non ha voluto finirlo e anzi desiderava che fosse distrutto; quel che posso fare è una congettura, basata sui primi capitoli che... sì, sì, ho capito, ma adesso scrivi. E clic-clic, suppongo che già ora ChatGpt potrebbe completare l'Amerika di Kafka. Ma non possiamo dirle: scrivici un libro sull'ansia di vivere in Europa nel 2023. Ovvero, possiamo. Ma sarebbe un libro pieno di frasi fatte e sciocchezze senza senso, e a editarlo si farebbe più fatica che a scriverlo daccapo. Un po' mi dispiace, perché nemmeno io ne sono capace, il che dimostra al massimo che non sono un'intelligenza artificiale. Ma non significa che io sia un'intelligenza, o che io sia naturale. Questo è il tipo di battutina con cui di solito finisce questa tipologia di testi, quindi ciao.

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Il periodo Polydor e l'album perduto (1968/69)

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(Prosegue la discografia di Franco Battiato. 

L'episodio precedente: i primi singoli

L'album successivo: Fetus)

Nell'estate del 1968 "Franco Battiato" è un nome ormai ricorrente nei cartelloni delle balere milanesi: in classifica però non lo ha ancora visto nessuno. Dopo la deludente esperienza con la Jolly Records, è un'etichetta della Philips, la Polydor, a interessarsi alle sue proposte. Con la Polydor Battiato accantonerà i toni 'esistenzialisti' dei singoli Jolly e cercherà di accreditarsi come cantante confidenziale. È una scelta che ottiene subito un buon risultato (almeno il primo singolo, È l'amore, finalmente porta Battiato in radio) ma di cui in seguito si vergognerà profondamente – dovranno passare almeno trent'anni perché Battiato ritorni con Fleurs al genere confidenziale, accettando un passato da cui fino a quel momento si era ritratto con esibito fastidio. Anche in seguito, nessun brano del periodo Polydor è stato riabilitato, reinciso o interpretato dal vivo: al punto che si ha la sensazione, riascoltando queste canzonette, di fargli un torto. A imbarazzarlo, più che le canzoni in sé, doveva essere stata la posa da chansonnier che gli era capitato di assumere: una "maschera inutile" che gli aveva consentito di rimanere un po' sulla breccia, ma che col senno del poi andava liquidata come una perdita di tempo. 

In effetti gli esordi compositivi di Battiato (finalmente iscritto alla Siae) sono più frustranti di quelli di altri autori, che sin dalle prime prove dimostrano la propria identità: si fa davvero molta fatica a trovare Battiato in È l'amore o Sembrava una serata come tante. È come se nel 1968 Battiato non esistesse ancora: le canzoni che scrive col chitarrista Giorgio Logiri sono completamente funzionali al contesto in cui si è ritrovato. Sono scritte per passare alla radio o per essere suonate in balera. Per cercare l'autore Battiato dobbiamo ridurci a far caso agli inciampi, ai motivi per cui dopo il primo singolo gli altri brani in effetti in radio non passavano (e magari in balera facevano il vuoto); l'ingenuità dei testi, i vezzi stilistici (quei ritornelli rallentati), le incursioni rock di Logiri, che sogna il rock inglese ma deve anche suonare le mazurke. 

1968: È l'amore (#244) 

Guarda le sere che passo se non sei con me. Di fronte a È l'amore bisogna avere pazienza e ricordare che se in seguito abbiamo potuto godere di Battiato, del privilegio di ascoltarlo e di invecchiarci un po' assieme, lo dobbiamo anche a questa canzonetta senza visibili pretese, con la fisarmonica nel ritornello addirittura, e notate che era il 1968, il maggio parigino, le pantere nere alle Olimpiadi mostravano il pugno e Battiato cantava È l'amore su una base di fisarmonica, nella vita può capitare anche questo. È l'unico singolo che riuscì a mandare in classifica negli anni Sessanta (si parla di "centomila copia vendute"), sono numeri che oggi sembrano impossibili ma al tempo forse no. È quello che gli permise di tenere insieme un complesso, "il suo complesso", e andare avanti con le serate. Non è neanche una canzone così terribile, e tradisce già uno dei temi ossessivi che FB porterà con sé per tutta la carriera, l'associazione dell'amore alla stagionalità. Forse Battiato aveva già dimostrato di avere qualcosa da dire più interessante di "è l’amore che mi prende piano piano per la mano", però "mentre l’acqua dietro ai vetri già discende lentamente" prometteva bene. Il brano fu coverizzato sia in francese (Formidable) che in inglese (Winter Love). 


1968: Fumo di una sigaretta (Battiato/Logiri, #245) 

L'amore? È meglio se lo sognerai in cucina, l'amore. Il lato B di È l'amore mette a fuoco l'ambiguità della coppia Battiato/Logiri: il primo è ancora un cantante deciso a sfondare nell'ambito sentimentale (l'unico in cui sia immaginabile sfondare in Italia anche in quel 1968); il secondo è un chitarrista infatuato di Jimi Hendrix: una passione che sul lato A si deve per forza contenere, ma esplode poi nel lato B creando quest'ibrido abbastanza peculiare tra Sanremo e il rhythm'n'blues, struggimento d'amore e assoli distorti. Battiato è un ex innamorato deluso dell'amore che rifiuta le avances di una ragazzina – per la verità non le ha proprio rifiutate del tutto, un bacetto c'è stato ma è poca roba, non ti credere, torna a casa bimba, non hai idea. La chitarra dovrebbe sottolineare questo messaggio virile: l'amore è roba da adulti, ti devasta, stanne fuori. È difficile non riderci sopra, oggi, soprattutto pensando a quanto poco si sarebbero adattate ai Battiati successivi le pose sentimentali o machiste. E comunque la canzone non è che giri tantissimo, è una strana chimera che non poteva andare lontano. Ma ci voleva del coraggio, della disponibilità a sperimentare, e Battiato ce l'aveva.
 


1969: Bella ragazza (Battiato/Logiri, #242)

Bella ragazza Occhi d'or è il 45 giri con cui Battiato e Logiri dilapidano il capitale di credibilità acquisito con È l'amore. Accade qui per la prima volta quello che si ripeterà poi in diverse situazioni (ad esempio con Aries L'arca di Noè): appena FB capisce di aver trovato una formula che piace al pubblico, la butta via. In questo caso la dilapidazione avviene su due fronti: su quello testuale, Battiato riparte con la solita tritissima retorica degli amori stagionali – stavolta lui è al mare e lei non c'è, chiamiamola posizione dell'Azzurro rovesciato – e la porta avanti fino all'autoparodia: piove, lui è triste, pensa a lei e non riesce a divertirsi, ma poi nella seconda strofa finisce di piovere e lui ha già smesso di essere triste, insomma credevate che fosse amore ed era meteoropatia. Sul fronte degli arrangiamenti, Bella ragazza è un esempio tipico di cosa succede quando lasciate dei ragazzi volonterosi ma inesperti con un medio budget e un registratore otto piste: un'orgia sonora. Si parte con chitarre, violini e batteria (e un clap di mani riverberato) e si arriva coi fiati e sul finale c'è persino una specie di assolo di tastiera che ha già qualcosa di Fetus. Al centro compare quel vezzo compositivo che compromette ulteriormente la potenzialità commerciale del brano: Battiato rallenta il ritmo nel ritornello. Succederà anche in Vento caldo e non ha molto senso: ma forse è il primo tentativo di realizzare quella sospensione ritmica che riascolteremo poi in Summer On a Solitary Beach o nel Vento caldo dell'estate


1969: Occhi d'or (testo di Paolo Farnetti; musica di Federico Mompellio e Giorgio Logiri, #252)


Laggiù, tra deserti d'or, ho lasciato il cuor. La canzone più folle del Battiato anni '60 – l'unica che lascia presagire le bizzarrie del decennio successivo. Invece nulla di quanto aveva fatto fino a quel momento poteva preparare l'incauto ascoltatore a Occhi d'or, infida già dal titolo – chi sospetterebbe mai, voltando il 45 giri di una canzoncina orecchiabile come Bella ragazza, di incappare sul lato B in una deriva psichedelica del genere, un kolossal in technicolor? È incredibile pensare che Battiato non ne abbia scritto né testo né musica – ma per metterci la faccia e la voce ci voleva comunque un certo coraggio. A questo punto della sua traiettoria, FB è un cantante di medio successo (unicamente grazie al singolo È l'amore) ma soprattutto un onesto artigiano della canzonetta: le scrive, riesce a piazzarle anche all'estero (Bella ragazza avrà una traduzione in inglese, in francese e fiammingo), collabora con Gaber, Maurizio Arcieri, Daniela Ghibli. È il momento in cui forse puoi cominciare ad allargarti un po', a mostrare quello che saresti in grado di fare se non fossi incatenato al formato dei tre minuti. Questo tipo di sperimentazioni erano ammesse soltanto sui lati B, e in Occhi d'or Battiato e il compare Logiri sembrano voler condensare in un solo lato B decine di esperimenti. C'è una varietà di strumenti mai sentita prima (un gong?), un orientalismo che è ancora posticcio ma col senno di poi sappiamo quanto sia anticipatore; il coraggio già progressive di cambiare completamente ritmo a due minuti dall'inizio; e poi, due minuti dopo, cambiare tutto di nuovo con una coda che è copiata di pacca da Hey Jude. Che viaggio.


L'album perduto

Nell'aprile del 1969, pochi giorni dopo aver completato il singolo Bella ragazza / Occhi d'or, Battiato e Logiri entrano nella sala di registrazione della Philips in piazza Cavour a Milano per registrare un intero 33 giri con un'orchestra. Si tratta di un investimento inusuale per il mercato discografico del tempo, tanto che il dirigente che aveva dato il via libera (Maso Biggero) raccontò di essere stato rimproverato dai superiori per i soldi buttati via. Se fosse uscito, sarebbe stato uno dei primi 33 giri italiani a non essere concepiti come una semplice raccolta di singoli (anche se i brani sui due già incisi erano compresi), e avrebbe illuminato di una luce diversa gli esordi di Battiato, dimostrando che anche nel periodo più canzonettistico Battiato non aveva rinunciato alla sperimentazione. Potrebbe persino trattarsi del primo concept album italiano, se le canzoni – come sembra di poter dedurre dalla scaletta dei titoli – raccontano una storia, ovviamente d'amore. L'album però fu bocciato: a decidere che Battiato, dopo il successo non clamoroso di un unico singolo, non valesse l'investimento di un LP, fu Alain Trossat, il boss Philips del tempo: questo almeno a detta di Biggero. Il disco non è propriamente un incompiuto: i brani furono tutti registrati, ma mai incisi su LP. Lo stesso Logiri non li riascoltò mai. Non sappiamo nemmeno quale dovesse essere il titolo. Secondo il fonico Bruno Malasoma avrebbe potuto intitolarsi Mesopotamia o Iloponitnatsoc: due titoli veramente improbabili per il mercato discografico del tempo. 

