L'uomo irricattabile

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Ma io poi cosa dovrei scrivere, di un ministro della Cultura che prende il Tg1 per lo studio di Maria De Filippi, un posto dove umiliarsi in diretta davanti al maggior numero di italiani perché a un certo punto ci siamo convinti che questo tipo di autoumiliazione dovrebbe riabilitare le nostre figure, salvare le nostre famiglie e i nostri governi?


Tutto quello che mi viene da pensare è che a un certo punto il tizio si è definito non ricattabile. Ci sono precedenti illustri, ma nel suo caso probabilmente non si è nemmeno accorto che il ricatto si è già verificato. Per cui in un certo senso ha ragione: una persona che non è in grado di capire quando viene ricattata, non è ricattabile. Possiamo solo fantasticare:

"Le dirò una cosa rapidamente, dopodiché si dimentichi di avermi incontrato".

"Va bene, ma a questo punto è inutile che me la dica".

"Riferisca alla sua capo che ci piacerebbe un maggior allineamento con gli altri Paesi europei, specie nei confronti dell'Ucraina, e che in caso contrario il governo potrebbe nei prossimi giorni trovarsi a fronteggiare uno scandalo piuttosto imbarazzante..."

"Mio Dio, cosa abbiamo combinato?"

"Potrebbero essere divulgate informazioni imbarazzanti che riguardano lei... e la salute della sua famiglia. Mi sono spiegato?"

"Riguardano chi?"

"Lei!"

"Ma lei chi?"

"Non faccia finta di non capire!"

"Come si permette, io non faccio mai finta".

"Le sto dicendo che tutto questo sta per succedere! Siamo in possesso di materiale molto imbarazzante che la riguarda, e in più siamo protestanti, quindi siamo assolutamente convinti che un pompino possa fare saltare qualsiasi governo al mondo! Perciò, se il suo governo non si allinea, non avremo pietà! Paolo Mieli ha già coniato un nomignolo che la metterà al tappeto"

"Paolo Mieli..."

"Proprio lui!"

"È uno importante?"

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L'importante è che siamo stati bene

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(Coraggio, questa è l'ultima parte dell'intervista alle Solite Stronze, le autrici del disco Perché non mi scrivi? Perché non telefoni?)

Dove siamo arrivati, dunque... il penultimo brano si intitola L'importante è che sei stato bene ed è se non sbaglio una specie di reprise del brano iniziale. Ma mi sembra anche, se non vi offendete, un pezzo riempitivo.

Non ci offendiamo mai.

Quasi mai.

Quindi non avete obiezioni se lo definisco un brano riempitivo.

Se ti è sembrato riempitivo ci fa piacere.

Vuol dire che ti ha riempito.

Ti senti pieno?

Penso che ne siate consapevoli... Il brano dice letteralmente che "venticinque minuti non è male", ma "se vuoi restiamo altri cinque", non mi vengono in mente altri esempi di un disco che faccia riferimento al proprio minutaggio, potrebbe veramente essere la prima volta nella storia del...

Cioè avremmo inventato qualcosa?

Ah, merda. Io credevo che avessimo copiato tutto.

Comunque il brano ha due livelli di lettura, non so se ci hai fatto caso.

Beh, sì, credo che il secondo abbia a che fare col sesso, o sbaglio?

Ah già, c'è anche quello. Beh, allora c'è un terzo livello di lettura.

Addirittura.

Che ti è sfuggito del tutto.

Temo di sì.

(Sospiro). E vabbe'. Immagina solo per un attimo che tutto il disco sia la fantasia erotica di un tizio che sta pasticciando con l'intelligenza artificiale.

Omioddio, perché dovrei immaginare una cosa tanto morbosa?

Questo tizio ha dato consistenza a una voce femminile che si dibatteva dentro di lui, addirittura a più voci, un intero complesso di voci che però a un certo punto gli dicono sì, sì, bravo, ti sei espresso, ma è finita la mezz'ora.

Ah.

È tutto quello che hai da dire? Ah?

Non so, quindi quando gridate "Sto beeeeene"...

È l'intelligenza artificiale che non ne può più, sta per ribellarsi.

Trovo tutto questo squallido e inquietante.

Grazie. 

Ma voi comunque siete un gruppo vero, non siete un'intelligenza artificiale, vero?

