Caccia al profeta in patria
04-04-2017, 01:15cinema, Cosa vedere a Cuneo (e provincia) quando sei vivo, provincia, snobismiPermalinkIl cittadino illustre (El ciudadano ilustre, Gastón Duprat, Mariano Cohn).
"Gli autori dovrebbero morire dopo aver pubblicato il libro", diceva un autore vivo e vegeto, ormai tanti anni fa. Infatti di solito sopravvivono e alla lunga diventa seccante, vederli aggirarsi tra le loro opere, sempre più grigi e meno interessanti, come se attendessero all'ingresso le interpretazioni: questa può passare, questa proprio no, diventano i buttafuori delle loro creazioni, ma non si vergognano? Bisognerebbe ammazzarli; purtroppo è vietato. Il sistema più educato che abbiamo trovato, per farglielo capire, sono le statue. Quando lo scrittore vede che gli stanno innalzando un monumento, ecco, se non è un deficiente dovrebbe arrivarci da solo: è l'ora di togliersi di mezzo. Funziona anche coi premi, ma solo quelli molto prestigiosi, ad esempio il Nobel.
Gli argentini non hanno mai vinto un Nobel per la letteratura. Se pensate che vabbe', Borges a parte non è così strano, in fondo sono soltanto 40 milioni, ecco, tenete conto che il Cile ne ha vinti due. Il Cile, come dire il gemello cattivo - e uno l'ha vinto pure il Perù, 30 milioni di abitanti (tra cui Vargas Llosa). In Columbia poi è nato García Márquez, come fai a non darlo a García Márquez? Però a Borges no. C'è che Borges, di tutti i più celebri scrittori latinoamericani, è il meno latinoamericano - non sarà un po' il problema dell'Argentina, troppo periferica per essere mainstream, troppo bianca per essere almeno esotica? Magari El ciudadano ilustre è nato così, un esercizio mentale della premiata coppia di cineasti: uno scrittore argentino da premio Nobel, come te lo immagini? Un po' schizzinoso, senz'altro (continua su +eventi!)
Probabilmente si è trasferito in Spagna da anni (come Vargas Llosa) e però nei suoi libri continua a riciclare lo stesso paese natale (come García Márquez). Di sicuro irride le buone vecchie tradizioni, si prende gioco dei gauchos e alle grigliate non manca di ricordare che nemmeno la carne alla brace l'hanno inventata loro. Di sicuro non ama le cerimonie, ce lo vedi in marsina davanti ai reali di Svezia? Probabilmente si nega a tutti al telefono e poi si annoia. Cioè dopo un quarto d'ora che te lo stai immaginando ti viene già voglia di picchiarlo, questo nobel argentino, proprio voglia di inseguirlo con la carabina...
Presentato a Venezia l'anno scorso, El ciudadano ilustre è stato tradotto un po' frettolosamente "Il cittadino illustre", mentre la premessa del film è che dopo cinque anni di isolamento e crisi creativa, il premio Nobel Daniel Mantovani (Oscar Martínez, Coppa Volpi) decida all'improvviso di rispondere all'invito del suo piccolo luogo di nascita, che lo vuole nominare cittadino onorario. Laggiù per fortuna è ancora tutto brutto e disperato come si ricordava: le Pampas, un Polesine stirato per centinaia e centinaia di chilometri, alla mercé di allevatori ignoranti e fieri d'esserlo. La parata sul camion dei pompieri, con la reginetta di bellezza. Alla tv le pubblicità del mate dietetico. La cultura per i suoi compatrioti è una presentazione in powerpoint (geniale), l'arte un ritratto di Papa Bergoglio. Mantovani ci prova, a essere gentile con loro: ma forse è una trappola, forse se l'è organizzata da solo. In un'aiuola dei giardinetti c'è già il suo busto pronto, a tiro di piccioni. El ciudadano è anche un test divertente: c'è chi uscirà convinto di aver visto l'opera di due brillanti cineasti di Buenos Aires che demoliscono le velleità dei provinciali. È un'interpretazione come un'altra; ma è il film stesso ad autorizzarne di più sofisticate. Il cittadino illustre arriva al cinema Lux di Busca giovedì 6 e venerdì 7 aprile, alle ore 21.
"Gli autori dovrebbero morire dopo aver pubblicato il libro", diceva un autore vivo e vegeto, ormai tanti anni fa. Infatti di solito sopravvivono e alla lunga diventa seccante, vederli aggirarsi tra le loro opere, sempre più grigi e meno interessanti, come se attendessero all'ingresso le interpretazioni: questa può passare, questa proprio no, diventano i buttafuori delle loro creazioni, ma non si vergognano? Bisognerebbe ammazzarli; purtroppo è vietato. Il sistema più educato che abbiamo trovato, per farglielo capire, sono le statue. Quando lo scrittore vede che gli stanno innalzando un monumento, ecco, se non è un deficiente dovrebbe arrivarci da solo: è l'ora di togliersi di mezzo. Funziona anche coi premi, ma solo quelli molto prestigiosi, ad esempio il Nobel.
Gli argentini non hanno mai vinto un Nobel per la letteratura. Se pensate che vabbe', Borges a parte non è così strano, in fondo sono soltanto 40 milioni, ecco, tenete conto che il Cile ne ha vinti due. Il Cile, come dire il gemello cattivo - e uno l'ha vinto pure il Perù, 30 milioni di abitanti (tra cui Vargas Llosa). In Columbia poi è nato García Márquez, come fai a non darlo a García Márquez? Però a Borges no. C'è che Borges, di tutti i più celebri scrittori latinoamericani, è il meno latinoamericano - non sarà un po' il problema dell'Argentina, troppo periferica per essere mainstream, troppo bianca per essere almeno esotica? Magari El ciudadano ilustre è nato così, un esercizio mentale della premiata coppia di cineasti: uno scrittore argentino da premio Nobel, come te lo immagini? Un po' schizzinoso, senz'altro (continua su +eventi!)
Probabilmente si è trasferito in Spagna da anni (come Vargas Llosa) e però nei suoi libri continua a riciclare lo stesso paese natale (come García Márquez). Di sicuro irride le buone vecchie tradizioni, si prende gioco dei gauchos e alle grigliate non manca di ricordare che nemmeno la carne alla brace l'hanno inventata loro. Di sicuro non ama le cerimonie, ce lo vedi in marsina davanti ai reali di Svezia? Probabilmente si nega a tutti al telefono e poi si annoia. Cioè dopo un quarto d'ora che te lo stai immaginando ti viene già voglia di picchiarlo, questo nobel argentino, proprio voglia di inseguirlo con la carabina...
