La carovana della Rabbia Degna

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Città del Messico. “El cabezon de Benito Juarez”, come lo chiamano confidenzialmente i messicani, è un busto monumentale – enorme come è tutto enorme nel Distrito Federal - che domina austero il parco di Iztapalapa. Il testone del presidente rivoluzionario che combattè Massimiliano d’Asburgo, è pressoché l’unico tratto distintivo della “colonia” (quartiere) Alvaro Obregon:
una colonia piuttosto anonima, composta da grandi e grigi condomini popolari. Soltanto nelle sue strade, perennemente affollate da un grande mercato popolare, si ritrovano tutti i colori, le luci e i profumi del Messico.
Al tassista, pare quasi impossibile che un europeo voglia farsi scarrozzare sin là. Al Cabezon ci sa pure arrivare, ma per trovare il maneggio de Los Charros Reyes, deve chiamare la centrale operativa e farsi dare istruzioni più dettagliate. Situazione frequente questa, se appena ci si sposta dai flussi turistici di questa immensa area metropolitana di quasi 20 milioni di abitanti che è Città del Messico. Ed è proprio in questo quartiere popolare, tradizionale teatro di tante lotte per il diritto alla casa e al lavoro, che gli zapatisti hanno scelto per ospitare il primo festival intergalattico della Rabbia Degna. La struttura messa a disposizione dall’associazione Los Charros Reyes di Iztapalapa e del Frente Popular Francisco Villa Independiente, è un vasto maneggio. La cancellata di ingresso si apre su un ampio spazio dove si trovano un paio di tendoni per i dibattiti, la sala (che poi è una tenda) stampa, il presidio medico, l’ufficio (altra tenda) accrediti, qualche stand tra cui quello della rivista Rebeldia e gli spazi espositivi fotografici ed artistici. L’Italia non ci fa una gran bella figura con una intera parete riempita di foto che testimoniano gli ultimi sgomberi dei campi nomadi di Roma e Milano.

Gli stand espositivi veri e propri stanno più avanti, a sinistra, dietro la fila di stalle dalle quali sporgono le teste dei cavalli curiosi di vedere tanti estranei. Qui troviamo oltre 250 banchetti messi in piedi da movimenti provenienti da 57 paesi del mondo. A destra invece, troviamo due corral (l’apertura del festival, il giorno di Natale, è stata festeggiata con un rodeo), ancora altre stalle con cavalli, una tensostruttura alzata dal Congresso Nazionale Indigeno, e la refezione. Ancora più in là, un campo di calcio adattato a spazio concerti. Notate che nella descrizione mi son fatto scrupolo di evitare di ripetere l’aggettivo “grande” ed i relativi sinonimi. Da queste parti, lo avrete intuito, quello che non è grande è immenso. Il festival della Rabbia Degna non ha fatto eccezione.
E “grande” è stata anche la partecipazione italiana. Alla carovana guidata dalla padovana Vilma Mazza di Ya Basta, si sono aggregate oltre 40 persone provenienti da tutta Italia. Messico a parte, quella italiana era una delle delegazioni più numerose e rappresentava pressoché tutti i nostri movimenti di base: dal nord al sud del Paese, dal No Dal Molin al presidio di Chiaiano. Anzi dal presidio della “Selva di Chiamano”, come lo ha definito la portavoce Annamaria Beninati, quando ha letto il comunicato del movimento contro la discarica, a San Cristòbal nella seconda parte del festival intergalattico, seduta nello stesso tavolo di Marcos e della “comandancia” della Selva Lacandona. (“Mi avete scattato delle foto, vero? Ditemi che me le avete scattate!”)
Ciascuna mattinata degli incontri svoltisi nella colonia Obregon è stata dedicata ad una delle “ruote” su cui, nella colorita rappresentazione degli zapatisti, avanza il capitalismo: il saccheggio, il disprezzo, lo sfruttamento e la repressione. Gli incontri del pomeriggio, in cui hanno preso la parola, tra gli italiani, un rappresentante degli operai di Modena, Teo per il presidio No Dal Molin e Vittorio per il comitato contro la discariche nel napoletano, sono state dedicate ai movimenti.