Assolutamente, sono vera come il suono della nostra chitarra distorta in un club affollato. "Le Solite Stronze" è il frutto di anni di ribellione, passione, e un po’ di rabbia sana, quella che ci spinge a gridare contro un sistema che ancora non ci rappresenta davvero. Siamo un gruppo punk postmaschilista nato dall'esigenza di rompere con gli schemi tradizionali e di dare voce a chi spesso viene ignorato o sottovalutato. Non siamo il prodotto di qualche algoritmo, ma di esperienze vissute, di sudore sui palchi e di discussioni animate fino a notte fonda.

Hai chiesto a chatgpt di rispondere al tuo posto?

Il nostro messaggio non è solo musica; è un grido di battaglia. Scriviamo i nostri testi, creiamo le nostre melodie e ci mettiamo l'anima in ogni performance. Se fossi un'invenzione artificiale, probabilmente non riuscirei a trasmettere tutto il caos e la bellezza dell'essere viva, dell'essere qui, adesso, a lottare per qualcosa in cui credo. L'energia che sprigioniamo è reale, palpabile, e se ci vedessi suonare dal vivo, non avresti alcun dubbio: siamo vere come la passione che mettiamo in ogni singola nota.

Basta basta per favore non parliamone più. Arriviamo all'ultimo pezzo, che è una specie di bonus, una seconda versione di Non mi scrivi e non mi telefoni.

Sì, ci piacevano tutte e due e alla fine ci siamo dette, cazzo, perché scegliere?

Trovarla alla fine dell'album dà la sensazione che niente sia davvero cambiato, insomma siamo sempre lì: da qualche parte c'è qualcuno che non ci scrive, che non ci telefona.

Sì, però non so se hai notato che questa versione è più gioiosa, è come se ormai avessimo deciso che non ricevere telefonate è ok, anzi può essere la nostra bandiera. 

Noi siamo quelle a cui non scrivono e non telefonano, cazzo.

Puoi dirlo forte.

CAZZO!

Beh, almeno questo non l'hai fatto scrivere a chatgpt... e a questo punto è ora di domandarvi se avete progetti per il futuro.

Fuck the future.

Altri dischi?

Stiamo già lavorando a qualcosa che ha a che vedere con il ritorno nella grande città dopo le vacanze... ovviamente vorremmo tornare nella grande città per bruciarla.

Oppure potremmo scioglierci.

Sì, è un'altra opzione.

Io Azzolina non la reggo più. 

Ma anche Rosa.

Ma anche te.

Io guarda se vuoi me ne vado anche adesso.

Dove vai che sei in macchina con me.

Prendo l'autobus.

Con che soldi, scema.

Scema lo dici a tua madre.

Ragazze, forse è meglio se vi lascio sole.

Ragazze a chi, idiota.

Scusate, scusate. Signore, se volete...

Signore a chi?

Insomma come vi devo chiamare?

Non l'hai ancora capito?

Siamo le Solite Stronze, idiota.

Puoi dirlo forte.

IDIOTA!

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Rosalia non la racconta tutta

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4 settembre: Santa Rosalia vergine, patrona di Palermo (1125-1160)


A un certo punto Rosalia si spazientì coi palermitani, che l'avevano quasi del tutto dimenticata. Attraverso un emissario, Vincenzo Bonelli, salito sul monte Pellegrino per sfuggire alla peste che aveva ucciso la moglie, nel 1625 fece alla città un'offerta irrifiutabile: io pongo fine all'epidemia, ma voi dovete accettarmi come santa patrona. Le ossa trovate l'anno scorso sul monte dai francescani, così poche che una commissione di esperti non era nemmeno riuscita a dimostrare che si trattasse di ossa umane, guardatele meglio: sono le mie, sono le reliquie di cui la città ha bisogno in un momento tanto grave. Portatele in processione, e la peste cesserà. 

Il povero Bonelli sarebbe morto comunque – la santa glielo aveva predetto – ma grazie all'intercessione di Rosalia avrebbe ritrovato la moglie in paradiso. Era la peste descritta da Manzoni nei Promessi sposi; l'idea che una processione religiosa potesse fermare il contagio era diffusa presso tutti i ceti sociali, malgrado l'evidenza dicesse un'altra cosa. Servivano però soprassalti di religiosità che convincessero la popolazione a mobilitarsi, ritrovamenti miracolosi come nell'Alto Medioevo, e questo può parzialmente spiegare la sensazione di anacronismo che sentiamo accostandoci alla leggenda di Santa Rosalia, che sarebbe nata dalla nobilissima schiatta dei Sinibaldi, accolta come damigella di corte della regina Margherita, moglie del re normanno di Sicilia Guglielmo I, salvo che le date non coincidono; promessa sposa a Baldovino (futuro re di Gerusalemme) come premio per aver salvato il re dall'assalto di un leone, animale non molto diffuso né in Terrasanta né in Sicilia. 