Presentato a Venezia l'anno scorso, El ciudadano ilustre è stato tradotto un po' frettolosamente "Il cittadino illustre", mentre la premessa del film è che dopo cinque anni di isolamento e crisi creativa, il premio Nobel Daniel Mantovani (Oscar Martínez, Coppa Volpi) decida all'improvviso di rispondere all'invito del suo piccolo luogo di nascita, che lo vuole nominare cittadino onorario. Laggiù per fortuna è ancora tutto brutto e disperato come si ricordava: le Pampas, un Polesine stirato per centinaia e centinaia di chilometri, alla mercé di allevatori ignoranti e fieri d'esserlo. La parata sul camion dei pompieri, con la reginetta di bellezza. Alla tv le pubblicità del mate dietetico. La cultura per i suoi compatrioti è una presentazione in powerpoint (geniale), l'arte un ritratto di Papa Bergoglio. Mantovani ci prova, a essere gentile con loro: ma forse è una trappola, forse se l'è organizzata da solo. In un'aiuola dei giardinetti c'è già il suo busto pronto, a tiro di piccioni. El ciudadano è anche un test divertente: c'è chi uscirà convinto di aver visto l'opera di due brillanti cineasti di Buenos Aires che demoliscono le velleità dei provinciali. È un'interpretazione come un'altra; ma è il film stesso ad autorizzarne di più sofisticate. Il cittadino illustre arriva al cinema Lux di Busca giovedì 6 e venerdì 7 aprile, alle ore 21.
Comments (4)
Fo era un grande, Fo era un grillino, Fo era brechtiano (e Dylan no)
15-10-2016, 18:15Beppe Grillo, coccodrilli, italianistica, snobismi, teatroPermalinkContrariamente a quanto molti pensano, lo strumento che si vede nella foto non serviva a suonare musica, ma a scrivere parole su un foglio. |
Mettiamola così: io non ci sto a invocare qualche forma di infermità senile per l'anziano Dario Fo. Quando decise di seguire Grillo e i suoi, per me era ancora perfettamente in grado di capire e comprendere: era ancora lo stesso Dario Fo di Mistero Buffo. Non vedo contraddizioni, anzi vedo una profonda coerenza di fondo. Fo era grillino molto prima che arrivasse Grillo; possiamo dire che lo era dal medioevo. Per dimostrarlo prendo un libro a caso.
A fine anni '90, grazie a una pazza idea dei giurati di Stoccolma che potevano leggere le sue commedie tradotte in svedese (altri scrittori italiani che ritenevamo più importanti non erano stati tradotti) Fo diventa all'improvviso un Venerato Maestro.
APERTA PARENTESI
Con tutto il bene che voglio a Bob Dylan, e a tutti i brutti dischi che mi ha fatto ascoltare (nessuno ha mai fatto tanti dischi brutti come Dylan), con tutto il sollievo che provo perché per una volta hanno premiato uno che un po' conosco, devo dire che per me il Nobel alla letteratura più pazzo di tutti, quello che mi ha dato più soddisfazioni, continua a sembrarmi quello a Fo.
Dylan farà brontolare ancora un po' i benpensanti di ogni età, quelli con l'estetica a compartimenti stagni ("letteratura", "musica") che non si capisce neanche esattamente dove se la siano formata: cioè non puoi neanche dare la colpa al liceo gentiliano, o a un Benedetto Croce; nemmeno loro la mettevano giù tanto scema. Più probabilmente hanno in testa i reparti di una libreria, di un multistore: i testi di Dylan non sarebbero "letteratura" perché non stanno in quello scaffale, più che autonomia/eteronomia dell'arte dev'essere una questione merceologica, di inventario.
Con Fo è diverso. Faceva teatro - che è una branca della letteratura più o meno da Eschilo - e non si può neanche dire che non si affidasse alla parola scritta: cioè è vero che improvvisava, ma i testi teatrali suoi e della Rame sono tutt'altro che canovacci: sono dialoghi assolutamente scritti, di buona qualità - e nessuno aveva protestato per George Bernard Shaw o tanti altri. No, il problema con Fo era un po' più sottile. C'è qualcosa in lui che non riusciamo a ridurre a "letteratura", in un senso della parola "letteratura" che non è chiaro nemmeno a noi: e non sono le boccacce o il grammelot. Credo che sia un po' lo stesso problema di Brecht. Fo è un autore a suo modo brechtiano, e quello che fa Brecht non è più, in senso stretto, "letteratura". Forse ancora negli anni Cinquanta, ma in seguito il reparto si è ristretto. Abbiamo deciso, per esempio, che la politica non c'entra, sta in altri scaffali. Ma Brecht la politica la voleva fare. Galileo e Madre Coraggio sono testi che non si limitano a descrivere il mondo: lo vogliono cambiare. Non stanno al loro posto, non si accontentano di gareggiare in un'ipotetica serie A del consumo letterario che peraltro è stata formalizzata qualche decennio dopo da una branca commerciale di qualche casa editrice.
Con Fo succede la stessa cosa. Marino libero, Marino è innocente! è un bel monologo? Non lo so. Quel che mi è ben chiaro, dopo averlo visto, non è la qualità letteraria del testo, ma il fatto che Marino sia, perlappunto, innocente. Si può apprezzare un testo del genere se invece sei sicuro che Marino sia colpevole? Un fascista può apprezzare Brecht? Secondo me no. Al limite ci sarà un equivoco, ma Brecht non è un autore che si lasci così liberamente interpretare. Ha lasciato note di scena ben precise, non puoi interpretare il Galileo come una difesa di Galileo o addirittura della Chiesa cattolica: non funziona.
Con altri scrittori non succede questo - non è previsto che succeda. Non devo condividere l'ideologia di Hemingway - ammesso che ne abbia una - per amare Hemingway. Non devo coindividere le idee politiche di Montale, non devo condividere le convinzioni di Rushdie, e nemmeno quelle di Bob Dylan. Ma non potevo uscire da uno spettacolo di Fo dicendo "mi è piaciuto ma non mi ha convinto". Se non ti ha convinto, non ti è piaciuto. Non è letteratura nel senso che gli abbiamo dato negli ultimi anni: forse è propaganda. In ogni caso la faceva benissimo. Ma a questo punto, di nuovo, si pone il problema: gli possiamo perdonare di essere diventato grillino? Perché non è stato un equivoco, lui nel grillismo ha visto qualcosa che aveva inseguito per tutta la vita. Come stavo perlappunto per mostrare prima di aprire questa parentesi che adesso chiudo.
CHIUSA PARENTESI
A fine anni '90, grazie a una pazza idea dei giurati di Stoccolma che potevano leggere le sue commedie tradotte in svedese (altri scrittori italiani che ritenevamo più importanti non erano stati tradotti) Fo diventa all'improvviso un Venerato Maestro. Potrebbe ritirarsi o ripetere i vecchi numeri approfittando del rilassamento della censura, e invece si butta in altri progetti. Lavora molto. Si interessa soprattutto a uno dei periodi meno conosciuti della nostra Storia, la tarda antichità. Il progetto multimediale La vera storia di Ravenna (1999) prelude ad analoghi spettacoli dedicati al duomo di Modena, ad Ambrogio e ad altre cose che sicuramente mi sono sfuggite; però già nel '99 in quel libro Fo non si limita a raccontare la città che lo ospita: sono due secoli di Storia che riscrive, approfittando del fatto che non li conosce nessuno.