Conservati nei forzieri della Philips, in seguito rilevata dalla Universal, i nastri furono ritrovati nel 2003 da Franco Zanetti, che sperava di poterli pubblicare in un cofanetto antologico: un progetto contro il quale Battiato si sarebbe opposto "fieramente". La circostanza è raccontata dallo stesso Zanetti in appendice al volume di Carla Spessato, Franco Battiato, Giunti 2021. Dell'album dunque conosciamo solo i brani che in seguito furono pubblicati su 45 giri o altre raccolte. Zanetti ha trovato diverse scalette e dà la sensazione di aver ascoltato tutte le canzoni tranne una misteriosa, Ciao Marlene, che in un primo momento avrebbe dovuto essere la traccia finale del lato B, ma "nessuno dei partecipanti ai lavori se ne ricorda". Potrebbe trattarsi semplicemente di un titolo provvisorio per Marciapiede, che in un'altra scaletta era intitolata La battona.  

È facile immaginare che la bocciatura del progetto sia stato uno dei motivi per cui Battiato nel 1969 decide di stracciare il contratto con la Polydor: da lui volevano soltanto dei singoli e a lui tutti questi singoli di successo non stavano riuscendo. In realtà lo strappo sarebbe avvenuto qualche mese dopo, magari in seguito all'insuccesso di Sembrava una serata come tante


1969: Gente (Bonoldi/Logiri, #246)

Una battuta forse involontaria che ho trovato su Youtube è "Gente è Iloponitnatsoc registrata al contrario", ok, è una battuta per battiatofili spinti; diciamo che Iloponitnatsoc – un frammento di Gente inciso al contrario – rischia davvero di essere relativamente più famoso di Gente, uno dei brani più anonimi che Battiato abbia inciso. La melodia era tutta di Logiri e Battiato stavolta si astenne anche dal partecipare con il testo. Quest'ultimo potrebbe essere il prodotto di un generatore di canzoni d'amore triste: le frasi che Giovanni Bonoldi mette assieme sono di una banalità che sconfina nel nonsense ("Quante notti da solo aspettando l’aurora: fino a domani estate sarà") Battiato le canta senza crederci troppo, suggerendo qua e là una sensazione di autosabotaggio. Il brano sarebbe poi finito sul lato B di Sembrava una serata come tante.

1969: Lume di candela (Battiato/Logiri)

Diverse canzoni dell'album perduto non possiamo semplicemente ascoltarle: non solo Battiato si è opposto fieramente alla pubblicazione, ma non sono state depositate alla Siae. Lume di candela però era depositata, perché già incisa da Daniela Ghibli, ex valletta di Settevoci, che malgrado il cognome evochi subito dune e venti del deserto così cari all'immaginario battiatesco, è nata a Velezzo Lomellina. La versione battiatesca invece fu pubblicata già negli anni Ottanta in un'antologia dell'Armando Curcio Editore. A orecchio non sembra un provino per la Ghibli, ma anzi suona arrangiata o almeno prodotta un po' meglio: segno che davvero per qualche giorno Battiato nella sala Cavour aveva potuto disporre di un budget di tutto rispetto. L'avesse incisa lui, sarebbe stata facilmente il suo migliore singolo del periodo Polydor: un bel pezzo italiano ma con qualche reminiscenza di Procol Harum, che in quel 1969 era il punto di arrivo di chi dal rock cercava di gettare il ponte verso qualcosa di più melodico. Insomma questo Logiri le canzoni stava imparando a scriverle, forse avrebbe dovuto continuare; e lo stesso Battiato qualche passo avanti con le parole lo stava facendo.  

1969: Iloponitnatsoc (Battiato/Logiri)

Il titolo è "Costantinopoli" al contrario, e la canzone è un frammento di Gente incisa al contrario. Tutto qui, e ben tre anni dopo che Napoleon XIV aveva pubblicato  aaaH-aH ,yawA eM ekaT ot gnimoC er 'yehT. Niente di pionieristico, insomma; però qualcosa di decisamente diverso da quanto Battiato avesse fatto fino a quel momento, e di più simile a quello che farà dal '72 in poi. Probabilmente si trattava di poco più di uno scherzo per aumentare il minutaggio del disco: secondo Logiri peraltro l'idea fu sua, non di Battiato. Il quale Battiato comunque non avrebbe più smesso di pasticciare coi nastri rovesciati. Il brano finì pubblicato, per ragioni imponderabili, su un'antologia della Philips, Hit Parade Vol. 2, una cosa che cominciava con gli Aphrodite's Child, passava per Israelites di Desmond Dekker e finiva con Oh Happy Day, per cui persino un Battiato rovesciato tutto sommato poteva starci.  

1969: Lacrime e pioggia (Pachelbel/Pallavicini/Papathanassiou)

Lacrime e pioggia è una cover di Rain and Tears degli Aphrodite's Child, il brano con cui la progressione Pachelbel entra ufficialmente a far parte della musica pop europea – il debito è talmente evidente che l'oscuro compositore è incluso nei credits accanto a Vangelis Papathanassiou. Quando Battiato ci si cimenta, erano probabilmente già nei negozi di dischi un paio di cover italiane con lo stesso testo di Pallavicini. Rispetto ai Trolls e ai Quelli, Battiato ha l'impudenza di dare maggior risalto alla sua prestazione vocale, ovvero di sfidare Demis Roussos nel suo campo! E pur essendo un confronto impari, non ne esce malaccio (forse è più ispirato dalla cover italiana di Dalida che da Roussos). Registrata probabilmente durante la lavorazione dell'album perduto, Lacrime e pioggia non compare però in nessuna delle scalette dell'album – segno che Battiato e Logiri pensavano a un disco organico, senza cover. Fu pubblicata per la prima volta nella raccolta pubblicata dalla Armando Curcio Editore nel 1982, quando il nome "Battiato" avrebbe venduto qualsiasi cosa. Nel 2008 poi Battiato si ricorderà degli Aphrodite's Child riprendendo It's Five O'Clock, neanche a farlo apposta un'altra Pachelbel. Ma era meglio questa.


1969: Sembrava una serata come tante (Battiato/Logiri, #254)

Non ti avrei detto sì: chiudiamola qui. Di Sembrava una serata su Youtube resiste la versione cantata dal vivo con l'orchestra alla "Mostra Internazionale di Musica Leggera di Venezia" che non doveva essere proprio un festival di secondo piano, visto che sul palco si aggirava Mike Bongiorno. Dovrebbe trattarsi della "sfortunata esibizione televisiva" citata da Fabio Zuffanti (2020) con "l'orchestra che sbaglia clamorosamente la tonalità", episodio che "spingerà il nostro a serie decisioni sul suo futuro musicale". Quel che è certo è che non c'è esattamente sintonia tra l'orchestra e il giovane cantante con basette e occhialoni alla Nicola Di Bari, così poco soddisfatto della sua esibizione da scappare dal palco proprio subito dopo aver cantato "chiudiamola qui", senza aspettare gli applausi. Sarebbe stato di parola: Sembrava una serata come tante è il suo ultimo tentativo di sfondare come cantante confidenziale (l'ultimissimo singolo per la Philips, Vento caldo, sarebbe uscito a contratto già stracciato). È l'episodio più simil-francese di questa sua prima carriera, ma è anche una dimostrazione del fatto che Battiato questi francesi li ammirava senza capirli bene: la canzone che gioca sulla disillusione dell'innamorato che si scopre tradito è un classico della linea Brel-Aznavour, richiede un approccio teatrale, il cantante deve trasformarsi in un patetico oggetto di derisione e Battiato questo non era proprio in grado di farlo, né nel 1969 né in seguito. Lo spiega proprio qui: "Se non avessi avuto l'orgoglio che c'è in me": appunto, per fare canzoni del genere bisogna rinnegare l'orgoglio. 

Dalla nostra distanza è facile capire che Battiato si stava infilando in un vicolo cieco: insomma, era già il 1969, l'anno di Woodstock, Tommy Abbey Road, e Battiato si ritrovava in abito scuro davanti a un'orchestra a cantare di splendide serate finite male, un chansonnier fuori tempo massimo, con questa mania di rallentare i ritornelli per dare rilievo a un'interpretazione enfatica che la sua voce non sempre riusciva a sostenere dal vivo – sul serio, vien da pensare: chiudiamola qui. Non fosse che.
Non fosse che in quello stesso 1969, in un altro festival della musica leggera, un ragazzo similmente riccioluto e non del tutto a suo agio con l'orchestra porta una canzone scritta da lui, con cambi di tempo e interpretazione un po' enfatica: la canzone era Un'avventura, non a tutti piacque, ma oggi nessuno pensa che Lucio Battisti avrebbe fatto meglio a chiuderla lì e a buttarsi sull'elettronica. 


1968: Vento caldo (#256)


Tra 1965 e 1968 Battiato le prova un po' tutte, accodandosi a più di una tendenza musicale. Vento caldo è il suo tentativo proto-prog, ed è uno dei mille brani che in quel periodo risentono del successo di A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum tentando di imitarne la formula: l'inserimento di melodie classiche nei brani pop. Se i Procol si erano limitati a ispirarsi a Bach, l'anno dopo gli Aphrodite's Child avevano fatto il botto copiando di pacca il Canone Pachelbel ed evidenziando i vantaggi economici del procedimento: i compositori classici non ti possono denunciare, non possono prendersi i diritti, non sono neanche iscritti alla Siae e incidentalmente hanno scritto un sacco di riff orecchiabili: bisogna essere fessi per non provare a scopiazzare qualcosa. Battiato fesso non è, ma ha comunque idee strane: è la prima volta che arrangia un brano e non vuole rispettare i 4/4 che per l'hit parade italiana sono ancora molto importanti e forse è ossessionato da un brano non così facilmente canzonettabile come il Concerto n.1 per pianoforte e orchestra di Ciaikovskij. Lo ritroveremo trent'anni più tardi in un brano di Ferro Battuto, ancora abbastanza incongruo – ma nel frattempo lo avremo memorizzato a causa di caroselli e pubblicità. Il testo è l'ennesima variazione su un tema che perseguitava ben più ossessivamente gli ascoltatori di canzonette: l'estate sta finendo. Anche Battiato in seguito ci regalerà variazioni esistenziali e metafisiche sul tema, ma qui siamo ancora al grado zero: l'estate sta finendo e ti devo lasciare. È anche un involontario commiato di FB alla Polydor, che lo fece uscire solo nel 1971 quando l'artista era ormai assorbito da altre avventure musicali. 