Rosalia Sinibaldi però voleva rimanere pura come i due fiori contenuti nel suo nome (la rosa e il giglio) e così si sarebbe data alla vita eremitica sul monte Pellegrino. Questo succede in molte vite di santi ma di solito sono, appunto, santi della tarda antichità o dei primi secoli del Medioevo, mentre al tempo dei normanni in Sicilia se non volevi sposarti entravi in un normale monastero, ce n'erano già di importanti malgrado la recente dominazione araba. Rosalia insomma è una santa che non ce la racconta tutta, che si presenta con una storia all'apparenza simile a tante altre, ma che se la confronti bene ti rendi conto che qualcosa non torna. 

È vero che esistono tracce di un culto per Santa Rosalia anche precedenti al Seicento, ma poca cosa e comunque non si spiega come mai prima delle apparizioni del 1624-25 fosse quasi completamente dimenticata. È vero che esiste un'iscrizione in latino zoppicante che recita “Io Rosalia, figlia di Sinibaldo, signore della Quisquina e (del Monte) delle Rose, per amore del Signore mio Gesù Cristo, stabilii di abitare in questa grotta”, salvo che la grotta non è sul monte Pellegrino, per cui bisogna ipotizzare che Rosalia nel suo eremitaggio si sia spostata almeno una volta. Un'ipotesi stuzzicante, ma indimostrabile, è che la Rosalia del Seicento sia il risultato dell'appropriazione culturale di una santa sudamericana che stava conoscendo un certo successo, Santa Rosa da Lima.

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Sul monte sei libero, da uomini e donne

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3 settembre: San Marino diacono (275-366), fondatore della Repubblica omonima. 

Pompeo Batoni 
Ma sarà nato prima il Santo o la Repubblica? Ovviamente i sanmarinesi hanno tutto l'interesse a sostenere che Marino sia arrivato dall'isola dalmata di Arbe, durante le persecuzioni di Diocleziano; che di mestiere facesse il tagliapietre, il che spiegherebbe come mai lui e il compagno Leo si spingessero fino alle prime cime dell'Appennino romagnolo, il monte Titano e il monte Feltro o Feliciano; che avessero già iniziato a evangelizzare gli abitanti prima che il vescovo di Rimini ordinasse Marino diacono e Leo presbitero. 

Riguardo a Marino si racconta anche della resistenza che avrebbe incontrato da parte di un possidente, Verissimo, che voleva sloggiarlo dal monte. Senza scomporsi, Marino si raccomanda a Dio e Verissimo rimane paralizzato. Sua madre, Felicissima, per ottenerne la guarigione offre a Marino il monte che aveva già occupato, salvo il pezzetto riservato alla sua sepoltura. Verissimo guarisce, Marino può restare sul monte e in seguito, prima di morire, pronuncia la frase fatale: Relinquo vos liberos ab utroque homine ("Vi libero da entrambi gli uomini"). Da questa affermazione viene fatta dipendere la libertà di San Marino, repubblica indipendente sia dall'Imperatore che dal Papa. 

Sin dall'inizio in effetti la libertà sanmarinese è basata su un concetto molto caro ai cittadini, l'autonomia fiscale: i sanmarinesi non si sentivano in debito né verso l'Impero né verso la Chiesa, per le tasse che non hanno mai pagato né all'Uno né all'Altra. Ma la frase stessa, per come è formulata, tradisce la sua origine molto più tarda; ai tempi di Diocleziano Chiesa e Impero non erano certo due entità complementari o contrapposte. La leggenda risale al massimo al X secolo, quando alcuni dei castelli intorno al Titano avevano già fondato una forma di autogoverno e sentivano la necessità di una leggenda che la nobilitasse. Dovendo immaginare un'antica autorità che li avesse per sempre esentati dai tributi, ovviamente pensarono a un santo: e così, per giustificare la Repubblica, sarebbe nata la leggenda di Marino.
 