Il libro è completamente disponibile on line: è una lettura facile e godibile (era uno spettacolo per le scuole, questo fanno gli scrittori brechtiani: mentre voi vi affannate a leggere Roth o ascoltare Dylan, occupano le scuole e vi rovinano i fanciulli), ed è assolutamente in linea con quello che Fo aveva fatto prima, ma anche con quello che ahinoi appoggerà dopo. C'è l'amore per il popolo, unico vero motore della Storia: c'è tutta la curiosità del lettore operaio di Brecht, che vuole sapere se Giulio Cesare avesse un cuoco. E poi c'è questa cosa folle che vi vado a mostrare: la scoperta di un eroe proletario nell'Italia disastrata del sesto secolo. Nientemeno che Totila, re dei Goti. Approfittando di due o tre accenni a una riforma fondiaria che Totila aveva avvallato per rifondare il suo esercito, Dario Fo descrive una scena che col senno del poi assume una valenza ben più inquietante di quella che aveva a fine anni '90 (ai quei tempi al massimo ci si diceva vabbe', Cristo e morto, Marx è morto, e Fo si mette a cercare un Che Guevara nella Storia dei Goti).
La riforma fondiaria di Totila non ebbe un grosso seguito: vuoi per la peste che colpì di lì a poco la penisola, decimandone gli abitanti (e rendendo una riorganizzazione del territorio in qualche modo necessaria); vuoi perché dopo tante brillanti vittorie che Fo racconta con l'entusiasmo del militante, Totila viene sconfitto e i suoi seguaci crocefissi. Però per Fo l'importante è che ci sia stata: che abbia preso l'esempio da una rivolta avvenuta poco prima in Palestina, e che abbia passato il testimone ad altre rivendicazioni, altre lotte avvenute poco dopo nei territori Bizantini. Totila non è morto, Totila lotta insieme a noi - Fo non lo scrive, ma vuole che uscendo di teatro noi un po' lo pensiamo. In seguito vedrà nel Duomo di Modena l'opera di un popolo che non vuole essere eterodiretto da papi o imperatori, e dipingerà Sant'Ambrogio come l'eroe del popolo di Milano, un non battezzato che diventa vescovo per acclamazione. Si tratta di operazioni propagandistiche molto più spinte di quelle che i Wu Ming stanno facendo nello stesso periodo. Fo riscrive la Storia dal basso - gli storici ovviamente storcono il naso ma non è a loro che evidentemente Fo guarda. Fo sta cercando e proponendo dei modelli, un po' perché quelli del Novecento ormai sono inutilizzabili, un po' perché è quel che ha sempre fatto, dai tempi di Lisistrata e Mistero Buffo.
Un passo oltre: in quel re barbaro che convoca i servi della gleba, gli propone di abolire il feudalesimo della Casta e confessa "abbiamo poca esperienza", non vi sembra di riconoscere qualcuno? Un Fo che era disposto a farsi andar bene personaggi come Totila o lo stesso Ambrogio, perché non avrebbe dovuto salutare con gioia l'avvento di Grillo e dei suoi uomini inespertissimi? Il movimento del Vaffanculo, Fo lo stava aspettando da una vita. Era stata la voce che lo chiamava dal deserto del Novecento. E a questo punto la palla torna a noi. Ci piaceva Fo, ovvero: ci piaceva una persona che il grillismo lo ha immaginato, lo ha cercato qua e là nei secoli più bui della nostra Storia, lo ha finalmente visto in Grillo e nei suoi. Possiamo anche raccontarci che la situazione sia molto più complessa, ma non è così. Possiamo stabilire che che Fo ci piaceva in quanto geniale propagandista di una cosa che in realtà non funziona, ma è un'operazione un po' fredda. Se davvero ci piace Fo, dobbiamo accettare che c'è qualcosa del grillismo che tutto sommato non ci dispiace: e decidere, di conseguenza, se vogliamo rimuoverla o mantenerla dentro di noi. Almeno per me è così
Comments (12)
Poveri inediti idioti
09-11-2011, 02:38ragazzini, snobismi, tvPermalinkVoglio scrivere anch'io due minchiatine sui Soliti Idioti, ovviamente senza aver visto il film (quest'anno va così. Anche se devo dire che l'unico blogger che lo ha visto ne ha parlato abbastanza bene). Confesserò per prima cosa di essere uno di quegli insospettabili che ogni tanto in tv li guarda, ridacchiandoci anche su. Così l'attacco della De Gregorio mi ha ferito un po'. Mi sono ritrovato schiacciato ai minimi livelli culturali di una generazione che non è la mia, io passo di lì solo, ehm, per informarmi, sapete, col mio mestiere è vitale conoscere i tormentoni o va finire che non capisci più gli insulti che ti scrivono sulle porte del bagno. Va da sé che quello che ha scritto la De Gregorio sui Soliti Idioti e sul pubblico ebete dei Soliti Idioti si sarebbe potuto scrivere di quasi tutti i format comici passati nei nostri palinsesti dal Drive In in poi – e se scrivo Drive In è soltanto perché la mia memoria si blocca lì, ma può darsi che si facesse tv scema anche in precedenza, perlomeno lo attesterebbero alcune filastrocche di carosello tramandate oralmente, nonché alcuni reperti rinvenuti durante Da Da Da. Senz'altro i Soliti Idioti non è un capolavoro. Ma che sia intrinsecamente meno intelligente del tardo Mai dire Gol, o di Indietro Tutta (per citare due trasmissioni a caso che hanno fatto ridere generazioni di ragazzini) no, io non lo credo. Secondo me la vera novità dei Soliti Idioti non sta nemmeno nella cifra grottesca, che altre trasmissioni avevano anticipato e che comunque è inferiore a molti reality in prima serata in chiaro. Credo che si tratti principalmente di una questione di budget.
I Soliti Idioti è una trasmissione povera, questa secondo me è la novità, e non è una buona novità. Pur restando un prodotto dignitoso e professionale, con qualche slancio coraggioso (ogni tanto incidono una canzone nuova, abbozzano una coreografia), i Soliti Idioti sostanzialmente sono due attori non troppo professionisti che fanno degli sketch con personaggi ricorrenti. Ok, ci sono le parolacce, ma in sostanza i Soliti Idioti lo potremmo anche considerare un programma reazionario, quasi involutivo, un ritorno alle scenette che prelude forse a un ritorno a Carosello, dopodiché torneranno le pecorelle, il monoscopio, la tv smetterà di funzionare e dopo un po' anche la radio, e risaliremo sugli alberi. In realtà è tutto spiegabile con le crisi, che sono tre o quattro: la crisi economica (una volta ogni programma aveva cinque o sei comici, oggi se una rete ha un comico lo spreme per due ore di monologhi, ma non le regge nemmeno Guzzanti, figurati Crozza), la crisi dei consumi giovanili, la crisi del musicale, la crisi di MTV Italia. Quest'ultima è la più circoscritta ma anche la decisiva: forse i Soliti Idioti non avrebbe penetrato così bene la dura cervice dei giovani d'oggi, se a un certo punto MTV non avesse deciso di riempire il suo palinsesto (soprattutto in estate) di repliche infinite di un programma scopiazzato dai britannici (mancavano anche i soldi per comprarsi il format vero). E coi ragazzi, si sa, la reiterazione è fondamentale. Naturalmente i guru ci spiegheranno che il vero successo è quello virale, per cui ogni singolo sketch veniva condiviso e apprezzato e commentato su youtube; io però ho passato quasi tutta l'estate scorsa a casa e a un certo punto mi sembrava che MTV fosse diventata I Soliti Idioti Tv.