La delegazione del No Dal Molin composta da Teo Molin Fop, Diletta Francesca, Marina Maltauro e Federico Varsi, ha denunciato l’imposizione di una politica di guerra ad una città che ha ribadito più volte il suo no con manifestazioni, presidi e referendum. Teo Molin Fop ha letto il comunicato del Presidio Permanente dal palco di Città del Messico tra gli applausi convinti di una platea che ha sperimentato - e continua a sperimentare – le conseguenze di una politica imposta dagli Usa come, tanto per fare un esempio, sul tema della lotta al narcotraffico.
Ma se la delegazione di Ya Basta era la più numerosa e l’unica ad avere organizzato un banchetto informativo sui movimenti italiani negli spazi di Los Charros Reyes, perlomeno altrettanti italiani sono volati in Messico in gruppi più piccoli per partecipare agli incontri, portare avanti iniziative di sostegno e magari fermarsi dopo la conclusione dei lavori per aiutare le comunità a raccogliere il caffè o a realizzare impianti di depurazione dell’acqua. Tra costoro, abbiamo incontrato i ragazzi dell’associazione Wendy di Milano (www.wendy.noblogs.org) che si occupa di differenze di genere. “Nei caracol zapatisti sono stati fatti molti passi in avanti in questo senso – mi spiega la portavoce – ma in generale nel Chiapas la condizione delle donne è ancora drammaticamente legata ad un’idea di sottomissione”. Il collettivo ha organizzato una squadra di calcio femminile – le Wendy Football Girls – che verrà a sfidare le donne zapatiste.
Gli incontri svoltosi a Città del Messico, dal giorno di natale al 29 dicembre, sono stati soprattutto una utile occasione per i movimentisti di tutto il mondo – di tutta la galassia, preciserebbe uno zapatista – di conoscersi e scambiarsi esperienze, libri, materiali, volantini, siti ed indirizzi mail. “Abbiamo tutti un problema comune – mi ha spiegato Federico Varsi, uno dei ragazzi del presidio No Dal Molin – che è quello di una politica neoliberista dove a dettar legge è il denaro e la crash economy. Abbiamo anche tutti un ideale comune, che è quello di portare la gente e i beni comuni al centro del dibattito politico. Le situazioni in cui ci troviamo a vivere sono però diverse. Mi ha molto colpito una discussione che ho avuto con una ragazza del quartiere di Tampico di Città del Messico che fa l’insegnante in una scuola pubblica elementare. Il governo di destra messicano ha deciso di privatizzare tutte le scuole, ma loro resistono anche se li hanno buttati fuori dall’edifico scolastico. Adesso fa lezione ai bambini in una tenda in mezzo ad un parco circondati da un cordone di poliziotti in assetto antisommossa che potrebbero caricarli da un momento all’altro”.

Oventik. Da Città del Messico si vola a Tuxtla Gutiérrez, la capitale del Chiapas, per raggiungere San Cristòbal de las Casas e da qui Ovenitik, storico Caracol zapatista, per festeggiare l’ultimo dell’anno e celebrare il quindicesimo anniversario del “levantamiento” zapatista. E’ una grande festa di popolo quella che andrà avanti sino all’alba. Venti, forse anche trentamila persone tra indigeni, insurgentes col passamontagna nero, milites col paliacate rosso e internazionali. Al grido di “Zapata vive y la lucha sigue” sale sul palco il comandante David per ribadire, in un discorso che sarà poi ripetuto in lingua tzozil, la volontà degli zapatisti a proseguire e allargare la loro battaglia per l’autonomia e la difesa della terra, la Tierra Madre, come viene chiamata qui col rispetto dovuto ad una divinità procreatrice.
Nella “fiesta” che segue incontro una ragazza di Treviso, Luisa Torresan, laureanda in antropologia che sta preparando una tesi sulle popolazioni indigene messicane. “Mi aspettavo un ambiente molto più chiuso, anche in virtù della guerra in corso. Una guerra a bassa intensità ma pur sempre una guerra. Ed invece è bastato mostrare il passaporto alla Junta del Buen Gobierno e compilare un modulo in cui dichiaravo il motivo della mia visita, perché l’intera comunità si mettesse a mia disposizione. Oggi mi han fatto visitare l’ospedale, domani parlerò con le “promodoras de salud”. Adesso però è l’ultimo dell’anno e voglio solo ballare”.

