I crocifissi del Salvador
San Salvador. El Salvador del Mundo rappresenta un Cristo dai tratti somatici fortemente “gringo”, come dicono da queste parti. E’ vestito con una tunica elegante e – più che salvarlo – sembra che calpesti quel povero mondo che giace sotto i suoi piedi di pietra.
El Cristo gringo è il monumento simbolo di San Salvador, un po’ come l’obelisco per Buenos Aires o la torre Eiffel per Parigi. Ma non per questo è un monumento molto amato dai salvadoregni che per le loro scampagnate domenicali preferiscono altri parchi della città evitando di dover sedere all’ombra di quell’ingombrante presenza. Nelle case e nei luoghi di preghiera, preferiscono appendere quei crocifissi dai mille colori dove Gesù – o la madonna – non è inchiodato al legno ma abbraccia sorridente le scene di vita campestre che vi sono disegnate attorno: villaggi sotto le palme tropicali, bambini che giocano, donne e uomini al lavoro nei campi di caffè.
El Salvador del Mundo e i crocifissi colorati sono le due anime di una religione che ha segnato la storia di questo piccolo paese centroamericano di poco più di 4 milioni e mezzo di abitanti, affacciato nella storia come in quell’oceano Pacifico che gli si para davanti. Un oceano tanto, tanto più grande di lui.
I crocifissi, dicevamo, ma c’è anche un altro simbolo del Salvador che non possiamo dimenticare: monsignor Oscar Arnurlfo Romero. I manifesti, le targhe, i monumenti che, in tutto il territorio del Salvador, commemorano il suo sacrificio sono tantissimi e tutti… provvisori. Se trovate in un qualsiasi paese salvadoregno, affogato nel verde della selva tropicale, un basamento senza statua. State pur certi che c’era un monumento a Romero, innalzato dalla devozione popolare o da una giunta di sinistra che, al cambio di amministrazione, è stata immediatamente abbattuta. Addirittura, è sufficiente ad una associazione chiamarsi “Romero” perché gli venga negato dal tribunale lo status giuridico. Una guerra incredibile, che dura dalla morte dell’arcivescovo, il 24 marzo dell’80, e che nessuno dei contendenti ha intenzione di mollare.
“Come Romero, qui in Salvador, sono stati ammazzati tantissimi preti. Ma Romero era differente – mi spiega padre Daniel-. Lui era un membro della parte più elevata della gerarchia cattolica. Quella che, nella storia, ben difficilmente si è schierata dalla parte degli oppressi. Il suo sacrificio è una risposta al regime che sosteneva che ad opporsi allo sfruttamento degli indigeni fossero solo pochi preti traviati dal comunismo. Romero invece diceva alla gente che la chiesa di Cristo o è la chiesa del popolo, la vostra chiesa, o non è niente. Parlava di Cristo per dire ai fedeli che non dovevano rassegnarsi. Un Cristo che non è mai dalla parte di chi sfrutta e opprime”.
Padre Daniel, o semplicemente Daniel, come preferisce essere chiamato, ha una lunga barba bianca e una sessantina d’anni trascorsi in mezzo alle guerriglie di tutto il centroamerica. Viene dalla Spagna – metà basco e metà galiziano – ed era il giovane prete di una piccola comunità del Morazàn quando è cominciata la guerra. “Io ero tra quelli che scelsero di usare il fucile, anche se ho sempre cercato di sparare il meno possibile e solo per difendere chi era con me. Una scelta dolorosa e travagliata ma che rifarei. Oggi posso dire che sono in pace con la mia coscienza, anche se siamo sopravvissuti in pochi di quel gruppo di religiosi che eravamo. Gli altri preti, quelli che scelsero di andare verso i soldati che cercavano i ribelli col crocefisso in mano, li hanno ammazzati subito, prima ancora di spazzare via il villaggio”.
Daniel è tornato in Salvador dal Nicaragua, dove oggi risiede, per partecipare alle elezioni presidenziali come osservatore internazionale al seguito del Cis, centro Interscambio culturale e solidarietà del Salvador. Quelle elezioni che il 15 marzo, hanno visto trionfare Mauricio Funes dell’Fmln, gli ex guerriglieri del Frente Farabundo Martì di liberazione nazionale, sul partito di governo, l’alleanza repubblicana nazionalista Arena.