A proposito, non so se ne avete sentito parlare, ma di recente tutte le MTV del mondo hanno cambiato il logo, togliendo la scritta “Music Television” che in effetti ormai era un retaggio del passato. Questa cosa per alcuni della mia età è dura da mandar giù, anche se in fin dei conti non è nulla di grave: canali che sparano musica 24 ore su 24 ce ne sono ancora da qualche parte sul digitale terrestre. Non vanno molto bene, altrimenti anche MTV si sarebbe tenuto la sua M originale. Gli assassini siamo stati noi, non è vero? Scaricando e scaricando abbiamo messo in ginocchio le povere major, che hanno smesso di investire capitali nella promozione dei loro artisti, e MTV si è data ai reality scemi. Ce lo siamo meritato tutto, Jersey Shore (però le repliche alle due del pomeriggio, Cristo, no, dov'è il Moige quando serve).
La povertà dei Soliti Idioti si riflette su un altro aspetto che mi sembra sia sfuggito a molti, ed è la dilatazione dei tempi comici. Qual è la differenza principale tra gli sketch dei Soliti Idioti e quelli, poniamo, dei comici della Gialappa cinque o dieci anni fa? Sono più grotteschi? Forse. Sono meno ispirati? Il budget è quel che è. Ma soprattutto gli sketch dei Soliti Idioti sono più lenti. È un fenomeno di cui parlano in pochi, e che secondo me è fondamentale, forse è l'unica cosa che ho capito dei giovani d'oggi e ve la lascio qui gratis: ai giovani d'oggi le cose bisogna spiegargliele con lentezza, e ripetergliele molte volte.
Questo non significa che i giovani d'oggi siano irrecuperabili come dice la De Gregorio. A me piace pensare che sia uno di quei contraccolpi storici: dopo una Mtv generation ipercinetica che messaggiava guardando video e negli intervalli degli spot votava per un mondo migliore, forse una generazione che se la prende calma e apprezza la lentezza potrebbe salvarci. In ogni caso mi aspetto un ritorno dei ritmi lenti nei film dei prossimi anni, anche solo perché più veloci di Transformers non si può andare. Non so quanto il film dei Poveri Idioti confermi questa mia ipotesi e onestamente non ho neanche voglia di andare a controllare. Non so neanche bene perché sono contento che il film stia andando forte. Non credo c'entri lo snobismo all'incontrario.
Credo che sia una specie di solidarietà per una generazione – quella degli adolescenti di oggi – che non è ancora riuscita a recintare qualcosa e a chiamarlo suo. I nativi digitali, in teoria – in pratica internet è piena di bavosi trenta-quarantenni che ti spiegano la netiquette e ti adescano sui social network. La musica è già tutta on line, ma per capirla, per metterti la maglietta giusta, devi almeno conoscere le evoluzioni stilistiche degli ultimi trent'anni. Persino i comici in tv, il grado zero virgola uno dell'intrattenimento, quelli da cui si pretende poco o nulla, appena un tormentone da portarsi a scuola per sentirsi meno soli nell'intervallo del lunedì – persino loro ormai sono incomprensibili, fanno solo satira politica che è una cosa che per capirla devi prima conoscere la politica ed è più o meno come con la musica, ti tocca ripartire dall'avvento del grunge e di Silvio Berlusconi, vent'anni fa. Alla fine arrivano Biggio e Mandelli, e non sono un granché, però finalmente fanno qualcosa che ai vecchi fa schifo. Finalmente! Non imitano quei politici noiosi e sconosciuti, non fanno riferimenti a cose lontane, forse copiano un programma inglese ma questa è una curiosità da blogger di nicchia, e hanno un ritmo lento, se non capisci una gag loro te la ripetono più lenta finché non ci arrivi. Ecco, i Soliti Idioti sono il povero programma che ci mancava. Non è un granché, ma non è che ai ragazzini serva tutto questo granché per divertirsi. E probabilmente a ridere con poco ci si dovranno abituare.
Comments (15)
Mediocrazia
01-10-2008, 18:14Americana, futurismi, snobismiPermalinkGeorge Abnego Rules
Sbolliti i primi entusiasmi per le foto in costume (quasi tutti fotomontaggi), negli ultimi giorni l'immagine pubblica di Sarah Palin si è spostata: da personaggio eccezionale a simbolo della normalità americana, contro la spocchia delle élites, ben rappresentate da Obama.
E questo riapre l'eterno dibattito: un buon Presidente deve esprimere le volontà e il buon senso della gente comune, o le idee delle élites? E se la gente comune dimostrasse di non aver affatto buon senso? Davvero bisogna preferire una persona mediocre perché "rappresenta meglio la gente"? Ma il rischio di portare la mediocrità al potere non è un vizio congenito della democrazia rappresentativa? E quanto alle élites: chi ci garantisce che ciò che è buono per loro lo debba essere anche per noi? Ultimamente ne ha scritto qualcosa Luca Sofri. Io sull'argomento non avrei molto da aggiungere a quello che scrisse Comesichiama, un autore di fantascienza anni '50 di quelli arguti e geniali, in quel folgorante racconto, dai... quello in cui i cani addestrano gli uomini a... Non mi ricordo più, l'ho letto parecchi anni fa in una di quelle raccolte Bompiani... Beh, mi aspettavo che prima o poi qualcuno lo avrebbe citato.
Passano i giorni, e non lo cita nessuno. Alla fine ho provato su google. Figurati se negli USA non lo citano tutti, quel famoso racconto di...
Dopo un po' mi rendo conto che il "famoso racconto" me lo ricordo solo io, e anche poco. Su google si trova soltanto qualche vago riferimento. Sono costretto a rovistare nella poderosa biblioteca di fantascienza della mia cara mamma. Ci metto anche un po', ma alla fine lo trovo: si chiama Null-P, Null-P di William Tenn. Si trova nel 13mo volume della meravigliosa raccolta Le grandi storie della fantascienza che la copertina attribuisce tutti ad Asimov (negli anni '80 la parola "Asimov" in libreria vendeva di più che "fantascienza"). La stessa copertina esibisce dei coleotteri giganti che sparano raggi laser su una corazzata. E poi uno dice che in Italia manca la cultura scientifica.
Il volume, naturalmente, non contiene storie di coleotteri giganti, bensì una manciata di capolavori pubblicati nel 1951, come il celeberrimo Gli idioti in marcia di Kornbluth.
Insomma, è un libro che vale la pena di comprarsi, appena lo ristampano. (Magari con una copertina migliore. Magari lo stanno già facendo).
Nel frattempo ho pensato di fare cosa utile e gradita (ancorché parzialmente illegale) riproducendolo integralmente qui. Si legge in cinque minuti, e si risolve per sempre la questione dell'elitarismo. O almeno ci si rende conto che questa sensazione di imminente avvento della stupidità al potere era già perfettamente avvertita nel 1951.
Dai, su, cinque minuti. Se vi dico che ne vale la pena...
Comments (27)
Vizi italiani (2): pappagalli
11-07-2007, 12:10essere donna oggi, frangetta, Moretti (Nanni), snobismi, tormentoni, tv, vizi italianiPermalinkNon scriverò tormentoni
Non scriverò tormentoni
Non scriverò tormentoni – ops.
La ragazza automatica
Dopo tanto, il video originale di Frangetta non lo avevo ancora visto. È carino.