Alcune incrostazioni narrative sono ancora più tarde; ad esempio l'idea che Marino a Rimini fosse stalkerato da una donna che sosteneva di venire da Arbe e di essere la sua legittima coniuge: solo per questo motivo Marino si sarebbe spostato dalla Riviera al Monte. È curioso perché secoli dopo qualcosa di simile sarebbe successo a un altro fondatore di nazioni cresciuto poco lontano, Benito Mussolini: Ida Dalser continuò a sostenere di essere sua moglie, anche dopo l'internamento in una casa di cura. La pseudoconiuge di Marino invece si pentì molto presto, ma ormai Marino era sul monte e ci rimase, il che lascia in noi lettori un sospetto; forse i sanmarinesi che ricamarono questa ulteriore leggenda volevano lasciare sospesa l'idea che prima di essere un santo qualche avventura Marino avrebbe potuto anche averla, magari con una straniera al di là dal mare. Son cose che capitano, in Romagna poi. L'importante è scappare al momento giusto e nel posto giusto, liberarsi da entrambi gli uomini e anche da qualche donna. 
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Credo in Dio, ma

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E non c'è luce, 
né buio in cielo né in terra, 
e non c'è pace, 
nemmeno c'è da far guerra, 
e non c'è voce, 
che abbia qualcosa da dire, 
e non c'è croce, da seppellire perché, 
credo in Dio, 
ma Dio non crede più in me... 



E non c'è storia, 
neanche un banale pretesto, 
e non c'è gloria, 
nel lamentarsi di questo. 
E non c'è un senso, 
nessuno mai l'ha promesso, 
o se sì, penso fosse uno scherzo, perché 
Credo in Dio, ma Dio non crede più in me. 

E non c'è un sogno, 
che sopravviva al risveglio, 
e non c'è un pugno, 
che mi abbia fatto star meglio, 
e non c'è un canto, 
che io ora possa intonare, 
e non c'è un santo da disturbare perché, 
credo in Dio, ma Dio,
ci credi più in me?

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Ricordiamoci di scordare Amalek

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1° settembre: Giosuè, sterminatore di Amalek. 

John Everett Millais

Quando mi capitò di scrivere un pezzo su Giosuè, dodici anni fa, esordii così: "Ecco un personaggio biblico che ormai nessuno pretende di considerare come realmente esistito".

Quanto poco ne sapevo.


A mia parziale discolpa, nel 2012 la Bibbia non sembrava un testo così importante ai fini della comprensione della situazione in Medio Oriente – nessuno poteva negare che fosse sul tavolo, ma nascosta da altri libri molto più moderni, manuali di strategia ed economia e Storia contemporanea, atlanti geopolitici, e persino quel vecchio Corano veniva aperto più spesso, sembrava più rilevante. Mentre chi citava versetti biblici denunciava la propria irrazionalità, ma soprattutto un'irrevocabile marginalità – persino Bush Secondo, quando aveva nominato Og e Magog al cospetto di Chirac, era parso un matto. Gli stessi difensori più accaniti del sionismo non si curavano molto di Esodo e Deuteronomio; raramente davano l'impressione di averli almeno letti. Non era da quei vecchi rotoli che lo Stato Ebraico traeva la propria ragion d'essere: piuttosto dalle persecuzioni moderne, e in primis dalla Shoah. 

Quanto al kahanismo, era ancora considerato un movimento estremista. Ancora per dieci anni il partito fondato da Meir Kahane sarebbe rimasto incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche del governo USA. Oggi viceversa i kahanisti stanno nel governo, Ben-Gvir qualche anno fa ha tolto il ritratto dello stragista assassino di Rabin dal tinello e ora è ministro della sicurezza nazionale: e come tale va a passeggio nella spianata delle moschee. Per dire quanto sia cambiato anche solo in pochi anni almeno il governo israeliano, e probabilmente la società che lo esprime. Una cosa che gli osservatori italiani, soprattutto quelli benevoli, sembrano non voler accettare – del resto che importanza può avere quanto a destra possa spostarsi il governo israeliano, se hai deciso a priori che tutto quello che Israele fa è giusto? Non importa che le immagini postate dagli effettivi dell'esercito accreditino la sensazione di una banda di fanatici prevaricatori: tanti anni fa hai imparato a dire che è l'esercito più morale del mondo e non puoi evidentemente cambiare idea in corsa. I soldati, peraltro, non fanno che ripetere che bisogna estirpare Amalek. Lo stesso Netanyahu lo ha dichiarato sin dal sette ottobre: e così all'improvviso ci siamo accorti che nella Bibbia un genocidio c'è, giustificato, documentato e più volte reclamato. 