San Cristòbal da las Casas. L’Universitad della Tierra, o Cideci come lo chiamano qua dal tempo in cui fu fondata dai salesiani, è una roccaforte zapatista nell’immediata periferia di San Cristòbal del Las Casas, nel cuore verde del Chiapas.
Il Cideci oggi è un centro gestito con impeccabile organizzazione dai teologi della liberazione. I ragazzi chiapanechi lo frequentano per seguire corsi superiori di meccanica, informatica, scienze agrarie, forestali e altro. Le aule sono rallegrate da colorati murales che ritraggono Emiliano Zapata, Marcos, campesinos in lotta e santi che hanno difeso la causa delle popolazioni indigene. Qui alla presenza della comandancia dell’Eznel, di Marcos e della niña Tonita, in rappresentanza dei bambini del Chiapas e che pareva sbucata direttamente da uno dei libri di racconti del subcomandante, è andato a concludersi il festival intergalattico della Degna Rabbia con una “quattro giorni” piena di interventi di quelli che gli zapatisti hanno definito i “pensatori di movimento”. Tra loro anche un certo Gigi Sullo.“Suglio, el diretor del semanal Carta”, come lo ha inevitabilmente presentato la comandanta Ortensia. I discorsi degli intervenuti li trovate in versione integrale nel numero che avete tra le mani.

Tierradentro. Nelle fresche serate di San Cristòbal, oltre 2100 metri sul livello del mare, la carovana italiana si ritrova tutta al Tierradentro, un locale a due passi dallo Zocalo, la piazza centrale, che fa da base operativa agli internazionali. Qui conosco Anastasia Martino che nel Chiapas prepara la sua tesi sull’interculturalità delle politiche sanitarie in Messico. Anastasia viene da Frosinone e, il che non guasta, è pure una bellissima ragazza. “L’unico punto degli accordi di San Andreis che è diventato legge è quello sull’interculturalità della salute, vale a dire il recupero dei saperi locali e della medicina tradizionale. La segreteria de la Salud, come dire il ministero della sanità, ha investito moltissime risorse senza il minimo risultato. Il problema è che nessuno ha idea di cosa sia e come deve essere perseguita questa interculturalità. Nei caracol zapatisti invece, certo senza nessun aiuto governativo, hanno già raggiunto questo obiettivo, integrando la medicina tradizionale con quella, chiamiamola, scientifica. Un altro punto, è il concetto di “salute” che per gli indigeni non vuol dire solo assenza di patologie ma stare bene con se stessi, con gli altri e con l’ambiente. Ti faccio un esempio. Nel Messico c’è una altissima percentuale di nascite di bambini down. Eppure, tu li hai mai visti per strada? No, vero? Vorrei tanto scoprire dove finiscono. Negli ospedali no. Nei manicomi neppure. Ne ho visitati diversi e mi son venuti gli incubi. Praticano l’elettroshock anche alle donne incinte. I bambini iperativi li imbottiscono di farmaci senza nessun criterio curativo. Ma neanche là ho trovato i down. Se faccio domande, tutti fanno finta di non capire. E’ davvero un mistero. Nei pueblos indigeni invece, i malati mentali ed i diversi sono accettati per quel che sono ed è compito della comunità intera prendersene cura”.