Per i non iniziati: il pezzo è stato diffuso su internet, mesi fa,col passaparola con i nuovi fenomenali mezzi di condivisione del web 2.0. L’intenzione degli autori viene subito intesa e apprezzata: si tratta di stigmatizzare le abitudini e i tic linguistici di un determinato tipo umano, la ragazza-con-frangetta che studia a Milano e passa lunghe serate appoggiata al muro dei locali, a togliere e mettere gli occhiali grossi. Il suo discorse è una semplice enumerazione di cose che si fanno e di persone che si incontrano; l’ironia è evidente, ma non viene mai esplicitata. Con voce d’automa la ragazza descrive un mondo di abitudini e passatempi che dovrebbero descrivere una personalità originale, e invece sono terribilmente omologati. Ottimo. Gran pezzo, tra i capolavori della misoginia contemporanea. Finché...
Scrivo-una-“Frangetta”
La-mando-a-Radio-DeeJay
...Finché non è piaciuto anche a Linus, di radio Dj, che lo ha trasformato in un tormentone del suo programma, ed è arrivato al punto di lanciare una simpatica iniziativa: “mandateci le vostre frangette. Come parlano le ragazze snob di Roma, Torino, Bologna, Catania, Castellamare di Stabia?”. Linus è simpatico, e quello che ha fatto è molto interessante, ancorché perverso. Da buon intrattenitore italiano, ha ragionato così: se una cosa è divertente, moltiplichiamola per cento e sarà divertente cento volte; non solo, ma occorre tener presente del localismo italiano, perché i romani non ridono come i milanesi o i fiorentini o i goriziani. Tutti si devono sentire protagonisti, tutti hanno una parlata divertente. E non va sottovalutato il risultato finale: un atlante d’Italia dei ritrovi delle ragazze snob.
Ne è nato un vero e proprio genere letterario, che se in realtà ha smesso subito di essere divertente, ha continuato a lungo ad essere interessante; vedasi per esempio questo intervento di Roberto Moroni che confrontando la versione originale con la copia romana, definisce i ritardi dell’ironia romanesca (ancorata al vernacolo) rispetto al cosmopolitismo milanese.
E allora che male c’è nella proliferazione di frangette? Beh, è un paradosso enorme. La canzoncina nasceva per irridere l’omologazione culturale di un gruppo di persone, e si è trasformata in un tormentone super-omologato, con tanto di bollino di radio dj e varianti regionali. Ora la ragazza automatica potrebbe concludere il pezzo così: Scrivo-una-frangetta. La-mando-a-radio-Dj.
Sarà che sono un ingenuo, che mi ostino a credere che la parola serva a cambiare le persone. Persino una canzoncina come questa, secondo me, avrebbe dovuto servire a smuovere la coscienza delle frangette. È la stessa folle idea che aveva Flaubert, mentre redigeva il dizionario dei luoghi comuni. Lui li enumerava tutti per consumarli, per impedire alla gente di usarli più. Ecco. Io credevo che la Frangetta originale servisse a far sì che le frangette smettessero di comprare Taschen come se fossero soprammobili. Ma in Italia non funziona così. In Italia le ragazze che ancora non si sentivano abbastanza frangette si sono messe ad ascoltare la canzone prendendo appunti sugli occhiali grossi e sui registi importanti da scaricare. Siamo un popolo di pappagalli. È sempre così.
Moretti-Ricci-De Beauvoir
Viene sempre in mente la stessa scena di Ecce Bombo: “Come campi?” “Faccio cose, vedo gente”. Il pubblico ride. Ma era una scena drammatica, di un film malinconico e moralista. La ragazza-automatica di quei tempi non portava la frangetta, viveva di espedienti e non aveva progetti per il futuro: Moretti la descriveva perché voleva consumarla, distruggere il modello, impedire che altre ragazze cominciassero a vivere così. E invece è stato ridotto a un tormentone, pure lui: ci siamo sorbiti trent’anni di ragazze divertenti che ti dicevano “faccio cose, vedo gente”, con la scusa dell’autoironia. L’autoironia. Ma essere autoironici a diciott’anni e un po’ come studiare sodo per diventare sfigati da grandi.
Poi mi viene in mente un altro italiano con la barba, Ricci. Lui secondo me ha cominciato con le migliori intenzioni. Voleva far ridere la gente sui fatti del giorno, non c’è missione migliore, anch’io ne sono convinto. Poi ha notato che la maggior parte del pubblico non rideva perché capiva le battute: rideva per simpatia, per imitare gli altri. La maggior parte in effetti non capiva nulla e rideva perché aveva paura che gli altri non se ne accorgessero. Al punto che rideva anche se lo sketch non era divertente, in effetti bastava una risata finta a farli scattare. Insomma, a un certo punto Ricci ha capito che gli italiani sono un popolo di pappagalli.
E ha tratto le sue conseguenze. Tormentoni facili da memorizzare e ripetere, e risate, risate finte ovunque. Se ogni tanto c’è anche una battuta, il comico te la spiega due volte. Se c’è una situazione buffa, te la ripete tre o quattro volte, perché è sicuro che la prima non ci arrivi. Se c’è una candid camera con un cane che salta per prendere un bastoncino e sbatte la testa contro un ramo, lui non si fida: qualcuno del pubblico potrebbe non capire che è divertente, meglio doppiare il cagnolino con una voce (dialettale, s’intende) che dice “Ahia che male”. Persino le tette devono essere molto evidenti, perché gli italiani fanno persino fatica ad arraparsi, e anche in quello si fidano molto del giudizio di chi hanno intorno. Persino il pupazzo è grosso, e di colore rosso acceso, perché i pappagalli reagiscono soprattutto ai colori.
Infine mi viene in mente qualcosa che non c’entrerebbe nulla con Ricci e Moretti; una vecchia prefazione a un romanzo della De Beauvoir che non ho in casa, e che diceva, se ricordo bene: state attenti. Voi questo romanzo lo leggete come una delle pietre miliari dell’esistenzialismo, e della questione femminile eccetera: ma al tempo serviva anche come manuale pratico sui locali da frequentare nel Quartiere Latino. Insomma, non c’è niente da fare. Ci sono persone – non necessariamente stupide – che leggono i libri, come noi. Che ascoltano la musica, come noi. Che vanno al cinema, magari con noi: ma tutto quello che ne tirano fuori è un campionario di vestiti da indossare, di locali da frequentare, di atteggiamenti da assumere. Esistono, queste persone. E molto spesso sono ragazze. Anche simpatiche. Ma un po' automatiche. Non so perché, ma accade, e me ne cruccio.
Non scriverò tormentoni
Non scriverò tormentoni – ops.
La ragazza automatica
Dopo tanto, il video originale di Frangetta non lo avevo ancora visto. È carino.
Per i non iniziati: il pezzo è stato diffuso su internet, mesi fa,
Scrivo-una-“Frangetta”
La-mando-a-Radio-DeeJay
...Finché non è piaciuto anche a Linus, di radio Dj, che lo ha trasformato in un tormentone del suo programma, ed è arrivato al punto di lanciare una simpatica iniziativa: “mandateci le vostre frangette. Come parlano le ragazze snob di Roma, Torino, Bologna, Catania, Castellamare di Stabia?”. Linus è simpatico, e quello che ha fatto è molto interessante, ancorché perverso. Da buon intrattenitore italiano, ha ragionato così: se una cosa è divertente, moltiplichiamola per cento e sarà divertente cento volte; non solo, ma occorre tener presente del localismo italiano, perché i romani non ridono come i milanesi o i fiorentini o i goriziani. Tutti si devono sentire protagonisti, tutti hanno una parlata divertente. E non va sottovalutato il risultato finale: un atlante d’Italia dei ritrovi delle ragazze snob.