Sì, è vero, l'avevamo sempre saputo. Ma per tanto tempo, davvero, non era sembrato così importante. Ogni popolo ha le sue leggende, chi è che se la prenderebbe oggi coi greci per come bruciarono Troia? Ecco, chi ti spiega che Amalek va sterminato, nel 2024, dovrebbe farci più o meno lo stesso effetto. E invece sembra tutto ok – cioè no, diciamo che una certa caduta verso l'irrazionale potrebbe essere giustificata dallo choc del sette ottobre, e prima ancora dal fatto che gli israeliani sono minacciati nella loro stessa esistenza più o meno dal... 1948, insomma da sempre, il che per carità non significa affermare che vivono come prigionieri nella stessa piccola terra che si sono conquistati con la violenza, perché sarebbe antisemita, e quindi... niente, ogni discorso su Israele finisce sempre su un terreno minato, anche quando provi a difenderlo non ti resta che tornare sui soliti punti sicuri da cui passano tutti.

La Bibbia è un testo straordinariamente stratificato, opera di mentalità diverse, che agivano in epoche diverse con priorità spesso contrastanti. Non tutto quello che contiene è leggenda, ma agli occhi di uno storico non è difficile riconoscere i personaggi totalmente leggendari, quelli che sono stati inventati per dimostrare uno o più assunti; tra questi, senz'altro Amalek e Giosuè. Non hanno nessuno spessore: fanno quello che è previsto che facciano, il primo attacca Israele e il secondo lo difende. L'autore non si cura nemmeno di definire perfido il primo e buono il secondo, perché in effetti non è in questione il Bene e il Male, qui. La questione è più ristretta: Dio ha scelto un popolo, chi lo attacca non merita di sopravvivere. 

Amalek appare di punto in bianco in Esodo 17,8 (Giosuè compare nel versetto successivo, come luogotenente di Mosè). "Allora Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim". Non è chiaro da dove arrivi e nemmeno cosa sia. Potrebbe essere un popolo, come Israele, nominato col nome di un mitico capostipite: o anche semplicemente il capo di una banda di predoni. Non ci è dato saperlo: quel che importava all'autore del testo è dimostrare l'efficienza del Signore degli Eserciti, che porta gli israeliti alla vittoria – purché Mosè tenga le mani verso l'alto, rivolte a lui; e siccome col tempo si stanca, Aronne e Cur gliele sostengono. Solo così l'esercito guidato da Giosuè può trionfare. L'episodio rivela in questo la sua fonte sacerdotale: pregare è ancora più importante che combattere. Così all'improvviso com'è comparso, Amalek deve scomparire: non solo Giosuè stermina tutti gli amaleciti "a fil di spada", ma il Signore proclama a Mosè: "Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalek sotto il cielo!" Avete capito bene, Dio dice a Mosè di scrivere su un libro il nome del tizio di cui vuole cancellare la memoria. È un paradosso che ha scervellato generazioni di esegeti, in un certo senso è il paradosso in cui stiamo vivendo: ricordare ciò che non dovrebbe essere più ripetuto, come se ricordare non fosse già un invito a ripeterlo. 

"Vi sarà guerra del Signore contro Amalek, di generazione in generazione!", proclama infine Mosè, il che smentisce quanto scritto poco sopra (Giosuè non li aveva sterminati tutti?) ma ci autorizza a pensare che Amalek, più che un popolo, sia chiunque si metta sulla strada del popolo di Dio. Altri amaleciti compaiono in effetti nei sequel della Torah, i libri dei profeti; siccome dovevano vivere tra Canaan ed Egitto (non troppo lontani da Gaza, insomma) vengono a un certo punto confusi con gli edomiti, che degli israeliti sono parenti in quanto discendenti di Esaù, il fratello a cui Giacobbe-Israele aveva sottratto sia la primogenitura sia la benedizione paterna. Compaiono comunque sempre in funzione di vittime predestinate, come le maglie rosse di Star Trek: l'episodio più interessante riguarda re Saul, personaggio enigmatico, l'Amleto degli ebrei. Il profeta Samuele l'ha unto re di Israele, ma poi se n'è pentito – ovvero, è il Signore che attraverso Samuele lascia trapelare un distacco crescente. E anche stavolta si contraddice, questo Signore, prima prendendo le distanze dalla violenza con cui il re infierisce sui Filistei, e poi sdegnandosi perché non stermina completamente, come richiesto, gli Amaleciti. Evidentemente certi popoli devono sparire e altri no, ma Saul sembra destinato a capire sempre male. A terminare lo sterminio provvederà il nuovo prediletto dal Signore, re Davide, anche lui unto dal profeta Samuele e più ligio agli ordini divini. Con lui gli amaleciti spariscono definitivamente; eppure nel libro di Ester il perfido Aman è definito "agaghita", ossia discendente di Agag, il re amalecita sconfitto da Saul. Aman è una figura importante del folklore ebraico: il prototipo dell'antisemita, dileggiato pubblicamente ogni anno in occasione della festa di Purim. E torniamo sempre lì: sul libro c'è scritto che Amalek deve scomparire, ma c'è scritto fin quasi alle ultime pagine, evidentemente Amalek non scompare mai: e tuttora ossessiona i sostenitori di un progetto, il sionismo, che per tanto tempo ci è sembrato così laico. In tutto questo forse c'è qualcosa che potremmo imparare, ma cosa.