1969: Marciapiede (#251)

Quando ti ho conosciuta, un anno fa, solo per poche lire davi te: ora sei una signora, già si sa: eri sul marciapiede e sei con me. Con Marciapiede finisce, abbastanza ingloriosamente, l'avventura canzonettistica di Battiato: è il lato B del suo ultimo singolo (Vento caldo) ed è anche la prima canzone completamente firmata da lui. I lati B com'è noto servivano a sperimentare cose un po' meno formalizzate; qui invece la musica è abbastanza semplice, in compenso l'argomento è per i tempi piuttosto scandaloso: la storia di un amore che dovrebbe redimere una prostituta di strada – ma Battiato essendo già Battiato, l'amore è destinato a finire e la ragazza a tornare sul marciapiede. Un soggetto da cui Brel o Brassens avrebbero potuto trarre romanze in dieci strofe, purtroppo viene affrontato dal giovane paroliere con espressioni di una banalità sconfortante. Battiato, che nei dischi della maturità abbandonerà la metrica tradizionale, qui vi si muove impettito come in un colletto troppo inamidato, limitandosi alle rime tronche ("sa/già, te/me"). Sembra veramente crederci poco: e del resto racconta la storia dalla parte dell'innamorato che non ci crede più, nel momento in cui la passione cede il passo alla repulsione. Il disco non arrivò nemmeno nei negozi: Battiato aveva già rescisso il contratto con la Polygram, ne furono pubblicate soltanto copie promozionali per la stampa. Lui ci aveva anche provato, a innamorarsi della Canzonetta, ma troppo spesso aveva visto la Canzonetta baciare qualcun altro per continuare a illudersi sulla di lei moralità.



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Dove sono i miei centonovanta miliardi?

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"Fiuuuuuuuu, fiuuuuuuuuu, ecco l'asso dell'aviazione mentre pilota il suo jet supersonico sul Canale di..."

"Ehi psst, Governo".

"Eh? Chi è? Che c'è? Sto lavorando!"

"Sono il Settore Industriale".

"Mi fa piacere, ma non si bussa più?"

"Ho bussato, ma non devi aver sentito".

"In effetti sono molto preso".

"Stavi facendo il rumore dell'F35 con la bocca".

"Stavo soppesando i pro e i contro di un intervento della flotta militare nel Canale di Sicilia".

"Cioè vuoi mandare i marò contro i barconi".

"Contro i trafficanti!"

"...Va bene. Ma probabilmente sai già perché sono qui".

"Beh, penso che potrebbe trattarsi di..."

"Di?"

"...ehm, un aiutino?"

"Un aiutino lo stavo aspettando io, non so se rammenti. Il pienerrerre".

"Ah già quello!"

"Mi avevate promesso centonovanta miliardi".

"Ormai ci siamo".

"Io ho già cominciato a spenderli".

"Volevano farci fretta, ma noi non ci siamo fatti fregare e..."

"E?"

"Abbiamo spuntato una proroga di un mese!"

"Un mese?"

"Così abbiamo tutto il tempo per..."

"Cioè volevano darceli prima e avete chiesto una proroga?"

"Abbiamo ottenuto una proroga! Così abbiamo tutto il tempo per..."

"Per?"

"Per mettere a posto la documentazione e..."

"La documentazione".

"Già. Ora se vuoi scusarmi devo chiarire una cosa con la Nato, ci hanno chiesto di mandare una portaerei in Cina e..."

"In Cina?"

"Sì. Cioè no non esattamente in Cina, ma nel mar cinese, al largo di Taiwan, sai non possiamo assolutamente permettere che quei comunisti dei cinesi..."

"Ma non devi già mandare la flotta contro i barconi".

"Contro i trafficanti! E vabbe', ne abbiamo tanta di flotta. Per cui se mi vuoi scusare..."

"Senti, governo..."

"Uffa, cosa c'è?"

"Io qualche mese fa ti  ho lasciato vincere le elezioni". 

"Non è che mi hai lasciato". 

"Potevo fare ostruzione seria, non l'ho fatta. Ti ho lasciato campo libero su giornali e tv, l'idea era che Draghi non potesse andare avanti ancora a lungo e inoltre..."

"Ti avrei calato le tasse".

"Mi avresti calato le tasse. Ma sul piennerrerre c'erano precise garanzie".

"Ma infatti ci siamo. Abbiamo ottenuto una proroga che è un risultato importante".

"Avete implorato altri trenta giorni perché non avete ancora fornito documentazione che in teoria era già pronta quando è andato via Draghi! Avevate garantito questo!"

"E voi vi siete fidati, ih ih..."

"Ci siamo fidati di Draghi!" 

"Eh vabbe' è andata così, comunque ormai ci siamo, un mese ancora e..."

"Governo, ma mi pigli per il culo?"

"Io? Come potrei mai?"

"Mi domando se tu sappia fare altro".

"È una brutta cosa da dire al proprio governo, io mi potrei anche offend..."

"E l'aeroplanino, dimenticavo, sai fare anche l'aeroplanino".

"Ora basta, non tollererò altre offese".

"Ma dimmi cosa stai facendo. Dimmi cosa ha fatto la tua maggioranza in questi mesi".

"Abbiamo ottenuto risultati importanti!"

"Per esempio".

"Abbiamo... abbiamo vietato la farina di insetti".

"La farina di che?"

"La lobby globalista voleva costringerci a mangiare insetti e noi con un decreto legge..."

"Avete stabilito che va scritto nell'etichetta".

"È un risultato importante!"

"Ma lo sai quanto costa al momento la farina di grillo qui da noi?"

"Chi, io?"

"Lo sai? Sta sui settanta euro al chilo".

"Maledetta lobby globalista".

"Secondo te se avessi voglia di mettere farina di grillo in un pacco di biscotti ho bisogno che tu mi imponi di scrivercelo sopra? Sarebbe un prodotto di lusso, ci dovrei mettere il fiocchetto con la dicitura impasto de luxe. Ci vorranno anni perché le farine di insetti siano competitive, e nel frattempo mi costringi a scrivere insetti su tutte le bibite colorate con la cocciniglia?"

"Cioè mi stavi dicendo che usavi le coccinelle per colorare le..."

"La cocciniglia, non le coccinelle... sì, vabbe', senti, non me ne fotte un cazzo della farina di insetti, al momento".

"Ma la lobby globalista..."

"Non m'interessa perché non è competitiva – e quando lo sarà, sarò il primo a volerla usare per cui chi sarà al tuo posto in quel momento quei decreti me li straccia al mio tre, capito?"

"Ma è questo il modo di parlare?"

"No infatti, credo di dover essere più chiaro. Se da qualche parte una fabbrica di content, una scuderia di influencer o che cazzo ha deciso che bisognava spaventare il parco buoi degli elettori con la farina d'insetti, a me sta bene. Sta bene anche se fate casino sull'utero in affitto o su altre cazzate, il consenso è il vostro mestiere".

"E infatti abbiamo vinto le elezioni".

"Benissimo, complimenti, e adesso voglio i miei centonovanta miliardi".

"Ma non è così facile".

"Non state facendo un cazzo".

"Ma non è vero... abbiamo... abbiamo..."

"Cosa?"

"Vietato la ehm... carne sintetica".

"No io adesso stacco tutto".

"Aspetta! Aspetta! So che sembra una misura populista e dissennata, ma abbiamo salvato gli allevatori in questo modo".

"Ah cioè a voi interessano gli allevatori adesso".

"Eh certo, il made in Italy e..."

"Le vacche. A voi interessano le vacche".

"Credo che ci sia un termine più forbito per definirle".

"Ci siete mai stati in una stalla? Lo sapete chi ci lavora mediamente?"

"Allevatori italiani!"

"Come no, ci siamo ridotti a importarli dall'India. Ci toccherà andarli a prendere con gli aeroplani".

"Eh beh quelli dobbiamo usarli contro i trafficanti".

"Cioè volete che l'Italia torni a essere una nazione di pastori e contestualmente sparate ai pastori che vengono in Italia a lavorare. E comunque non avete vietato la commercializzazione di carne sintetica".

"Eh beh, l'Europa non ci avrebbe lasciato, ma..."

"Avete vietato solo la produzione di carne sintetica, per cui ci toccherà farla in Romania, come le calze. E comunque il decreto è scritto così male che alla lettera vieta la commercializzazione di qualsiasi tipo di carne".

"Vabbe', adesso lo emendiamo, non è che ti puoi attaccare alle lettere..."

"Le leggi sono fatte di lettere! E saper scrivere le leggi, i decreti, anche questo è il vostro mestiere".

"Ah sì?"

"Non lo sapevi?"

"Ma io se devo essere sincero... pensavo che una volta entrati nelle stanze dei cosi, dei..."

"Dei bottoni".

"Pensavo che ci sarebbero stati quelli che lo sanno fare, noi avremmo spiegato le cose a loro e loro..."

"Li dovevate assumere".

"Sì, ecco, appunto, adesso li stiamo..."

"E prima li dovevate formare..."

"Eh vabbe' dobbiamo pensare a tutto noi, adesso sinceramente è tutta colpa nostra? Non vorrei fare il solito governo che dà la colpa ai governi precedenti, ma..."

"Ma lo stai facendo".

"Sì! Lo sto facendo! Ebbene sì! Perché se ogni governo che passa qui invece di investire nella formazione continua a tagliare e non assumere, non è che adesso arrivo io e..."

"Guarda, su questo non avresti tutti i torti".

"Ah no?"

"No tutti no".

"Ma infatti!"

"E quindi smetterai di tagliare sulla formazione?"

"Eh ma che c'entra, non lo sai che c'è il calo demografico".

"Il calo demografico c'è solo se bombardi i barconi".

"Aoh, e non l'hai capito? Si dice trafficanti".

"Non m'interessa come dici tu".

"Ah no?"

"Non così tanto, no. Le tue parole d'ordine, i tuoi meme, le quattro idee che continuano a macinare nelle vostre fabbrichette del consenso, te l'ho detto: è il vostro mestiere, interessa a voi. A me interessa una cosa soltanto".

"Ed è?"

"I miei centonovanta miliardi".

"Ah sì, quelli! Tra un mese".

"Tra un mese stacco tutto, te lo dico".

"Mmnooo, dai, non lo farai".

"E perché no?"

"Perché ormai li hai provati tutti. Hai mandato a casa Conte, ci hai mandato Draghi, e se mandi a casa me chi ti resta? La Schlein? Fammi ride".

"I sondaggi..."

"Oh, quelli. Tra un anno magari. Un paio d'anni, ecco sì. Immagino che abbiate già opzionato Draghi per allora. Ma adesso qua ci sono io. Ho vinto le elezioni e ci sono io".

"Avevi promesso..."

"E tu ci hai creduto".

"Pensavo che..."

"Che ti avrei tolto le tasse. Flat tax senza aliquote. E scudo fiscale a strafottere. E adesso ti lamenti perché taglio l'istruzione. Guarda in faccia la verità".

"No, io..."