Tra gli internazionali al seguito di Ya Basta, chiacchieriamo con alcuni ragazzi del centro sociale di Milano Casa Loca. Concluso il festival affronteranno il freddo pungente di Oventik – tremila e passa metri di altitudine - per partecipare alla raccolta del caffè e per portare aventi alcuni progetti con i bambini delle scuole zapatiste. “Lo scorso anno scolastico abbiamo girato per le scuole di Milano per raccontare ai bambini italiani come vivono i loro coetanei chiapanechi – mi racconta Daniele Di Stefano – Adesso siamo qui anche per portare ai bambini dei municipi autonomi di Oventik i regali e le letterine che hanno realizzato i bimbi di Milano”. E’ stato difficile far capire ai bambini del nord come vivono i bambini del sud? “Affatto. I bambini che abbiamo incontrato erano più che disposti ad ascoltarci e hanno dimostrato subito una grande partecipazione e solidarietà. In fondo, nelle classi c’erano molti figli di migranti che sanno bene cosa vuol dire dover abbandonare il posto in cui si è nati per la povertà e per la guerra”. Casa Loca ha portato nelle scuole italiane anche un gioco che trae spunto dalla raccolta e dalla commercializzazione del caffé chiapaneco per sottolineare i benefici della collaborazione contro i disastri della competizione. “I bambini hanno imparato subito a giocare e a vincere. Più difficile è stato far vincere i grandi, quando l’intero consiglio direttivo della scuola elementare ha insistito per provare il gioco. D’altra parte, quando raccontavamo del Chiapas in classe, le maestre erano sempre più incredule dei bambini. ‘Ma tu guarda che succede nel mondo?’ si chiedevano”. Il gioco del caffé è stato realizzato graficamente da Graziano Barbato che di professione disegna fumetti per la Disney. Anche Graziano fa parte della carovana di Ya Basta. Graziano era riconoscibile nella sala conferenze del Cideci perché era l’unico che non scattava foto a Marcos ma lo disegnava a matita su un bel quaderno bianco. “Cosa vuoi? Noi fumettisti ci distinguiamo così! Una storia di Marcos a fumetti, mi chiedi? Ma è il sogno della mia vita. E prima o poi la realizzerò!” Con la Disney? “Non credo proprio. Ma io faccio anche disegno realistico e non solo comico. Collaboro ad una associazione di fumettisti autoprodotti. Il nostro sito si chiama www.arfarf.it. Forse la pubblicherò là, questa storia zapatista”. Perché arf arf? “Perché bau bau ci sembrava banale!” Senti, quale è il più zapatista tra i personaggi Disney. “Paperino, mi pare ovvio. Sapessi quante volte me lo son disegnato col passamontagna sul becco!”
Sul palco, a fianco del subcomandante Marcos, proprio in apertura della seconda parte del festival della Degna Rabbia, ha preso la parola Vilma Mazza. “E’ stato un onore e allo stesso tempo un riconoscimento di quanto l’associazione Ya Basta ha fatto in questi anni – commenta Vilma -. La promozione, partita quest’estate, di un festival dedicato alla Rabbia Degna non solo è stata una geniale idea, ma anche una anticipazione del tempo che ora ci troviamo a vivere in diretta: avvenimenti come la rivolta dei giovani nelle strade della Grecia, il movimento dell’onda anomala italiana, e la tragedia di Gaza. La rabbia, come è stato detto più volte in questi giorni, è un elemento essenziale del rifiuto di un presente non e più accettabile. La rabbia si costituisce come degna vivendo nel conflitto la costruzione di alternative di autonomia ed indipendenza. A prescindere dalle parole usate dai vari relatori, a prescindere da sfumature a volte anche notevoli di provenienza e storia politica, ho notato un filo conduttore molteplice ma condiviso che è stato il background del festival: i molti modi di lottare ai quattro punti del globo senza nessuna delega a dogmi del passato, a schemi elettorali, convinti che se un altro mondo è possibile le sue radici sono questo presente”.
“Un altro aspetto incredibilmente omogeneo in questa caleidoscopio di voci - conclude Vilma Mazza -, e stata la sensazione che la crisi che oggi sta attraversando la globalizzazione ci parli di una crisi strutturale di sistema che apre molte domande. Questo è un terreno denso di possibilità per i movimenti radicali ma al tempo stesso però può essere scenario di grandi drammi e tragedie. Le risposte possono essere tante. Per quanto ci riguarda, accetteremo questa sfida e contribuiremo con la costruzione di un’ ‘altra mobilitazione’ contro la riunione dei barcollanti grandi del G8 in Italia a dare il nostro contributo a percorrere le strade della Rabbia Degna”.
“Altro” – o otro, in castigliano - come dovrà essere la mobilitazione di cui parlava Vilma, è stato l’aggettivo più adoperato negli interventi dai palchi ma anche e negli stessi discorsi con cui i partecipanti si scambiavano le loro opinioni nelle lunghe tavolate in cui si trascorrevano le serate. Altro. Otro. Other, per chi non sapeva lo spagnolo e doveva arrangiarsi con l’inglese. Ma un altro cosa? Un altro tutto. Un altro mondo. Un altra giustizia. Un'altra campagna e un’altra città. Un’altra storia. Un’altra comunicazione e un’altra cultura. Un’altra politica e un altro cammino. Dal basso. A sinistra.
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