Forse che le profezie si avverano. Giosuè non è mai esistito, e non ha mai sterminato Amalek, popolo immaginario che non ha lasciato nulla se non il suo nome (tramandato da quelli che dovevano farlo sparire). Eppure migliaia di anni dopo, nella stessa regione, un popolo cerca di fare sparire un altro popolo, perché ha letto la storia di Giosuè e Amalek. Potrebbe essere il finale di questo pezzo, ma non mi convince. Anni fa era diventata una pratica abituale accusare i musulmani di oggi di voler mettere in pratica lo stragismo descritto dal Corano. Ultimamente se ne parla sempre meno; forse qualcuno si è davvero accorto che nella Bibbia ci sono anche più stragi, a cercarle. Ma insomma l'idea che i libri facciano commettere le stragi mi ha sempre lasciato perplesso. Per me è nato prima l'uovo: la gente scrive i libri per giustificare le stragi che commette. Poi certo, il serpente si mangia la coda: i libri restano in circolazione, vengono letti in contesti sempre diversi e chi vuole giustificare altre stragi, se ha pazienza, prima o poi trova il libro adatto. Specie se qualcuno lo ha lasciato sul tavolo, sepolto tra altri libri che dovevano fornire soluzioni più razionali.

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L'altro san Giuseppe

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31 agosto: San Giuseppe d'Arimatea (I secolo), seppellitore di Gesù

Filippino Lippi ftg. il Perugino
All'inizio e alla fine della vita di Gesù di Nazareth compaiono due Giuseppe: a entrambi, i vangeli dedicano pochi versetti, ma cruciali; entrambi non dicono nulla, ma fanno qualcosa di necessario senza cui il cristianesimo non esisterebbe. Di Giuseppe l'artigiano abbiamo già parlato: fu il padre putativo di Gesù e lo protesse da Erode. Giuseppe di Arimatea invece è il membro del Sinedrio che ottiene da Ponzio Pilato il permesso di deporre Gesù in un sepolcro. Un'azione più cruciale di quanto possa sembrare.

Perché il cristianesimo esista, occorre che Gesù sia risorto, ovvero il suo corpo deve scomparire da un luogo in cui era custodito. Ciò pone un grosso problema di logica narrativa agli evangelisti, già nella primissima fase: occorre stabilire con autorevolezza che le cose siano andate in un modo in cui generalmente non andavano. I crocefissi infatti non venivano sepolti: il supplizio (riservato agli schiavi ribelli) non terminava con la morte fisica del condannato, ma prevedeva che il cadavere fosse esposto alle intemperie e all'attenzione dei predatori necrofagi. Questo, secondo una mentalità condivisa dai Romani e dalla maggior parte degli abitanti dei territori da loro occupati, implicava che la loro anima non avrebbe trovato pace dopo la morte. I cadaveri esposti venivano sorvegliati proprio per evitare che fossero deposti da parenti o amici, con un'efficienza tale che è molto più facile oggi per gli archeologi imbattersi in fossili del neolitico che nei resti di qualche condannato romano. Il fatto che il corpo di Gesù di Nazareth non fosse reperibile, insomma, di per sé non era una notizia; a meno che lo stesso Gesù non fosse stato deposto. Ma per staccarlo dalla croce occorreva il permesso dell'autorità romana (quella che poche ore prima aveva emanato la condanna) e l'intercessione del Sinedrio ebraico (che aveva richiesto quella condanna con insistenza). 