Ne è nato un vero e proprio genere letterario, che se in realtà ha smesso subito di essere divertente, ha continuato a lungo ad essere interessante; vedasi per esempio questo intervento di Roberto Moroni che confrontando la versione originale con la copia romana, definisce i ritardi dell’ironia romanesca (ancorata al vernacolo) rispetto al cosmopolitismo milanese.
E allora che male c’è nella proliferazione di frangette? Beh, è un paradosso enorme. La canzoncina nasceva per irridere l’omologazione culturale di un gruppo di persone, e si è trasformata in un tormentone super-omologato, con tanto di bollino di radio dj e varianti regionali. Ora la ragazza automatica potrebbe concludere il pezzo così: Scrivo-una-frangetta. La-mando-a-radio-Dj.
Sarà che sono un ingenuo, che mi ostino a credere che la parola serva a cambiare le persone. Persino una canzoncina come questa, secondo me, avrebbe dovuto servire a smuovere la coscienza delle frangette. È la stessa folle idea che aveva Flaubert, mentre redigeva il dizionario dei luoghi comuni. Lui li enumerava tutti per consumarli, per impedire alla gente di usarli più. Ecco. Io credevo che la Frangetta originale servisse a far sì che le frangette smettessero di comprare Taschen come se fossero soprammobili. Ma in Italia non funziona così. In Italia le ragazze che ancora non si sentivano abbastanza frangette si sono messe ad ascoltare la canzone prendendo appunti sugli occhiali grossi e sui registi importanti da scaricare. Siamo un popolo di pappagalli. È sempre così.
Moretti-Ricci-De Beauvoir
Viene sempre in mente la stessa scena di Ecce Bombo: “Come campi?” “Faccio cose, vedo gente”. Il pubblico ride. Ma era una scena drammatica, di un film malinconico e moralista. La ragazza-automatica di quei tempi non portava la frangetta, viveva di espedienti e non aveva progetti per il futuro: Moretti la descriveva perché voleva consumarla, distruggere il modello, impedire che altre ragazze cominciassero a vivere così. E invece è stato ridotto a un tormentone, pure lui: ci siamo sorbiti trent’anni di ragazze divertenti che ti dicevano “faccio cose, vedo gente”, con la scusa dell’autoironia. L’autoironia. Ma essere autoironici a diciott’anni e un po’ come studiare sodo per diventare sfigati da grandi.
Poi mi viene in mente un altro italiano con la barba, Ricci. Lui secondo me ha cominciato con le migliori intenzioni. Voleva far ridere la gente sui fatti del giorno, non c’è missione migliore, anch’io ne sono convinto. Poi ha notato che la maggior parte del pubblico non rideva perché capiva le battute: rideva per simpatia, per imitare gli altri. La maggior parte in effetti non capiva nulla e rideva perché aveva paura che gli altri non se ne accorgessero. Al punto che rideva anche se lo sketch non era divertente, in effetti bastava una risata finta a farli scattare. Insomma, a un certo punto Ricci ha capito che gli italiani sono un popolo di pappagalli.
E ha tratto le sue conseguenze. Tormentoni facili da memorizzare e ripetere, e risate, risate finte ovunque. Se ogni tanto c’è anche una battuta, il comico te la spiega due volte. Se c’è una situazione buffa, te la ripete tre o quattro volte, perché è sicuro che la prima non ci arrivi. Se c’è una candid camera con un cane che salta per prendere un bastoncino e sbatte la testa contro un ramo, lui non si fida: qualcuno del pubblico potrebbe non capire che è divertente, meglio doppiare il cagnolino con una voce (dialettale, s’intende) che dice “Ahia che male”. Persino le tette devono essere molto evidenti, perché gli italiani fanno persino fatica ad arraparsi, e anche in quello si fidano molto del giudizio di chi hanno intorno. Persino il pupazzo è grosso, e di colore rosso acceso, perché i pappagalli reagiscono soprattutto ai colori.
Infine mi viene in mente qualcosa che non c’entrerebbe nulla con Ricci e Moretti; una vecchia prefazione a un romanzo della De Beauvoir che non ho in casa, e che diceva, se ricordo bene: state attenti. Voi questo romanzo lo leggete come una delle pietre miliari dell’esistenzialismo, e della questione femminile eccetera: ma al tempo serviva anche come manuale pratico sui locali da frequentare nel Quartiere Latino. Insomma, non c’è niente da fare. Ci sono persone – non necessariamente stupide – che leggono i libri, come noi. Che ascoltano la musica, come noi. Che vanno al cinema, magari con noi: ma tutto quello che ne tirano fuori è un campionario di vestiti da indossare, di locali da frequentare, di atteggiamenti da assumere. Esistono, queste persone. E molto spesso sono ragazze. Anche simpatiche. Ma un po' automatiche. Non so perché, ma accade, e me ne cruccio.
Comments (16)
"son pieni di energia gli uomini"
13-02-2007, 17:42Chaplin, cinema, generazione di fenomeni, Moretti (Nanni), nicchia, non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo, snobismi, tvPermalinkAlzati, Bordone
Anche noi, venerdì, invece di uscire e recarci in qualche covo di snobisti, siamo rimasti sul divano davanti alle Invasioni Barbariche. Così effettivamente non ci è sfuggito lo scoop più controverso dell’anno (il servizio di Matteo Bordone, travestito da Matteo Bordone, che passa un pomeriggio intero in un ipermercato e poi va a non-ballare la salsa).
E non ci è piaciuto. Forse per snobismo antisnobista di ritorno, boh. Ma sicuramente non per antipatia preconcetta nei confronti di Bordone, tutt’altro. Di tutto si potrebbe accusare la mia coinquilina, salvo di antipatia preconcetta nei suoi confronti. E tuttavia avreste dovuto vedere la tristezza nei suoi occhi.
Allora: ci sarà in giro chi odia Bordone per motivi suoi e ha voglia di parlarne male: ma forse c’è anche chi c’è rimasto male perché Bordone in radio e altrove sembra molto, molto più simpatico di quello andato in onda venerdì. Una simpatia che nel servizio non c’era più: annullata. La tv ha masticato Bordone e ha risputato l’ennesimo snob-demofobo alla Zecchi. Non doveva finire così.
Poi, per un colmo di snobismo, ha iniziato a pioverci in casa. Quando ho riattaccato il PC, ho visto che ne avevano già parlato tutti. A questo punto che faccio? Sono più snob se mi attacco anch’io, o se faccio finta di niente?
Ho finto di essere un laureando di scienze della comunincazzone e mi sono brevemente rivisto il servizio (via macchia), cercando di capire cos’è che rendeva Bordone così irritante. Il montaggio? Le luci? La fotografia? No, direi che è tutto ok. Ma sin dalle prime riprese è chiaro un fatto: non c’aveva voglia. Certo, sempre meglio che simulare finti entusiasmi. Ma per tre minuti il personaggio barbuto non fa che spostarsi da una poltrona a una panchina, sembra invecchiato di 30 anni. A un certo punto prova anche un divano automassaggiante e dice che sembra di stare sull’intercity (un treno da snob: ma anche i regionali non vibrano mica male). “A fine serata sono stravolto” dirà alla fine. Guarda, senza acrimonia ti giuro: sembravi stravolto da subito. Il servizio funziona male soprattutto perché non c’è trama: il personaggio nasce stanco e stanco muore. Ma la gente in tv vuole colpi di scena.