Che cosa significhi la vittoria del Frente per i salvadoregni, lo si è capito la sera delle elezioni. Quando radio e televisioni cominciavano a dare le prime percentuali di voto e si consolidava la certezza di Funes presidente. Non c’era una festa organizzata neppure nella capitale. Pochi i caroselli di auto. Niente fanfare o discorsi ufficiali. Solo la gente che usciva di casa con la maglietta rossa e si abbracciava l’un l’altro, ridendo e piangendo insieme. “E’ come vedere una luce in fondo ad un tunnel di orrori: guerra, assassini, violenza, frodi – mi ha detto in lacrime una donna di Sensuntepeque -. Come se da oggi si potesse ricominciare a vivere. Ci hanno rubato tutto: la terra. l’acqua, i diritti, e in qualche caso anche la dignità e la vita. Ci dicevano che avevamo torto a pretendere anche le cose più elementari come l’istruzione per i nostri figli. Adesso il Frente ha vinto e tutto il mondo sa che avevamo ragione noi”.
E’ un lungo tunnel, quello di cui parlava la signora. Un tunnel che si misura in secoli e non in chilometri: quindici anni di governo di una destra ferocemente neoliberista, 12 anni di guerra e, ancora più in là, una serie ininterrotta di golpe militari e governi oligarchici sino ai tempi conquista spagnola, quando l’intero paese fu consegnato nella mani di un club di quattordici famiglie latifondiste, le stesse che ancora oggi detengono il potere economico, e cominciarono lo sfruttamento e il genocidio degli indigeni. Oggi, il paese ai piedi del Salvador del Mundo sopravvive con quanto gli arriva dai suoi immigrati che lavorano negli Usa. Il Colon, la divisa locale, non esiste più. E’ fallito negli anni ’90 e ora si compra e si vende solo col dollaro. El Salvador è ridotto oramai ad un paese di servizio. Tutto si importa e si lavora soltanto per l’esportazione. Le sue feconde distese di terra sono coperte da grandi latifondi di caffè e di canna da zucchero che non danno sostentamento ai contadini ma ricchezza a pochissimi. L’industria è composta solo da “maquilladoras” (fabbriche di assemblaggio) che sopravvivono soltanto perché non ci sono sindacati, la manodopera costa poco, è ricattabile e facilmente sfruttabile. Le risorse idriche sono state privatizzate, prosciugate ed avvelenate. Le risorse minerarie sono state depredate dalle multinazionale statunitensi che in cambio hanno lasciato povertà e inquinamento. E’ l’economia neoliberalista, bellezza! E il Salvador ne è il campione mondiale.
Questo è il paese che Mauricio Funes dovrà governare. L’Arena glielo ha lasciato a malincuore, dopo aver tentato brogli di tutti i tipi: camionate di persone fatte venire apposta dal vicino Honduras con documenti fasulli (ma comunque rilasciati dall’agenzia che rilascia le carte di identità e che, come tutto da queste parti, è stata privatizzata), compra di voti (20 dollari l’uno nelle campagne, 50 nelle città), assassini (5 morti e 2 desaparecidos, limitandoci ai fatti accertati), bugie (ricordiamo la denuncia dell’Arena dei presunti legami che Funes avrebbe con Al Quaeda), intimidazioni e minacce perfino agli osservatori internazionali.
Ma cambieranno davvero le cose con l’Fmln al potere? Che ne sarà dell’entusiasmo e delle lacrime di tutta quella gente scesa per strada ad applaudire la vittoria di Funes come una liberazione?
Ad un paio di ore di furgone, a nord di San Salvador c’è una piccola comunità di contadini senza terra che ci ha dato un risposta. La comunità che ha dedicato il suo nome a monsignor Romero, è composta da un centinaio di campesinos. Vivono in delle specie di baracche che qui chiamano “churras”, perché, spiegano, chiamarle case proprio non si può. Non hanno terra da coltivare. Hanno cercato di comprare qualche acro di proprietà del governo attorno al loro villaggio grazie all’aiuto economico di una ong cattolica. Il sindaco dell’Arena, che ha trattato l’affare, dopo aver incassato i tre quarti della cifra pattuita, ha chiuso le trattative accusandoli di comunismo e di non avere uno status giuridico (il nome Romero non li ha aiutati) per poter firmare contratti. Insomma, li hanno fregati con le righe piccole. Due mesi dopo, lo stesso sindaco ha venduto i terreni ad una multinazionale interessata a coltivare canna da zucchero. Tra l’altro, li ha venduti e metà del prezzo che aveva chiesto ai campesinos.