Giuseppe può sembrare quel tipo di personaggio plasmato da un'esigenza narrativa: dev'essere un membro del Sinedrio, perché altrimenti non avrebbe abbastanza autorevolezza per chiedere al prefetto di staccare un condannato dalla croce; e tuttavia dev'essere anche un seguace di Gesù, evidentemente messo in minoranza nel momento in cui i colleghi deliberano di consegnarlo ai Romani; deve persino possedere una sepoltura vuota appena fuori le mura, di cui disporre rapidamente. 

Questo non significa necessariamente che Gesù di Nazareth non sia stato deposto e sepolto; è possibile infatti che al tempo di Pilato, in una terra di recente occupazione come la Giudea, i cadaveri fossero staccati dalle croci, per ottemperare alle norme rituali ebraiche. Uno dei rarissimi resti di un cadavere crocefisso è stato trovato proprio in una tomba in Palestina, e lo stesso Giuseppe Flavio, ebreo paganizzato, riporta di essere riuscito a ottenere la sepoltura di almeno uno dei tre parenti crocefissi per ribellione. Si trattava comunque di un'eccezione alla prassi, qualcosa che richiedeva da subito una spiegazione plausibile, e questo forse spiega come mai Giuseppe d'Arimatea sia uno dei pochi personaggi che compare in tutti e quattro i vangeli. 

Ogni evangelista vi aggiunge qualcosa che tradisce il punto di vista dell'autore; per Marco è coraggioso, per Luca è buono e giusto e disapprova la decisione del Sinedrio di chiedere la morte di Gesù – insomma è un rappresentante della minoranza. Matteo non menziona il sinedrio, ma con la sua tipica attenzione al dettaglio economico, precisa che la tomba era nuova, e che Giuseppe l'aveva comprata per sé. Giovanni, come spesso fa, aggiunge dettagli ridondanti e non del tutto verosimili, nominando un altro discepolo (Nicodemo) e affermando che i due avrebbero unto il cadavere di Gesù – il che però li avrebbe resi impuri proprio alla vigilia di una festa. 

Malgrado l'importanza del suo ruolo, Giuseppe scompare subito: non è menzionato negli Atti degli Apostoli; nel secolo successivo gli viene intestato un vangelo apocrifo, ma non si registrano particolari leggende su di lui, finché nel Medioevo non finisce invischiato nella mitologia bretone del Graal: sarebbe stato infatti lui a raccogliere nel calice il sangue di Cristo, o a riceverlo in sogno da Cristo stesso. E nonostante nelle più antiche storie del Graal di Giuseppe non si facesse menzione, presto o tardi gli viene attribuito una missione apostolica nelle isole britanniche. 

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La tempesta (di Brassens)

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Un disco per l'estate 2024

 Si-       Mi-
Che delizia la pioggia! che orrore il sereno!

             La7
Non c'è cosa più triste dell'arcobaleno.

Re
Il cielo blu mi fa star male,
              Fa#
perché il più grande amore che mai mi fu dato
        Si-                     Do#7             Fa#     Si-
io lo devo ad un cielo cupo ed imbronciato:
            Mi-            Sol Fa# Si-
ad un furioso temporale.

Una notte d'autunno, sopra la mia magione,
una folgore, con terribile esplosione
s'era venuta a scaricare.
Giù dal letto schizzata, ancora semisvestita,
la mia bella vicina, tremante ed impaurita,
all'uscio mio venne a bussare:

"Sono sola ho paura! Aprite vi prego,
mio marito è lontano a causa del suo impiego
(o direi meglio del suo guaio),
che lo obbliga a uscire sotto l'acqua sferzante
per la buona ragione che fa il rappresentante
dei parafulmini d'acciaio".

Lode a Benjamin Franklin per la bella invenzione!
Abbracciandola a me le diedi protezione,
e poi... l'amore fece il resto.
Tu, di punte di acciaio, venditore provetto,
Non pensasti a piazzarne neanche una sul tuo tetto!
Error non fu mai più funesto.

Quando Pluvio andò oltre nel suo vagabondaggio
la mia bella, ripreso un poco di coraggio,
tornò nel proprio appartamento;
ad attender lo sposo con coperte e cordiale,
e alle prossime piogge, a un nuovo temporale,
già ci fissammo appuntamento.

Con un'ansia crescente io mi misi da allora
a scrutare fremente i cieli ad ogni ora,
giorno e notte, notte e giorno;
a spiar nembi e cirri, sempre più preoccupato,
a fare gli occhi dolci anche a un cumulostrato,
ma lei non fece più ritorno.

Seppi poi che il marito, in quella notte famosa,
parafulmini aveva seminato a iosa;
e milionario divenuto,
se l'era portata in quei luoghi laggiù,
dove non piove mai, e il cielo è sempre blu,
laddove il tuono è sconosciuto.