E poi vuole che tu faccia il primo passo. Cioè, lo sappiamo tutti benissimo che 6 ore in un centro commerciale sono da ricovero, ma almeno la prima mezz’ora ci devi provare. Devi prendere in mano un oggetto che ti piace. Solidarizzare col vecchietto o la commessa. E se ti chiedono un ballo, porco cane, devi ballare. Nella sua replica, Bordone cita il Battiato di E ti vengo a cercare, e attraverso Battiato (non so quanto consciamente), Nanni Moretti: l’archetipo dello snob barbuto italiano. Moretti è molto, molto più irritante di quanto Bordone potrà mai essere; eppure Moretti non si è mai negato il primo passo. Ci prova sempre. Se c’è da ballare, Moretti balla. In un campo da calcio si gioca a pallone. In un caffè si chiacchiera. Sulla spiaggia, ci si bacia. Poi finisce sempre male, ma Moretti ci prova. Prima d’esser buttato fuori.
Gratta gratta, il meccanismo è lo stesso dei grandi film di Chaplin: nel labirinto disumano della città moderna il Vagabondo prova qualunque mestiere, qualunque esperienza di vita. Non è mai a suo agio, ma riesce sempre a regalare all’ambiente qualcosa di originale. E tutto, per un attimo, funziona: finché non arriva qualcuno a dire che non si può stare lì. Ai tempi di Chaplin era un poliziotto-con-sfollagente. Moretti di solito si fa cacciar via da qualche "persona normale". La banalità della prepotenza.
Io credo che la modernità debba essere esplorata con un po’ più di energia, di coraggio, al modo in cui lo faceva il Vagabondo: è un centro commerciale disumano in cui scavarti la tua nicchia, consapevole che l’estraneo, il poliziotto, la pioggia dai tegoli, può portarti via tutto in poche ore. Puoi lavorarci, ma puoi anche nasconderti, pattinarci, giocarci. Dopodiché capita anche a me di addormentarmi in piedi, se accompagno qualcuno lungo certe rotte dello shopping. E allora metto su una musichetta interna, uno di quei pezzi da pianoforte che accompagnavano i film muti. E guardo in camera e tiro avanti. Qualcuno, da qualche parte, ride di me: è una cosa che a volte consola.
Anche noi, venerdì, invece di uscire e recarci in qualche covo di snobisti, siamo rimasti sul divano davanti alle Invasioni Barbariche. Così effettivamente non ci è sfuggito lo scoop più controverso dell’anno (il servizio di Matteo Bordone, travestito da Matteo Bordone, che passa un pomeriggio intero in un ipermercato e poi va a non-ballare la salsa).
E non ci è piaciuto. Forse per snobismo antisnobista di ritorno, boh. Ma sicuramente non per antipatia preconcetta nei confronti di Bordone, tutt’altro. Di tutto si potrebbe accusare la mia coinquilina, salvo di antipatia preconcetta nei suoi confronti. E tuttavia avreste dovuto vedere la tristezza nei suoi occhi.
Allora: ci sarà in giro chi odia Bordone per motivi suoi e ha voglia di parlarne male: ma forse c’è anche chi c’è rimasto male perché Bordone in radio e altrove sembra molto, molto più simpatico di quello andato in onda venerdì. Una simpatia che nel servizio non c’era più: annullata. La tv ha masticato Bordone e ha risputato l’ennesimo snob-demofobo alla Zecchi. Non doveva finire così.
Poi, per un colmo di snobismo, ha iniziato a pioverci in casa. Quando ho riattaccato il PC, ho visto che ne avevano già parlato tutti. A questo punto che faccio? Sono più snob se mi attacco anch’io, o se faccio finta di niente?
Ho finto di essere un laureando di scienze della comunincazzone e mi sono brevemente rivisto il servizio (via macchia), cercando di capire cos’è che rendeva Bordone così irritante. Il montaggio? Le luci? La fotografia? No, direi che è tutto ok. Ma sin dalle prime riprese è chiaro un fatto: non c’aveva voglia. Certo, sempre meglio che simulare finti entusiasmi. Ma per tre minuti il personaggio barbuto non fa che spostarsi da una poltrona a una panchina, sembra invecchiato di 30 anni. A un certo punto prova anche un divano automassaggiante e dice che sembra di stare sull’intercity (un treno da snob: ma anche i regionali non vibrano mica male). “A fine serata sono stravolto” dirà alla fine. Guarda, senza acrimonia ti giuro: sembravi stravolto da subito. Il servizio funziona male soprattutto perché non c’è trama: il personaggio nasce stanco e stanco muore. Ma la gente in tv vuole colpi di scena.
E poi vuole che tu faccia il primo passo. Cioè, lo sappiamo tutti benissimo che 6 ore in un centro commerciale sono da ricovero, ma almeno la prima mezz’ora ci devi provare. Devi prendere in mano un oggetto che ti piace. Solidarizzare col vecchietto o la commessa. E se ti chiedono un ballo, porco cane, devi ballare. Nella sua replica, Bordone cita il Battiato di E ti vengo a cercare, e attraverso Battiato (non so quanto consciamente), Nanni Moretti: l’archetipo dello snob barbuto italiano. Moretti è molto, molto più irritante di quanto Bordone potrà mai essere; eppure Moretti non si è mai negato il primo passo. Ci prova sempre. Se c’è da ballare, Moretti balla. In un campo da calcio si gioca a pallone. In un caffè si chiacchiera. Sulla spiaggia, ci si bacia. Poi finisce sempre male, ma Moretti ci prova. Prima d’esser buttato fuori.
Gratta gratta, il meccanismo è lo stesso dei grandi film di Chaplin: nel labirinto disumano della città moderna il Vagabondo prova qualunque mestiere, qualunque esperienza di vita. Non è mai a suo agio, ma riesce sempre a regalare all’ambiente qualcosa di originale. E tutto, per un attimo, funziona: finché non arriva qualcuno a dire che non si può stare lì. Ai tempi di Chaplin era un poliziotto-con-sfollagente. Moretti di solito si fa cacciar via da qualche "persona normale". La banalità della prepotenza.
Io credo che la modernità debba essere esplorata con un po’ più di energia, di coraggio, al modo in cui lo faceva il Vagabondo: è un centro commerciale disumano in cui scavarti la tua nicchia, consapevole che l’estraneo, il poliziotto, la pioggia dai tegoli, può portarti via tutto in poche ore. Puoi lavorarci, ma puoi anche nasconderti, pattinarci, giocarci. Dopodiché capita anche a me di addormentarmi in piedi, se accompagno qualcuno lungo certe rotte dello shopping. E allora metto su una musichetta interna, uno di quei pezzi da pianoforte che accompagnavano i film muti. E guardo in camera e tiro avanti. Qualcuno, da qualche parte, ride di me: è una cosa che a volte consola.
Comments (14)
23-06-2003, 14:56fascismo, fumetti, omofobie, referendum, snobismiPermalink
L’avete chiesto, l’avete richiesto, e mo’ beccatevi il
Basic Culture Simulator 1.9
Mai più nozioni superflue!