"Guarda in faccia la verità, io sono il tuo vero governo. Quello che ti rappresenta come nessuno mai ti ha rappresentato".

"Sei un bamboccio che gioca con gli aeroplanini, sei..."

"Quello che ti meriti".

"Voglio i miei centonovanta miliardi!"

"Non sono tuoi".

"Me li avete promessi!"

"Credi siano a fondo perduto? qualcuno li avrà indietro prima o poi. Glieli darai tu?"

"Eh?"

"No, credo di no. Dovrai trovare qualcuno a cui passare la patata per allora. Immagino che Schlein e compagnia ti torneranno utili in quel momento. Ma nel frattempo ci sono io. Arrivederci".

"Ma non credere che..."

"Ho detto: arrivederci".

Esce il settore industriale.

...

"Uffa che noia quello. Dov'ero rimasto? Ah già. Fiuuuuuuuu, fiuuuuuuuuu, ecco l'asso dell'aviazione mentre pilota il suo jet supersonico sul Canale di..."

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L'ultima foto autentica

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Questa foto l'avete vista in questi giorni. È una foto vera (questa espressione, a rileggerla tra qualche settimana, avrà perso il suo residuo significato – cos'è una foto vera?) Più precisamente, è la foto scattata a una foto che sta appesa in una trattoria a Roma e che documenta una cena che è avvenuta veramente, credo nel 1982. L'anno che per gli italiani di un paio di generazioni rappresenta, e guardando la foto è difficile smentirli, il momento più alto della nostra civiltà. Non soltanto queste cinque persone erano vive, ma riuscivano a trovarsi al ristorante. Tutto questo grazie al quinto personaggio a destra, di gran lunga il meno famoso, ma anche l'unico che nel 1982 avrei riconosciuto al volo perché a quel tempo ero un bambino: non avevo mai letto un romanzo di Garcia Marquez, mai visto direi un film di Leone, mai assistito a un match di pugilato o guardato De Niro al cinema, ma Gianni Minà era un baffo televisivo che riconoscevo al volo. Faceva le interviste, aveva una specie di anti-Domenica-In su Rai2 che sembrava un programma più serio, adulti intervistati da adulti, ragione per cui i miei genitori lo preferivano. Non lo capivamo ma era una tv agli sgoccioli. Anche questa foto cattura un mondo al tramonto: Marquez ha già scritto tutto quello che gli leggiamo, Leone deve finire l'ultimo film e togliere il disturbo, Ali avrebbe dovuto smettere da pugilare già da un po' (come i medici lo imploravano di fare), persino De Niro i film che valeva la pena di fare li ha già quasi fatti tutti. Minà avrebbe incontrato ancora tanti personaggi interessanti, ma è difficile non immaginare in questa foto un vertice della carriera, coincidente col momento in cui era uno dei volti più noti dei giornalisti Rai. 

Di lì a poco qualcosa si inceppò: Minà continuò a lavorare molto ma in tv il suo personaggio declinò. Non dev'essere per forza una questione di censura, come ho letto in questi giorni, dato che si trattò di un addio lunghissimo: fece pure in tempo a presentare la Domenica Sportiva ai tempi in cui era ancora un'istituzione. La tv stava diventando semplicemente più nazionalpopolare e Minà aveva un target diverso: poteva ancora funzionare quando si interessava a personaggi sportivi come Maradona: meno quando intervistava Sepulveda o Chico Buarque. Un mese fa abbiamo salutato un altro baffo televisivo, Maurizio Costanzo: a me pare che il successo del secondo spieghi come mai il primo a un certo punto in tv non si trovava più. In teoria ci sarebbe potuto essere spazio per entrambi i segmenti, proprio come nel 1981 Blitz era complementare alla Domenica In di Pippo Baudo. In pratica si è verificata questa cosa per cui abbiamo a un certo punto deciso che c'era un solo vero segmento e che Costanzo lo rappresentava degnamente, che la cultura era quella lì, perlomeno in tv: la filosofia era De Crescenzo, il teatro Carmelo Bene Contro Tutti, l'arte era Sgarbi, e resistere era inutile. Il disastro è stato tale che quando finalmente con Fazio c'è stato un tentativo di recuperare una nicchia, abbiamo scoperto con orrore che in tale nicchia ormai la musica colta era il pur simpatico Allevi, la letteratura era il pur simpatico Camilleri, e i personaggi del Blitz di Minà ormai si stagliavano all'orizzonte come resti ciclopici di un passato che non meriteremmo. Magari è solo l'effetto prospettico per cui tutti quelli più giovani dei tuoi genitori ti sembrano dei pirla, anche quando diventano bravi scrittori e cantanti e cineasti. Non posso escluderlo.

Questa foto, rivista in questi giorni, mi folgora per un altro motivo: non riesco più a prenderla sul serio. La trovo infatti mescolata ad altre immagini buffe e realistiche prodotte da algoritmi sempre più raffinati, che non sbagliano più nemmeno le dita delle mani come facevano fino a qualche settimana fa. Gli artisti continuano a domandarsi cosa succederà a loro – a parte che avremo molto meno bisogno dei loro servigi, ho la sensazione che continuino a porsi un problema soprattutto accademico: siamo ancora artisti? È ancora arte? Nel frattempo io registro come si sta modificando la mia percezione: non credo più alle foto, nemmeno a certe foto dove ci sono io. Nemmeno a questa, che razionalmente so essere "vera", e allo stesso tempo so che non riuscirei più a convincere nessuno che lo è: dopotutto come faccio a sapere che quel pranzo ci fu davvero? Ne ho solo sentito parlare, qualcuno avrebbe potuto inventarsi la storia e fabbricare la foto già qualche anno fa. 


Già qualche anno fa, prima ancora che vedessimo al lavoro la tecnologia deepfake, ci domandavamo se questa non sia l'ultima generazione degli attori hollywoodiani, visto che da qui in poi potremmo continuare a usare le loro facce all'infinito. Certo, ogni tanto fa persino piacere vedere qualche faccia nuova (ma non così tante – pensate alle saghe che si fanno a Hollywood: alla fine usiamo per lo più proprietà intellettuali ideate tra '50 e '80, con qualche supereroe e mostro che al massimo risale agli anni '40). Ma anche le facce nuove, perché cercarle col casting ora che possiamo produrle con gli algoritmi? Ci sono interi settori che forse hanno già tutto l'archivio necessario ad andare avanti automaticamente da qui in poi, cambiando solo facce e dettagli – sto pensando per esempio alla pornografia, ma forse mi sbaglio (non ho mai capito che bisogno ha la gente di consumarne così tanta). 

Ora che possiamo avere nuovi combattimenti di Ali, ci servono davvero altri pugili? Possiamo chiedere a un'AI: raccontami un romanzo di Marquez con lo stile di Sergio Leone, farci un film e farlo interpretare da un giovane De Niro. Probabilmente il primo verrebbe una cazzata, ma alla lunga questa cosa prenderà piede e a quel punto cosa saremo diventati noi? Che tipo di spettatori? Non siamo già predisposti a questa svolta, in fondo il cinema di un Tarantino cos'è se non la profezia di un mondo in cui ogni immagine sullo schermo è una riproposizione di qualcosa già visto, processato e rimontato? Siamo sicuri che Tarantino non sia già un algoritmo, o che un algoritmo non potrebbe essere già più bravo di lui? 

Può darsi che in un primo momento reagiamo dicendo: grazie, no, ci piace il prodotto umano. Un po' come negli anni '80 ci intestardivamo a non ascoltare gruppi che suonavano con la batteria elettronica, finché non abbiamo ceduto; cederemo anche stavolta, giusto per non invecchiare stronzi in mezzo a giovani che questa differenza non la capiscono – ai posteri interesserà la differenza tra un De Niro vero e uno deepfake? Una vocina nella mia testa mi dice che un Marquez algoritmato potrebbe già essere più interessante di un Camilleri autentico. Se penso che Blitz sia stato un grande programma (idealizzando qualcosa che in realtà guardavo distrattamente mentre giocavo ai lego sul tappeto), che la tv italiana avrebbe dovuto proseguire da lì e non da Costanzo, quanto lontano è il momento in cui potrò avere un prodotto su misura per me, un palinsesto alternativo in cui Blitz prosegue fino al 2023 con Minà che intervista la Egonu e Roberto Bolaño anche se è morto, ma basta non dirlo all'algoritmo? Che limiti ci saranno, a parte la potenza di calcolo? Forse solo la potenza di calcolo: ma chi impedirà ai più ricchi tra noi di bruciare tutte le risorse terrestri in cambio di realtà virtuali dove succede esattamente quello che vorremmo guardare e ascoltare?

Magari poi tra miliardi di anni sbarcherà un'astronave di procioni e ci troverà tutti molto presi a guardare e ascoltare questi contenuti: cercheranno di interagire con noi, decifrando facilmente i nostri linguaggi, ehi salve siamo alieni da un altro braccio di questa galassia, abbiamo trovato un wormhole e così, ehi? Ma ci ascoltate? Siamo venuti da lontanissimo, insomma siamo un avvenimento, perché fate finta di niente? Ci metteranno un po' a capire che gli esseri veramente umani non ci sono più, e che quel che rimane sono i simulacri di gente che guarda simulacri di storie prodotti da simulacri di artisti, ho già letto una storia così da qualche parte. Non importa nemmeno più dove, tra un po' potrò chiedere a un algoritmo di riscrivermela meglio. 

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Battiato: i primi singoli (NET, Jolly)

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Se oggi è il 23 marzo, Franco Battiato avrebbe compiuto 78 anni. L'anno scorso ho afflitto i lettori con un lungo torneo dedicato alle sue canzoni – un pretesto per riascoltarle tutte. Qualcosa d'interessante ne è uscito fuori e adesso provo a ripubblicarlo in ordine cronologico, in modo da rendere tutto un po' più facilmente accessibile ai bot che in futuro passeranno di qui e cercheranno di capire perché una volta a qualcuno piaceva Franco Battiato.


Il pezzo successivo: il periodo Polydor (68/69)

I primi dischi della sua carriera, Battiato li incide per una un settimanale di enigmistica, la NET ("Nuova Enigmistica Tascabile") che allegava al numero in uscita in edicola la cover di un singolo di successo, cantata da uno sconosciuto per risparmiare sui diritti. Battiato era, perlappunto, uno sconosciuto disposto a cantare per un pezzo di pane. 