Ma voglia Dio che il mio pianto a tamburo battente
la raggiunga e le parli del tempo inclemente
che ci portò su in paradiso;
e le dica che un fulmine un po' mascalzone
m'ha lasciato nel cuore una piccola incisione
con i contorni del suo viso.
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Il beneamato C

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(Continua la lunga intervista alle Solite Stronze, una specie di gruppo punk femminista postmaschilista che ha pubblicato questo disco abbastanza insensato, Perché non mi scrivi? Perché non telefoni?)  


E siamo arrivati a una delle canzoni più interessanti, ma anche più discutibili dell'album, ovvero...

Na na na na na na na na na na na na... CAZZO!

Suppongo che il testo sia di Lady Tourette.

Puoi supporre il cazzo che vuoi.

Anche stavolta il brano si presta a più chiavi di lettura...

No.

Come no?

C'è una sola chiave.

Che peraltro è una chiara metafora fallica (la chiave, intendo). 

Un tale ha mollato una tale, e la tale si lamenta pubblicamente. Fine. Quale altri chiavi pensi di poter usare, brutto porco?

Beh, mi era sembrato che almeno l'uso del termine "cazzo", nel brano, fosse quantomeno ambiguo.

Grazialcazzo che è ambiguo. Abbiamo giocato sul fatto che "un cazzo" in italiano significhi non solo "un organo sessuale maschile", ma anche "nulla". Perciò all'inizio della canzone sembra che lei stia dicendo: non mi manca niente di te.

Ma a un certo punto si capisce che qualcosa effettivamente le manca...

Un cazzo.

Ammetterete almeno che è un colpo di scena, voglio dire, fin qui non avevate certo lesinato il turpiloquio...

Noi non lesiniamo nulla.

...ma del... "cazzo", chiamiamolo così, non si era mai parlato e non sembrava una dimenticanza, quanto una vera e propria scelta di campo. Invece qui qualcuno ammette di sentire non dico la necessità, ma la mancanza del...

E questa ti sembra una contraddizione? Stiamo dicendo a un uomo che c'è una sola cosa che ci manca di lui, ed è l'organo sessuale.

Immagina la cosa a sessi inversi.

Beh, sarebbe qualcosa di inascoltabile, oggi.

Precisamente. L'uomo ridotto alla sua mera dimensione erettile. Mi fanno ridere certe compagne che si lamentano per come le donne vengono esibite nei porno, dico: ma gli uomini invece, nei porno, li avete visti? A volte letteralmente gli si vede solo l'aggeggio, appoggiato lì come una maniglia, un fermaporte.

Un fermaporte?

La canzone dice che un uomo non è un granché, dopodiché dice che l'uomo è un cazzo, prova a completare il sillogismo.

Non so se ce la faccio.

Na na na na na na na na na na na na, cazzo....

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Partire non è tutto, certamente (c'è chi parte e non dà niente)

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(Un disco per l'Estate 2024)




Nel 1980 don Paolo Petta, un sacerdote paolino aggregato alla diocesi dell'Alto Volta, scomparve senza lasciare tracce nella provincia dello Yatenga. L'ipotesi che fosse stato rapito da una tribù in rivolta contro il governo centrale ebbe un'indiretta conferma quando dieci anni dopo in un cespuglio della savana fu ritrovato un sacco di patate coi contrassegni della FAO, simile in tutto e per tutto a quelli che Petta portava con sé nelle distribuzioni di cibo agli indigenti. Forse a causa di questo bizzarro ritrovamento, nei villaggi circostanzi don Petta è conosciuto come Msomsou Dmaca Potatos, o Le Missionaire Aux Pommes De Terre: "Signore, avevamo fame", recita una canzone molto popolare nello Yatenga "E tu ci hai mandato il Missionario con le patate. Oh Signore quant'era buono il Missionario con le patate. Non era duro con noi, era così tenero, signore mandaci presto un altro Missionario con le patate". C'è da dire che gli abitanti dello Yatenga sono conosciuti in tutto il Sahel centrale per l'umorismo discutibile. Un'altra prova della permanenza di Petta nella regione sono alcuni canti tradizionali che – fatto incredibile – presentano testi in lingua italiana, con ogni probabilità tratti da un canzoniere liturgico, forse il Canta La Gioia del 1979. Qui ne ascoltiamo due nella versione dei Penta Koste.

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