“Señor, noi non ce la facciamo più a tirare avanti – mi ha confessato il loro portavoce- Sopravviviamo solo perché mettiamo tutto in comune. Andiamo tutte le mattine a cercare lavoro in città ma, quando va bene, ci pagano 3 o 4 dollari e il latte per i bambini costa un dollaro a bottiglia. Non possiamo coltivare. L’acqua ci fa star male. Ci manca tutto. Prima venivano a picchiarci e a distruggere quello che avevamo, ma ora non c’è neppure più niente da spaccare se non le nostre teste.
El Salvador del Mundo e i crocifissi colorati sono le due anime di una religione che ha segnato la storia di questo piccolo paese centroamericano di poco più di 4 milioni e mezzo di abitanti, affacciato nella storia come in quell’oceano Pacifico che gli si para davanti. Un oceano tanto, tanto più grande di lui.
I crocifissi, dicevamo, ma c’è anche un altro simbolo del Salvador che non possiamo dimenticare: monsignor Oscar Arnurlfo Romero. I manifesti, le targhe, i monumenti che, in tutto il territorio del Salvador, commemorano il suo sacrificio sono tantissimi e tutti… provvisori. Se trovate in un qualsiasi paese salvadoregno, affogato nel verde della selva tropicale, un basamento senza statua. State pur certi che c’era un monumento a Romero, innalzato dalla devozione popolare o da una giunta di sinistra che, al cambio di amministrazione, è stata immediatamente abbattuta. Addirittura, è sufficiente ad una associazione chiamarsi “Romero” perché gli venga negato dal tribunale lo status giuridico. Una guerra incredibile, che dura dalla morte dell’arcivescovo, il 24 marzo dell’80, e che nessuno dei contendenti ha intenzione di mollare.
“Come Romero, qui in Salvador, sono stati ammazzati tantissimi preti. Ma Romero era differente – mi spiega padre Daniel-. Lui era un membro della parte più elevata della gerarchia cattolica. Quella che, nella storia, ben difficilmente si è schierata dalla parte degli oppressi. Il suo sacrificio è una risposta al regime che sosteneva che ad opporsi allo sfruttamento degli indigeni fossero solo pochi preti traviati dal comunismo. Romero invece diceva alla gente che la chiesa di Cristo o è la chiesa del popolo, la vostra chiesa, o non è niente. Parlava di Cristo per dire ai fedeli che non dovevano rassegnarsi. Un Cristo che non è mai dalla parte di chi sfrutta e opprime”.
Padre Daniel, o semplicemente Daniel, come preferisce essere chiamato, ha una lunga barba bianca e una sessantina d’anni trascorsi in mezzo alle guerriglie di tutto il centroamerica. Viene dalla Spagna – metà basco e metà galiziano – ed era il giovane prete di una piccola comunità del Morazàn quando è cominciata la guerra. “Io ero tra quelli che scelsero di usare il fucile, anche se ho sempre cercato di sparare il meno possibile e solo per difendere chi era con me. Una scelta dolorosa e travagliata ma che rifarei. Oggi posso dire che sono in pace con la mia coscienza, anche se siamo sopravvissuti in pochi di quel gruppo di religiosi che eravamo. Gli altri preti, quelli che scelsero di andare verso i soldati che cercavano i ribelli col crocefisso in mano, li hanno ammazzati subito, prima ancora di spazzare via il villaggio”.
Daniel è tornato in Salvador dal Nicaragua, dove oggi risiede, per partecipare alle elezioni presidenziali come osservatore internazionale al seguito del Cis, centro Interscambio culturale e solidarietà del Salvador. Quelle elezioni che il 15 marzo, hanno visto trionfare Mauricio Funes dell’Fmln, gli ex guerriglieri del Frente Farabundo Martì di liberazione nazionale, sul partito di governo, l’alleanza repubblicana nazionalista Arena.
Che cosa significhi la vittoria del Frente per i salvadoregni, lo si è capito la sera delle elezioni. Quando radio e televisioni cominciavano a dare le prime percentuali di voto e si consolidava la certezza di Funes presidente. Non c’era una festa organizzata neppure nella capitale. Pochi i caroselli di auto. Niente fanfare o discorsi ufficiali. Solo la gente che usciva di casa con la maglietta rossa e si abbracciava l’un l’altro, ridendo e piangendo insieme. “E’ come vedere una luce in fondo ad un tunnel di orrori: guerra, assassini, violenza, frodi – mi ha detto in lacrime una donna di Sensuntepeque -. Come se da oggi si potesse ricominciare a vivere. Ci hanno rubato tutto: la terra. l’acqua, i diritti, e in qualche caso anche la dignità e la vita. Ci dicevano che avevamo torto a pretendere anche le cose più elementari come l’istruzione per i nostri figli. Adesso il Frente ha vinto e tutto il mondo sa che avevamo ragione noi”.