1965: L'amore è partito (Cardile, #247)

"Ricordo bene quando venni ingaggiato la prima volta per quei dischi. Il maestro mi fece un provino di qualche secondo; cantai una sola strofa. 'Basta, va bene!', e mi convocò per il giorno successivo in sala d'incisione". La relativa facilità con cui viene scelto è per lui un'iniezione di fiducia che può lasciare perplessi, perché Battiato non ha mai cantato tanto male come in questo primissimo singolo del 1965, una roba da farsi ridare indietro i soldi dall'edicolante. Non ci sono spiegazioni, non ci sono scuse, Battiato si capisce che la voce ce l'avrebbe e persino il timbro giusto, vagamente 'genovese' tra un Lauzi e un Paoli (a meno che non gli avessero chiesto di imitare il cantante e autore autentico, Beppe Cardile). Epperò con questo timbro giusto Battiato non riesce a mantenere l'intonazione – in particolare sono certe note lunghe a tradirlo. Al giorno d'oggi una prestazione così non passerebbe alla prima audizione di un talent qualsiasi e questo dà la vertigine: chissà quanti geni della musica stiamo buttando via perché steccano al primo provino, gente che vent'anni dopo magari ti combinerebbe un equivalente della Voce del padrone ma non lo sapremo mai perché invece dei flexi disc tarocchi allegati alle settimane enigmistiche tarocche abbiamo i talent, e nei talent alla prima stecca sei fuori. Viene da pensare che il motivo per cui Battiato ottenne il posto con relativa facilità è l'altra mansione che accettò contestualmente: il fattorino. In un colpo solo avevano trovato un ragazzo che incideva i dischi e che li consegnava nelle edicole. L'amore è partito è un giro di do che si distingue da altri cento per la curiosa prosopopea: l'Amore in questo caso è una vera e propria entità che ha abbandonato i due innamorati, rei di essersi comportati male nei suoi confronti, una cosa che non era venuta in mente credo neanche a Guido Cavalcanti, mentre Beppe Cardile la portò a Sanremo e oggi su Youtube lo salutano e gli scrivono "Hai avuto il privilegio di vivere degli anni bellissimi e l'onore aver scritto una canzone per il maestro Franco Battiato" e lui deve pure abbozzare.


1965: E più ti amo (Amurri, Barrière, Ferrari, Pallavicini, #38)

"Mi presentai incosciente: era la prima volta che entravo in un posto del genere. Il pezzo era E più ti amo di Alain Barrière. Mi misi la cuffia. Il maestro mandò la base. Finii di cantare. Mi disse che andava bene. Per me era un successo. Quel giorno ho capito che cantare e fare musica sarebbe diventato il mio mestiere" (Tecnica miste su tappeto, 1992). 

Battiato non amava i suoi dischi degli anni Sessanta. Non gradiva che li ristampassero: si oppose con fermezza a una riedizione ragionata del 33 giri fantasma del 1969. Non li aveva inseriti nelle prime versioni del suo sito ufficiale e non li reinterpretò mai, con una sola eccezione. Questa eccezione purtroppo è una canzone d'amore abbastanza ordinaria ma che per Battiato doveva avere avuto un'importanza particolare: con E più ti amo aveva capito che avrebbe potuto farcela. Avrebbe vissuto di musica. Non sarebbe stato facile, ma sarebbe stato il suo mestiere. Battiato sostiene di "ricordare bene" la circostanza, ma a guardare le date il primo flexi a uscire sarebbe stato L'amore è partito, il 20 febbraio, mentre E più ti amo sarebbe uscito soltanto il 27 marzo (e come lato B). Ma se L'amore è partito è cantata abbastanza male (sembra difficile pensare che Battiato abbia vinto un ingaggio con una prova del genere), E più ti amo è veramente la dimostrazione che questo ragazzo ha trovato il suo mestiere: non solo la voce è educata ed espressiva, ma si ha la sensazione che Battiato stia modellando il proprio timbro per assomigliare all'originale che sta imitando – ricordiamo che questi flexi disc sono imitazioni, la gente li portava a casa per avere una versione simile all'originale ma a prezzo scontato. Questo originale non è, come molti scrivono, Gino Paoli, ma lo stesso Alain Barrière che aveva inciso la canzone in un buon italiano con un'affascinante cadenza straniera: ecco, anche Battiato riesce a dare alla sua interpretazione un accento 'altro', e se non sembra un cantante francese, non sembra nemmeno del tutto italiano (ecco uno dei rari casi in cui la fonetica siciliana poteva risultare un vantaggio). Quarantaquattro anni dopo, Battiato deciderà di reincidere la canzone nel suo terzo CD di cover, riconoscendo così per la prima volta la continuità sotterranea tra i suoi Fleurs e la precoce carriera d'interprete negli anni Sessanta. 


1967: La torre (Medini/Lamorgese, #248)


BATTIATO: Siete degli ipocriti.

CASELLI: Ma chi è questo?

GABER: Io l'ho già visto. Sembra me con la barba e i baffi.

CASELLI: Esatto!

GABER: Ma insomma, si può sapere cosa vuoi tu?

BATTIATO: Cosa voglio? Sbattervi giù dalla torre!

Quella sera a Diamoci del tu Caterina Caselli presentava un artista promettente, relativamente conosciuto per le canzoni che aveva scritto per l'Equipe '84, di taglio cantautorale, molto riconoscibili rispetto al resto del loro repertorio: AuschwitzDio è morto (quando sente i titoli il pubblico applaude). Si chiamava semplicemente Francesco, come oggi i concorrenti a X Factor, e la Caselli spiega che il suo genere è la "folksong". Ma nella stessa puntata anche Gaber, il copresentatore, portava una sua giovane promessa: un giovanotto dinoccolato che per l'occasione deve rinunciare al suo nome di battesimo, dato che si chiamava Francesco pure lui. Da lì in poi si chiamerà Franco Battiato, anche per sua madre. A differenza dell'altro Francesco, Battiato non ha nessun titolo con cui impressionare il pubblico: gli unici dischi che ha inciso sono quel paio di 45 giri di cover per una rivista enigmistica; Gaber l'ha scovato in un'osteria dove assieme a Gregorio Alicata cantava canzoni siciliane spacciandole per medievali e lo ha portato alla Jolly. La torre è un brano molto acerbo che declina un certo atteggiamento scostante di marca esistenziale con un ritmo trascinante da marcetta, alla Anthony: insomma due tendenze di segno opposto, ma entrambe di provenienza francese, mescolate assieme nella speranza che funzionino e col senno del poi sembra abbastanza chiaro che no, non possono funzionare le lagne e le marcette nello stesso brano. Era un esperimento, in quegli anni le si provavano un po' tutte e anche un buco dell'acqua non era una tragedia. Battiato avrebbe potuto scomparire di lì a poco come centinaia di altri. Persino l'altro Francesco (Guccini) avrebbe potuto scomparire: malgrado gli applausi, il suo primo album da folksinger (per la Voce del padrone!) vendette 500 copie, oggi ci vai in top100 ma ai tempi erano pochissime. Conteneva tra l'altro un brano che sembra la parodia del Battiato della Torre, l'Asociale: "sono un tipo antisociale / non m'importa mai di niente / non m'importa del giudizio della gente... in un'isola deserta / voglio andare ad abitare / e nessuno mi potrà più disturbare". Cioè è davvero la stessa cosa che canta Battiato, ma senza marcette fuori luogo e con parecchia ironia in più. Però il brano era già uscito su un 45 giri l'anno prima, quindi no, Guccini non stava prendendo in giro Battiato. Al massimo stava canzonando un atteggiamento, un mood che al tempo di Battiato era già un luogo comune.  

1967: Le reazioni (Medini/Lamorgese, #249)

Le reazioni è il lato B del singolo La torre, dove per la prima volta Battiato compone musiche e testi, anche se alla Siae non risulta perché non era ancora iscritto. La sensazione è che più di musiche e testi – non troppo memorabili – gli interessi costruire un personaggio, un ragazzo tormentato e scostante che vive l'amore come un'esperienza destabilizzante e forse preferirebbe farne a meno. Tutto questo non è soltanto autobiografico e anticipatore di tanta poetica battiatesca nei decenni a venire, ma nei secondi anni Sessanta si sposa a un'estetica esistenzialista che forse non era la più apprezzata dai giovani acquirenti di dischi, ma un suo mercato lo aveva: il campione di questo mood era Luigi Tenco, che proprio nel 1967 aveva deciso di chiamarsi fuori nel modo più assurdo possibile. Battiato ripartirebbe da lì, con arrangiamenti più aggiornati alle novità del rock inglese (non è chiaro se ci sia già Logiri alla chitarra, ma qualcuno comunque deve aver ascoltato se non Jimi Hendrix almeno gli Yardbirds). Il tutto ovviamente solo nel caso che al pubblico questo Giovane Arrabbiato piacesse, il che non accadde. Lo stesso Battiato accettò di ripiegare su tematiche più amorose e meno arrabbiate. 



1967: Il mondo va così (Buffoli, Dutronc, Lanzmann, Pagani, #222)


Trecento milioni di carri armati, ed io che sto di qua. Col materasso di gomma piuma, col giradischi e il bagno di schiuma. Il mondo va così... Ma non finisce qui. 

Il mondo va così (da non confondere con Ecco com'è che va il mondo) è una delle cover più interessanti non solo del Battiato anni Sessanta, ma di Battiato in generale. Nel 1966 Jacques Dutronc aveva scalato le classifiche francesi a sorpresa con Et moi et moi et moi, una simpatica canzoncina di sapore boris-viannesco che esprimeva il senso di vertigine dei borghesi francesi della prima generazione postcoloniale: il mondo sta diventando immenso, i cinesi sono addirittura "settecento milioni", e noi e noi e noi con le nostre macchinine e i nostri cagnolini, che aspettiamo l'assegno a fine mese "comme un con de parisien". Qui si vede come sia più complicata di quel che sembra, l'arte di tradurre una canzone in un altra lingua: la canzone nasce dal senso di frustrazione di un ex impero che si riscopre al margine del mondo, ma noi italiani in quel margine ci siamo sempre stati (e se avevamo un impero lo abbiamo completamente rimosso). Un'altra cosa quasi impossibile da trasporre in italiano è l'attitudine di Dutronc, quel "ci penso e poi me ne dimentico, c'est la vie", non a caso blasé e nonchalance sono parole che non traduciamo. A questo punto un'opzione può essere: prendere la musica e scrivere un testo completamente diverso – si ottiene così ad esempio E voi e voi e voi di Gene Guglielmi. Herbert Pagani e Vittorio Buffoli optano per una soluzione diversa, che si adatta così tanto alla sensibilità di Battiato che viene da pensare che quest'ultimo ci abbia messo le mani, anche se alla Siae ancora non poteva risultare. Tutt'altro che blasé, Battiato assume lo stesso atteggiamento savonarolesco già intravisto nel primo singolo, La torre, con quel "non finisce qui" che a noi italiani ricorda facilmente il "Verrà un giorno" di fra Cristoforo. Perché alla fine il giorno viene: l'altra novità rilevante rispetto all'originale di Dutronc è la prospettiva apocalittica. È una sfumatura espressa non soltanto con le ultime parole del testo ("il mondo va così, forse finisce qui"), ma soprattutto con la musica: la canzone di Dutronc era statica, una serie di strofe ognuna uguale all'altra come i giorni del parigino medio. La versione di Battiato è incalzante come un mondo che ci sta cambiando sotto i piedi: il ritmo accelera, la tonalità sale, quando il livello si fa insostenibile un intermezzo swingeggiante riporta la canzone al punto di partenza, ma dura solo il tempo di prendere fiato. C'è già Battiato, in questa canzone: la sua vocazione a complicarsi la vita prendendo una filastrocca semplice e trasformandola in un'opera di due minuti, che troviamo in tutti i 45 giri degli anni Sessanta tranne nell'unico che riuscì a piazzare in classifica (È l'amore). C'è il dito puntato su una civiltà al tramonto, e l'ammissione di non potersi chiamare fuori. Nel frattempo i cinesi sono più o meno raddoppiati, e Il mondo va così suona ancora più attuale.



1967: Triste come me (Medini, Buffoli, Alicata, #227)

Triste come me è il lato B di Il mondo va così, il secondo e ultimo singolo stampato per l'etichetta Jolly che malgrado il sostegno di Gaber questi dischi non riusciva proprio a venderli. È una delle canzoni meglio riuscite a FB negli anni Sessanta: abbandonato il maledettismo della Torre e delle Reazioni, non ancora abbracciato il sentimentalismo stagionale dei successivi 45 giri targati Philips, qui il cantante è semplicemente triste perché gli amici lo hanno tradito, e lo racconta in una canzone non troppo complicata che si gioca tutto sulla variazione dinamica tra strofa (in tre quarti) e un ritornello che 'esplode' (in 4/4): un trucco che Battiato continuerà a eseguire anche nei singoli successivi, ma con meno leggerezza. Tra gli autori compare l'amico e mentore Alicata, ma anche in questo caso Battiato potrebbe averci messo del suo. Chiunque l'abbia scritto, comunque, doveva conoscere The Pied Piper di Crispin St. Peters (1966): questo almeno spiegherebbe come mai nel 1967, l'anno di Bandiera gialla (che era una cover di The Pied Piper) Battiato si ritrovi a cantare una canzone tematicamente tanto diversa e melodicamente così simile. 

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L'abate recalcitrante

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23 marzo: San Gualtiero di Pontoise (1030-1095), abate recalcitrante

Gualtiero, di origine piccarda, era l'abate del monastero di Pontoise, e il tratto che risulta più evidente dalle sue succinte biografie è che non morisse veramente dalla voglia di fare l'abate; perlomeno nel monastero di Pontoise. 

Vabbe' non sarà Cluny, ma non è neanche una spelonca sulla Maiella, per dire

La sua prima fuga è nel 1072, quando si presenta come se niente fosse all'abbazia di Cluny e chiede di entrare come monaco semplice. Cluny nell'XI secolo era la capitale del monachesimo occidentale: Gualtiero vi incontra Ugo di Cluny, nientemeno che il mediatore tra l'imperatore Enrico VI e papa Gregorio VII, insomma il regista di Canossa. Negli stessi anni stava raccogliendo fondi per trasformare l'abbazia nella chiesa più maestosa di Francia e del mondo. Gualtiero preferiva essere un suo umile sottoposto nella grande Cluny che un uomo di responsabilità nella relativamente piccola Pontoise, e io un po' lo capisco, voi no? 

Ugo accoglie Gualtiero, ma quando i monaci di Pontoise scoprono che sta lì gli ordina di tornare al suo posto, e a Gualtiero non resta che obbedire. Non sappiamo esattamente per quale motivo avesse litigato coi suoi monaci, ma la sua vicinanza a Ugo ci fa sospettare che Gualtiero tendesse a interpretare il suo ruolo con un'intransigenza che era lo spirito stesso della riforma gregoriana, ma che forse è più facile portare avanti se sei privo di responsabilità e non ti tocca ogni giorno avere a che fare con sottoposti che ti boicottano. Fatto sta che Gualtiero dopo qualche anno scappa di nuovo, e ai suoi confratelli tocca cercarlo fino in Turenna, dove un pellegrino lo riconosce nel saio di un eremita che coi suoi saggi consigli stava cominciando ad attirare gente dai villaggi intorno a Tours. 

Invece di tornare a Pontoise, Gualtiero stavolta decide di portare il suo problema a Roma, dove chiede al papa in persona di essere sollevato dal suo incarico. A Roma c'è ancora Gregorio VII che gli dice papale papale che se scappa un'altra volta da Pontoise, lo scomunica. 

A Gualtiero non resta che tornare a Pontoise, dove tutto sommato non deve aver lasciato un brutto ricordo – anche solo il fatto che ogni volta che spariva i suoi confratelli si mettevano a cercarlo dappertutto, rifletteteci: se il vostro capo sparisse, lo andreste a cercare di monastero in monastero? Persino in Turenna? 

Dopodiché è probabile che avesse un caratterino: litigò con tutto il sinodo di Parigi perché non sollevavano da un incarico un prete che aveva una concubina. Riuscì a infastidire pure il re di Francia denunciando il modo sbarazzino con cui quest'ultimo continuava a vendere cariche ecclesiastiche benché un imperatore di Germania fosse già stato messo in ginocchio, a Canossa, per lo stesso motivo. Insomma era un gregoriano duro e puro, ma probabilmente è più facile esserlo quando non devi gestire un'abbazia intera e non ti tocca cedere a compromessi continui che alla lunga mettono in crisi le tue convinzioni. 

Comunque ce l'ha fatta, è diventato santo – se Dio ha il senso dell'umorismo che a volte gli sospetto, in paradiso gli ha fatto trovare la copia identica del monastero di Pontoise, con dentro gli stessi monaci, e gli ha detto: pensavamo di nominarti abate, che ne pensi? A noi sembra proprio l'incarico giusto per te. Poi ogni tanto li chiamano dall'inferno, ehi, è di nuovo scappato quel monaco, venitevelo a prendere. Dà lezioni ai diavoli su come si affliggono correttamente le anime, prende tutto troppo sul serio, è un tormento.

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Perché il Ponte non c'è già?

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Che a questo punto si riparli di Ponte sullo Stretto non è affatto sorprendente. Così permettetemi di cominciare con una domanda molto semplice, che rivolgo soprattutto a chi crede che il ponte si possa fare subito, anzi vada fatto subito, anzi è un peccato che non esista già:

e perché non esiste già?


Il Çanakkale 1915, con la campata più lunga del mondo (2023 metri)
(lo Stretto di Messina supera i 3000)

Rifletteteci bene. Se siete convinti che un ponte con una campata unica di tre chilometri si possa fare, cosa ci ha impedito di farlo fin qui?

La volontà politica? Non è vero: un sacco di governi hanno vinto le elezioni promettendo il ponte sullo Stretto, e le hanno vinte bene, con ampie maggioranze. Quindi potevano farlo. E perché non lo hanno fatto?

Guardate che non siamo mica nati ieri. Di ponte sullo stretto parliamo da due millenni, la terra per costruire i piloni l'abbiamo confiscata vent'anni fa, e da più di dieci paghiamo una penale a una ditta che aveva vinto un appalto. Tanto valeva farle costruire il ponte. 

E perché non glielo abbiamo fatto costruire? 

Il progetto c'era. Aveva vinto una gara, e benché avesse destato più di una perplessità tra gli addetti ai lavori, qualche ingegnere e architetto deve pur averne firmato i progetti: quindi perché sono rimasti progetti? 

Chi esattamente si è messo in mezzo alla più grande realizzazione ingegneristica italiana di tutti i tempi? Perché ci dev'essere stato qualcuno che ha bloccato tutto, altrimenti non si spiega. Eppure per quanto cerchi non riesco a trovarlo. 

Ci tengo comunque a ricordare che non sono stato io – per quanto paradossale, una precisazione del genere a questo punto è necessaria. Eppure io alla fine chi sono? Nessuno. 

Sono solo un tizio che ogni tanto, quando scoppia una discussione sul Ponte, interviene portando alcune informazioni che a dire il vero sono alla portata di tutti:

a) Lo Stretto è largo 3 km.

b) La profondità non rende possibile piantare piloni nella zona centrale.

c) Non esiste (ancora) una tecnologia che ci consenta di costruire ponti con una campata molto superiore ai 2 km. 

Il ponte di Akashi, che per vent'anni ha mantenuto il record di campata più lunga.


Il punto a è autoevidente (controllate pure su Google Maps) e non è destinato a cambiare per qualche milione di anni. Il punto b forse un giorno lontano si potrà mettere in discussione (ogni tanto in effetti si riparla di soluzioni alternative, il famoso tunnel). Il punto c è il più controverso, e si basa soprattutto su un'osservazione empirica: la campata unica più lunga mai costruita dall'uomo è di 2 km. Il ponte sullo Stretto dovrebbe superare il record mondiale, e non di poco; di quasi il 50%: è possibile? Chi parla di costruirlo in tempi brevi sostiene (o finge di sostenere) che sì, è possibile. Del resto almeno un progetto per una campata di 3 km c'è, qualche ingegnere e architetto l'hanno firmato; c'è già il cantiere, anzi stiamo già pagando le penali all'impresa che ha vinto l'appalto. Penali milionarie che hanno fatto pensare a più di un governante: ma tanto vale che paghiamo un po' di più e lo facciamo davvero. 

Punto di vista perfino comprensibile... e tuttavia il ponte non si è fatto lo stesso, credo per i soliti tre motivi che sono più forti di qualsiasi obiezione: lo Stretto continua a essere lungo 3 km, la profondità non rende possibile piantare piloni in mezzo, e una campata più lunga di 2 km non s'è ancora vista. Tutto qui.

Di solito chi sostiene il Ponte parla della necessità di innovare, di fornire collegamenti più veloci e efficienti, e perché no, di stupire il mondo con un'opera unica al mondo. Tutte esigenze condivisibili, e tuttavia dopo averle espresse a me piace intervenire ricordando che lo Stretto rimane lungo 3 km; la profondità continua a non rendere possibile piantare piloni in mezzo, e la tecnologia non fa quel passo necessario a permetterci di costruire ponti con una campata centrale superiore ai 2 km. 

E la discussione dovrebbe finire qui. Invece di solito è qui che comincia. Perché il mio interlocutore – quello che difende la necessità di innovare, di collegamenti più veloci ed efficienti, ma anche, perché no, di una maxiopera che richiamerebbe l'attenzione del mondo intero – a quel punto l'interlocutore se la prende con me. Perché? 

Perché conosco la geografia.

Se gli faccio presente che lo Stretto è lungo 3 km, mi accusa di non credere alle innovazioni. Siccome gli spiego che non si possono piantare piloni nella zona centrale, mi risponde che non capisco la necessità di collegamenti più veloci ed efficienti tra la Sicilia e il continente. Siccome gli ricordo che non esistono al mondo campate più lunghe di 2 km, mi accusa di sabotare la maxiopera, di cospirare contro l'immagine internazionale dell'Italia. 