E’ un lungo tunnel, quello di cui parlava la signora. Un tunnel che si misura in secoli e non in chilometri: quindici anni di governo di una destra ferocemente neoliberista, 12 anni di guerra e, ancora più in là, una serie ininterrotta di golpe militari e governi oligarchici sino ai tempi conquista spagnola, quando l’intero paese fu consegnato nella mani di un club di quattordici famiglie latifondiste, le stesse che ancora oggi detengono il potere economico, e cominciarono lo sfruttamento e il genocidio degli indigeni. Oggi, il paese ai piedi del Salvador del Mundo sopravvive con quanto gli arriva dai suoi immigrati che lavorano negli Usa. Il Colon, la divisa locale, non esiste più. E’ fallito negli anni ’90 e ora si compra e si vende solo col dollaro. El Salvador è ridotto oramai ad un paese di servizio. Tutto si importa e si lavora soltanto per l’esportazione. Le sue feconde distese di terra sono coperte da grandi latifondi di caffè e di canna da zucchero che non danno sostentamento ai contadini ma ricchezza a pochissimi. L’industria è composta solo da “maquilladoras” (fabbriche di assemblaggio) che sopravvivono soltanto perché non ci sono sindacati, la manodopera costa poco, è ricattabile e facilmente sfruttabile. Le risorse idriche sono state privatizzate, prosciugate ed avvelenate. Le risorse minerarie sono state depredate dalle multinazionale statunitensi che in cambio hanno lasciato povertà e inquinamento. E’ l’economia neoliberalista, bellezza! E il Salvador ne è il campione mondiale.
Questo è il paese che Mauricio Funes dovrà governare. L’Arena glielo ha lasciato a malincuore, dopo aver tentato brogli di tutti i tipi: camionate di persone fatte venire apposta dal vicino Honduras con documenti fasulli (ma comunque rilasciati dall’agenzia che rilascia le carte di identità e che, come tutto da queste parti, è stata privatizzata), compra di voti (20 dollari l’uno nelle campagne, 50 nelle città), assassini (5 morti e 2 desaparecidos, limitandoci ai fatti accertati), bugie (ricordiamo la denuncia dell’Arena dei presunti legami che Funes avrebbe con Al Quaeda), intimidazioni e minacce perfino agli osservatori internazionali.
Ma cambieranno davvero le cose con l’Fmln al potere? Che ne sarà dell’entusiasmo e delle lacrime di tutta quella gente scesa per strada ad applaudire la vittoria di Funes come una liberazione?
Ad un paio di ore di furgone, a nord di San Salvador c’è una piccola comunità di contadini senza terra che ci ha dato un risposta. La comunità che ha dedicato il suo nome a monsignor Romero, è composta da un centinaio di campesinos. Vivono in delle specie di baracche che qui chiamano “churras”, perché, spiegano, chiamarle case proprio non si può. Non hanno terra da coltivare. Hanno cercato di comprare qualche acro di proprietà del governo attorno al loro villaggio grazie all’aiuto economico di una ong cattolica. Il sindaco dell’Arena, che ha trattato l’affare, dopo aver incassato i tre quarti della cifra pattuita, ha chiuso le trattative accusandoli di comunismo e di non avere uno status giuridico (il nome Romero non li ha aiutati) per poter firmare contratti. Insomma, li hanno fregati con le righe piccole. Due mesi dopo, lo stesso sindaco ha venduto i terreni ad una multinazionale interessata a coltivare canna da zucchero. Tra l’altro, li ha venduti e metà del prezzo che aveva chiesto ai campesinos.
“Señor, noi non ce la facciamo più a tirare avanti – mi ha confessato il loro portavoce- Sopravviviamo solo perché mettiamo tutto in comune. Andiamo tutte le mattine a cercare lavoro in città ma, quando va bene, ci pagano 3 o 4 dollari e il latte per i bambini costa un dollaro a bottiglia. Non possiamo coltivare. L’acqua ci fa star male. Ci manca tutto. Prima venivano a picchiarci e a distruggere quello che avevamo, ma ora non c’è neppure più niente da spaccare se non le nostre teste.