E dopo un po' che si discute così, di solito avviene questo fenomeno per cui sembra che il vero motivo per cui il ponte non si fa non siano i 3 km, né la profondità: no, il vero motivo sarebbe la mia ostilità al progetto. Mia e di chissà quanti altri milioni di persone che io con le mie opinioni rappresenterei: siamo noi, noi nemici delle innovazioni, dei collegamenti e del made in Italy, quelli che rendono impossibile ai siciliani arrivare in Calabria in treno. Pensa che roba: c'è il progetto, c'è il cantiere, ci sono già gli operai pronti con gli utensili in mano, e li stiamo già pagando; e però il ponte non si fa perché il signorino, che sarei io, conosce la geografia e quindi pesta i piedi: no, no no, mi dispiace sono tre chilometri, fermi tutti. 


Ma non è vero

– e anche se fosse, sai che c'è? Volete il ponte? 

Va bene, fatelo. 

Se è la mia ostilità a tenere lontana Scilla da Cariddi, ebbene la mia ostilità può cedere di schianto, con un atto performativo: ecco, smetto di oppormi al Ponte; fatelo pure.

Lo farete?

No, non subito. 

E si capisce: i km sono ancora tre; la profondità è ancora eccessiva, e nel mondo nessuno sta veramente cercando di costruire campate di tre chilometri. 

Invece molti sostenitori del progetto, in buona fede o meno, si comportano come se da qualche parte ci fosse un Movimento No Pont disposto a sabotare la gettata dei piloni: non fosse per questi No Pont, ormai Messina e Reggio sarebbero una città sola; ma siccome sono dappertutto, camuffati tra il popolo e le istituzioni... niente da fare, il Ponte ancora non si fa: il che almeno ci consente di ripromettere la stessa cosa a ogni tornata elettorale. 

È un meccanismo così rodato che ormai anch'io ho la sensazione di farne parte, ogni volta che il politico di turno tira fuori l'argomento e quelli come me recitano la parte degli oppositori. Come se fossimo noi il motivo per cui il ponte non si fa: non la geografia, non i 3 km, non la profondità, non i limiti dei materiali e delle tecnologie, no: sarei io, coi miei discorsetti on line, col mio scetticismo di maniera.

Come se a me alla fine poi dispiacesse il ponte in sé: e invece no, giuro, non ho mai bloccato un cantiere, non ho mai boicottato nessuna impresa, non solo: il giorno che si farà ne sarò contento. 

Ma non si fa.

E perché non si fa, secondo voi?


(PS: in una prima versione di questo pezzo si citava ancora il ponte di Akashi come la campata unica più lunga del mondo. Questo malgrado già da un anno sui Dardanelli sia stato inaugurato il ponte della battaglia di Gallipoli del 1915, che supera la campata di Akashi di... una ventina di metri. Ringrazio il commentatore che mi ha avvisato dell'errore. Chi insiste sul fatto che possiamo costruire il ponte sullo Stretto, sostiene di poter migliorare il record mondiale di quasi un km. E lo sostiene da trent'anni. E in trent'anni non abbiamo visto niente, forse non avevamo abbastanza fede). 

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Giuliano Ferrara invoca l'apocalisse di fuoco, digital art

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Bisogna che un’apocalisse sacrosanta di fuoco costringa le ributtanti milizie dello stupro e dell’eccidio a fare retromarcia... (Giuliano Ferrara, il Foglio, 15/3/2023) 

Giuliano Ferrara è stato tante cose nella sua vita – di biografie n'è piena la rete – e forse i più giovani non sospettano quanto sia stata ingombrante la sua figura per vent'anni e più, il berlusconiano con pretese culturali che proprio per questo andava irriso più degli altri, l'agente provocatore da cui ci si faceva provocare più volentieri perché almeno si aveva la sensazione di giocarsela su un piano elevato. Anche se poi per quanto elevato fosse il piano si finiva lo stesso a torte in faccia. Giuliano Ferrara è stato anche un neocon, un appassionato sostenitore degli interventi militari dell'era Bush Jr, nel breve periodo in cui questa cosa tirava, e per coincidenza si trattava anche del periodo in cui Berlusconi finalmente aveva trionfato sugli avversari, stava al potere e non sapeva che farsene. Bisognava trovare nuove battaglie e l'11 settembre /fu una manna dal cielo/ /cascò proprio a fagiolo/ fu provvidenziale per il suo personaggio. Tutte guerre inutili, mal combattute e deleterie, ma nel frattempo Giuliano Ferrara era altrove (a far cosa? Ah già, a salvare i feti dal genocidio).


Giuliano Ferrara è obeso, il che ha reso sempre un po' più difficile criticarlo senza indulgere nel fatshaming – lui stesso è stato abbastanza astuto da mantenere la sua stazza in primo piano, da farsene scudo. L'obesità lo espone a seri rischi di salute, per cui a un certo punto della sua vita Ferrara ha dovuto cominciare a prendersela un po' più calma, a costruirsi un personaggio più riflessivo, di intellettuale sardonico e molti ci sono cascati, molti hanno trovato comodo cascarci. Non è vero quasi nulla, l'intellettualismo di Ferrara è una posa, le sue basi culturali malferme, il suo gaddismo finto come l'ottone e basta ancora un qualsiasi picco glicemico per tirargli fuori l'animale. Ferrara, come tutti, è stanco di questa guerra che non è breve e risolutiva come tutti speravamo che fosse; del resto non succede così a qualsiasi guerra? ogni volta deve essere breve e risolutiva, magari l'ultima. I russi le prendono, e poi le prendono, e poi le prendono ancora, insomma continuano a prenderle eppure restano lì: è snervante, non dite di no. Un giorno qualsiasi Ferrara si stanca e decide di invocare gli "angeli sterminatori", che poi sarebbero – par di capire – l'aviazione Nato. Insomma è ora di superare certe ipocrisie, dichiarare guerra alla Russia o anche no, bombardare subito senza perder tempo in formalità. Dopo un anno di battaglie, con un numero di vittime che già rivaleggia con quello di alcuni dei più grandi eventi bellici dell'era contemporanea, si tratterebbe di ratificare che la terza guerra mondiale è già scoppiata, e quale sarebbe il casus belli? Hanno sparato a un arciduca, defenestrato i messi imperiali? Beh, quasi. Hanno dato del cazzaro a Crosetto. Accidenti, queste cose non si fanno. Non che Crosetto non stia facendo il cazzaro – Ferrara non ci prova nemmeno a difenderlo – ma è il nostro ministro della Difesa, "right or wrong", e quindi basta, adesso bisogna bruciare tutto, più precisamente l'Ucraina, quell'eroica nazione che senz'altro preferisce essere bruciata che ceduta al nemico. Il russo deve capire che anche a noi piace Wagner, nel senso del compositore: Ferrara scrive proprio così (no, in effetti lo scrive peggio). Qualcuno deve pure il falco, qualcuno deve pure invocare morte e distruzione in modo che risulti più moderato questo nostro temporeggiare, questo nostro tollerare un po' di morte, accontentarci di un po' di distruzione. 

Giuliano Ferrara, sono già passati nove anni, un mattino si svegliò dichiarando una "guerra di religione" contro l'Isis: altro che polizia internazionale, ci spiegava, contro la violenza dei jihadisti serviva una "violenza incomparabilmente superiore". Anche quella volta, cos'era successo di intollerabile? Avevano decapitato un giornalista americano. Come rappresaglia a un bombardamento. Per cui, insomma, una violenza circoscritta (l'esecuzione di un ostaggio) era stata usata per rispondere a una violenza già molto superiore (un bombardamento), ma sono finezze che la glicemia non sempre consente di apprezzare. Si intravede comunque un pattern, l'uomo reagisce allo stesso impulso: hanno offeso un uomo bianco che mi rappresenta; ha la mia stazza (Crosetto) o fa la mia professione (il reporter James Foley). E reagisce sempre allo stesso modo: invocando l'escalation militare di una Potenza Superiore che Ferrara nella vita ha sempre cercato e ha contorni ambigui – tanto tempo fa era Berlusconi, più di recente la Nato, più spesso il Pentagono, ma insomma è qualcuno potentissimo che vince tutte le battaglie per definizione, e se non le vince non è per debolezza ma perché non le vuole combattere davvero, Giuliano Ferrara ha 71 anni e ancora quando lo minacciano pesta i piedi e chiama papà. 

Giuliano Ferrara, come tutti noi, è convinto di avere ragione. Non solo per gli argomenti, che di volta in volta hanno a che fare con la democrazia, la libertà, sissì vabbe' non è che ci creda così tanto neanche lui: Ferrara è convinto di avere ragione perché sta dalla parte del più forte. È sempre stato dalla parte del più forte, che quando era ragazzo era il movimentismo, poi il Partito (incidentalmente, il partito dove lavorava suo padre e dove ha lavorato anche lui), poi la Rai finché non lo ha pagato meglio Berlusconi, poi Berlusconi, poi Washington, tutti fari di cultura e democrazia e libertà e insomma cosa aspettano questi fari ad accendersi sul serio al massimo voltaggio e incenerire i nemici di Giuliano Ferrara. Non varrebbe la pena di parlarne se la sua sindrome non fosse la nostra: siamo talmente abituati a guerre asimmetriche che non capiamo che questa non lo è. Ciò malgrado anche le guerre asimmetriche non è che siano esattamente andate come ritenevamo necessario che andassero: ce lo ricordiamo l'Afganistan? No, è acqua troppo passata. Ma insomma il nostro fastidio per un nemico che non si ritira è lo stesso che proviamo per un insetto che continua a ronzarci attorno: l'idea che una guerra contro la Russia sia una guerra totale non ci passa nemmeno per la testa, cos'è poi una guerra totale? Un anno fa temevamo di passare l'inverno al freddo (agli ucraini è successo), oggi ci si lamenta perché le auto elettriche non sono competitive – non tra dieci anni: adesso. Vogliamo vincere la guerra ma risparmiarci anche dei soldi, perché siamo fatti così? 

È possibile che settant'anni di responsabilità limitata in politica estera ci abbiano un po' viziato? Siamo convinti che da qualche parte si trovi un esercito potentissimo, soprattutto un'aviazione potentissima, che sconfiggerà sempre i nostri nemici, così come ha sconfitto noi. E ogni guerra ci sembra un gioco delle parti in attesa che questa Violenza Incomparabilmente Superiore non si manifesti in tutta la sua gloria. Avevamo il duce e la sua arma segreta; quando sono stati spazzati via abbiamo accolto gli americani come il nuovo duce e abbiamo dato per scontato che l'arma segreta l'avessero loro. Dopodiché scriviamo più o meno gli stessi corsivi del 1941, magari un po' peggio perché almeno la scuola gentiliana un po' di retorica te la lasciava; laddove Ferrara si barcamena tra un anglismo e l'altro come un menager brianzolo. Se davvero il Pentagono gli desse retta, sarebbe il primo a stupirsi di essere stato decifrato e compreso: quello tra falchi e colombe è sempre un gioco delle parti, anche in Russia c'è chi propone di spianare Polonia e Lituania. Nel frattempo il calendario va avanti, e ogni giorno di guerra in più cresce la possibilità di un incidente nucleare.

L'incidente nucleare non dev'essere per forza una bomba che distrugga qualche città. Più facilmente sarà una fuga radioattiva da qualche reattore, qualcosa che i posteri registreranno senza troppo sgomento – volevate l'energia nucleare e volevate la guerra di posizione, nello stesso continente? nella stessa nazione? A loro sembrerà la conclusione inevitabile. Non causerà necessariamente migliaia di morti, o magari lo farà col tempo, si sa che le radiazioni hanno tutto il tempo del mondo per danneggiare noi e nostri figli. I nostri figli, già. Ferrara non ne ha. E in fondo è un peccato: così tanti padri, così niente figli. 

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Questa destra tolemaica

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  – Questa destra è tolemaica. Certo, se glielo chiedi sono passati anche loro all'eliocentrismo copernicano. I più preparati riusciranno anche a borbottarti qualcosa della relatività ristretta, ma è un'adesione di facciata: dentro di loro, il Globo Terracqueo è ancora l'universo intero, e l'Italia ne occupa un pezzo importante. Siamo ormai governati da quelli che ai tempi dei marò votavano il sondaggio di Libero: siete favorevoli a liberarli con un blitz militare? Chi al tempo scriveva queste puttanate sapeva benissimo che una guerra contro l'Unione Indiana era fuori discussione; chi governa adesso forse per un attimo ci ha creduto: insomma sono indiani, non esiste che abbiano un esercito più preparato di noi bianchi. Un'analoga difficoltà percettiva impedisce di prendere atto che le correnti migratorie esistono, da decenni: che interessano milioni di persone, e scaturiscono da questioni economiche e sociali che non possiamo svuotare col cucchiaio. A definirla tolemaica, questa destra, in fondo la si sopravvaluta perché già le ultime mappe geocentriche mostravano chiaramente che l'Africa e l'Asia sono molto, molto più grandi della nostra piccola penisola. Questa destra lo sa, ma non ci crede. O meglio: lo sa, ma decide di credere il contrario. La radice della sua fede sta in una negazione: non è vero che siamo un piccolo mondo nell'universo; proprio perché lo dicono le mappe, e lo confermano i numeri, noi affermeremo il contrario con tutta la forza della nostra volontà, e voi votateci per questo. Mappe e numeri continueranno a darci torto e noi continueremo a inventarci qualcosa. In effetti siamo bravi in questo: nell'inventarci qualcosa.


– Questa destra è creativa. Non tutti i complottismi sono di destra, ma prima o poi arrivano lì, perché forse tutti i complottismi hanno una base paranoica sottesa a una certa concezione tolemaica del nostro essere ancora al centro dell'universo. È impossibile che gli africani vogliano venire in Italia semplicemente perché è il primo scalo accessibile verso l'Europa: ci dev'essere qualcosa dietro, è chiaro che qualcuno ci odia e lo fa apposta, vengono qui apposta per darci fastidio, inoltre qualcuno li paga. Ieri era il malvagio Soros, mentre Putin ci difendeva: adesso però Putin è diventato un nemico e quindi è lui che paga la Wagner che convince gli africani a venire qui, ecco, è tutto risolto e ce lo siamo inventati in un pomeriggio, siamo o non siamo bravi in queste cose? I nostri bisnonni si inventarono l'Arma Segreta che avrebbe fatto vincere Mussolini anche quando le pigliava da tutte le parti: cioè non è che s'inventarono realmente un'Arma Segreta: quello lo fecero gli scienziati che però ormai lavoravano tutti per gli americani (e qualcuno ancora per i tedeschi). I nostri bisnonni si inventarono la leggenda dell'arma segreta, ed è quello che continuiamo a fare noi: ci inventiamo leggende. Ci riconosci sin da piccoli, a scuola siamo quelli che presi in castagna puntiamo il dito sul compagno di banco, una volte su cinque la maestra ci casca. Siamo scarsi in tutto, ma è colpa del Comunismo. O dell'Euro. Anche un po' della Nato – no, come non detto, è colpa di Putin. 

– Questa destra è nostalgica di cose che nemmeno più capisce. È una fanatica dell'identità, manda a memoria date e discorsi e li risputa fuori a casaccio, completamente decontestualizzati. Quali meccanismi mentali possono portare uno che dovrebbe fare il manager a citare in una mail ai sottoposti un discorso di Mussolini, e non un banale spezzeremo le reni a qualcosa, ma l'assunzione della responsabilità politica del delitto Matteotti? Le parole che in quel contesto avevano una lucidità impressionante diventano un mantra senza senso: proprio chi è così lesto a citarle mostra di non aver capito a cosa servivano. Poi uno dice che non vanno chiamati fascisti – in effetti è una parola pesante, anche nel Ventennio il fascismo era una dottrina, una mistica, si studiava a scuola, e questa destra chissà se avrebbe passato gli esami. Magari copiando. 

– Questa destra è malmatura, voglio dire: hanno cinquant'anni e fanno le feste di compleanno. Le feste di compleanno. Devono berci sopra, devono cantare, hanno vinto e questo ci si aspetta dai vincitori. Non pronte soluzioni a problemi che sono ben al di sopra delle loro capacità: quindi brindano e chi fa notare che la cosa non ha senso è soltanto invidioso. Salvini e aa Meloni hanno sgobbato tanto per arrivare dove sono: e adesso festeggiano. Che altro dovrebbero fare e che altro dovremmo aspettarci da loro? il karaoke. Poi si stancheranno, e una mattina qualsiasi con un cerchio alla testa manderanno tutto a monte come Salvini quella volta al Papeete. Cercheremo qualche altro tecnico che raccolga i cocci e magari scopriremo che non ce n'è più. 

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Il frate cancellato

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14 marzo: Beato Filippo Longo (XIII sec.), presidente delle suore clarisse


A Filippo Longo capitò di essere il settimo seguace di Francesco d'Assisi, quando era ancora una banda di mistici scalzi e potenzialmente sovversivi; poi di fare carriera prendendo ordini da un papa, e dirigendo un ordine femminile; e poi all'improvviso fu cancellato, come se non fosse mai esistito: al punto che è quasi per caso che conosciamo il suo nome oltre a un soprannome ("Longo") che gli deriverebbe dalla sua statura. Non sappiamo da dove venisse (comunque un posto qualsiasi, un borgo ai piedi del Subasio o di Rieti o del contado di Perugia, o di Teramo: nessuna città importante reclama Filippo Longo). 

Secondo Tommaso da Celano, primo biografo di Francesco, Filippo pur non avendo fatto studi particolari era un oratore particolarmente capace ("il Signore [gli] aveva toccato e purificato le labbra con il carbone ardente, così che parlava di Dio con mirabile dolcezza"). Forse è il motivo per cui Francesco lo portava con sé quando si reca a San Damiano a incontrare Chiara: affinché nessuno osasse sollevare il benché minimo sospetto su questi incontri, gli serviva un testimone convincente che potesse riferire i contenuti delle discussioni tra i due santi e garantirne l'ortodossia. 

In seguito Francesco parte per la Terrasanta e quando torna scopre che la predilezione di Filippo per Chiara e le sue consorelle si è trasformata in un vero e proprio incarico amministrativo: Filippo è diventato "primo Confessore, Visitatore, Correttore, e Presidente" delle suore che ancora non si chiamano clarisse ma monache di San Damiano. A conferirgli una tale autorità non poteva che essere stato il cardinale Ugolino dei Conti di Segni, il grande sponsor di Francesco e Chiara presso la curia di Roma. 

Francesco, che probabilmente senza Ugolino avrebbe rischiato più di un processo per eresia, questo tentativo neanche troppo velato di trasformare il suo movimento di poveri in un ordine gerarchico manovrato dalla curia non lo digeriva così bene. Lo si capisce da piccoli episodi come questo, riportato da Tommaso da Celano nella sua seconda biografia: appena scopre che Filippo ha fatto carriera come capo delle clarisse, lo destituisce immediatamente dichiarando: "I miei frati proprio per questo sono chiamati Minori, perché non presumano di diventare maggiori". Può darsi che semplicemente Francesco ritenesse Chiara e le sue sodali in grado di governarsi da sole. Filippo abbozza, ma Francesco è già malato e muore nel giro di qualche anno (1226); pochi mesi dopo Ugolino diventa papa Gregorio IX e rimette Filippo al suo posto di confessore e presidente delle clarisse. 

Sono gli anni in cui i francescani si dividono tra un'ala più oltranzista che vuole ritornare all'esempio del fondatore, e una maggioranza 'conventuale' ormai organizzata come un ordine religioso. Filippo dà la sensazione di essere uno dei tanti operatori di questa normalizzazione, ma come spesso accade c'è sempre qualcuno più normalizzatore di te che a un certo punto ti fa le scarpe e non è nemmeno escluso che a un certo punto Filippo sia caduto in disgrazia. Il suo nome viene citato tra i testimoni oculari consultati dai tre frati che nel 1246 stilano la "lettera di Greccio", un documento che accompagna una raccolta di testimonianze inedite su Francesco, finora ignorate dalle biografie. Questi tentativi di raffigurare un Francesco diverso da quello ufficiale vengono completamente fermati nel 1263, quando al Capitolo Generale di Pisa l'ordine francescano stabilisce di distruggere tutte le biografie del santo e sostituirle con l'unica omologata, la Legenda Maior compilata per l'occasione da Bonaventura di Bagnoregio, ministro generale dell'ordine. 

Bonaventura di Filippo Longo non fa menzione. Come se non fosse mai esistito: e se l'opera di cancellazione prevista dai francescani fosse stata completa, oggi non sapremmo nulla di lui. E in ogni caso non ne sappiamo molto. Secondo lo storico seicentesco Ludovico Jacobilli, specializzato in santi di Umbria e dintorni, i superiori lo avrebbero trasferito in Alvernia, dalle parti di Clermont-Ferrand, dove avrebbe continuato a stupire gli ascoltatori con le sue doti oratorie davvero innate, se anche il passaggio da Italia a Francia non le aveva appannate. Lo stesso Jacobilli ammette che altri cronisti lo danno per morto molto più vicino ad Assisi, ovvero a Perugia: e sepolto in uno dei convento di suore che dirigeva; il che forse era ammissibile prima di un'ulteriore normalizzazione degli ordini maschili e femminili: ma già ai tempi di Jacobilli risultava troppo difficile da accettare.

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