Proust, Marcel
Gay della prima metà del Novecento. Viveva in una stanza foderata di sughero per attutire i rumori. Grandissimo scrittore, mica come certi blog prolissi ed egocentrici.
Intingendo un giorno un pasticcino nel the, Proust trova l’ispirazione per scrivere un’autobiografia in otto volumi, dopodiché muore.
Preferiva le canzonette alla musica classica, come chiunque, ma aveva la faccia tosta di dirlo, per cui quando in società tutti parlano di Brahms e a voi scappa un commento sugli Strokes, potete sempre difendervi tirando fuori Marcel Proust. Forse è per questo che è lo scrittore più amato dai deejay di un certo spessore.
Musil, Robert
Scrittore austriaco della prima metà del Novecento. Nel primo libro parla delle sue esperienze gay in un collegio. In seguito decide di scrivere un colossale romanzo sulla decadenza dell’Impero Asburgico, ma arrivato a metà (più o meno a pagina mille, cioè) si blocca. Nel frattempo (nel 1919) l’Impero Asburgico crolla davvero, di colpo, lasciando esterrefatti centinaia di scrittori che contavano di sfornare romanzi sulla decadenza asburgica ancora per qualche secolo.
Anche Musil si fa prendere dallo sconforto, pubblica i suoi articoli come “scritti postumi di un autore in vita”, è tentato di archiviare il poderoso romanzo, ma i suoi lettori non lo lasciano in pace: si sono sciroppati un migliaio di pagine intense e hanno il diritto di sapere come va a finire. Musil cincischia, tenta la carta del morboso inventandosi una sorella gemella del protagonista, ma anche dopo l’incesto il romanzo non vuole saperne di finire. Almeno credo, perché a pagina duemila mi sono fermato pure io.
In realtà ho tirato fuori Musil soltanto perché non riesco a dimenticarmi la sua definizione di snobismo, letta su un’antologia della quinta liceo che non riesco più a trovare: lo snobismo consiste nell’infilare in una lista di pittori famosi il nome di un pittore sconosciuto ai più. (Funziona benissimo anche con gli scrittori e coi cantanti).
Mi è venuta in mente qualche giorno fa, leggendo il canone occidentale di Scarpa: Catullo, Agostino, Montaigne, Proust, Céline, Henry Miller, Anais Nin, Paul Léautaud… mi chiedevo, per l’appunto: ma chi diavolo è Paul Léautaud? Beh, ecco qui. Bastava un link…
E per oggi con la letteratura abbiamo finito. Che ne dite di un po’ di Storia?
Termopili, Battaglia delle
Strage greca del quinto secolo avanti Cristo: per rallentare le armate persiane, trecento spartani guidati da Leonida (più altri 700 tespiesi di cui nessuno parla mai) si fecero massacrare eroicamente. Se avessero lasciato passare i persiani, probabilmente il re Serse si sarebbe fatto un giro, avrebbe sottomesso formalmente una ventina di villaggi costieri e se ne sarebbe tornato soddisfatto dall’altra parte del mondo.
Invece, mandando al macello sé e mille compagni, Leonida (luogotenente di uno stato fascista basato sulla schiavitù e sulla segregazione razziale) ha ottenuto l’indubbio onore di figurare in tutti i libri di scuola della quarta ginnasio come il salvatore della cultura occidentale. Che nel cinquecento avanti Cristo consisteva già in questo: considerarsi radicalmente superiori agli stranieri, tenere democraticamente gli schiavi lontano dall’acropoli e mandare i cittadini a morire in battaglie sanguinose e inutili.
(Sulle Termopili c’è un bel libro a fumetti, scritto dal più geniale e fascistoide fumettista americano: Frank Miller).
Le battaglie famose sono sempre quelle che finiscono male, ci avete fatto caso? Di solito le Termopili vengono citate dai leader politici che s’imbarcano in imprese disastrose. Per esempio:
Ma lo rifaresti? Bertinotti risponde citando la poesia di Costantino Kavafkis “in onore di coloro che hanno difeso le loro Termopili ben sapendo che i Medi sarebbero comunque passati”. «Se non avessimo fatto il referendum avremmo lasciato libero il campo al rullo compressore di Berlusconi e non si sarebbero accesi i riflettori sull’invisibilità del lavoro dipendente...».
Invece, grazie all’eroica figuraccia del referendum, il rullo compressore di Berlusconi è passato sopra lavoratori e sindacato, e i riflettori sul lavoro dipendente si sono spenti subito. Che dire: Bertinotti è ancora vivo e orgoglioso, pronto a imbarcarci in una nuova gloriosa battaglia.
Almeno Leonida alle Termopili ci lasciò le penne, e la smise, una buona volta, di mandare allo sbaraglio la sua gente.
Basic Culture Simulator 1.9
Mai più nozioni superflue!
Proust, Marcel
Gay della prima metà del Novecento. Viveva in una stanza foderata di sughero per attutire i rumori. Grandissimo scrittore, mica come certi blog prolissi ed egocentrici.
Intingendo un giorno un pasticcino nel the, Proust trova l’ispirazione per scrivere un’autobiografia in otto volumi, dopodiché muore.
Preferiva le canzonette alla musica classica, come chiunque, ma aveva la faccia tosta di dirlo, per cui quando in società tutti parlano di Brahms e a voi scappa un commento sugli Strokes, potete sempre difendervi tirando fuori Marcel Proust. Forse è per questo che è lo scrittore più amato dai deejay di un certo spessore.
Musil, Robert
Scrittore austriaco della prima metà del Novecento. Nel primo libro parla delle sue esperienze gay in un collegio. In seguito decide di scrivere un colossale romanzo sulla decadenza dell’Impero Asburgico, ma arrivato a metà (più o meno a pagina mille, cioè) si blocca. Nel frattempo (nel 1919) l’Impero Asburgico crolla davvero, di colpo, lasciando esterrefatti centinaia di scrittori che contavano di sfornare romanzi sulla decadenza asburgica ancora per qualche secolo.
Anche Musil si fa prendere dallo sconforto, pubblica i suoi articoli come “scritti postumi di un autore in vita”, è tentato di archiviare il poderoso romanzo, ma i suoi lettori non lo lasciano in pace: si sono sciroppati un migliaio di pagine intense e hanno il diritto di sapere come va a finire. Musil cincischia, tenta la carta del morboso inventandosi una sorella gemella del protagonista, ma anche dopo l’incesto il romanzo non vuole saperne di finire. Almeno credo, perché a pagina duemila mi sono fermato pure io.
In realtà ho tirato fuori Musil soltanto perché non riesco a dimenticarmi la sua definizione di snobismo, letta su un’antologia della quinta liceo che non riesco più a trovare: lo snobismo consiste nell’infilare in una lista di pittori famosi il nome di un pittore sconosciuto ai più. (Funziona benissimo anche con gli scrittori e coi cantanti).
Mi è venuta in mente qualche giorno fa, leggendo il canone occidentale di Scarpa: Catullo, Agostino, Montaigne, Proust, Céline, Henry Miller, Anais Nin, Paul Léautaud… mi chiedevo, per l’appunto: ma chi diavolo è Paul Léautaud? Beh, ecco qui. Bastava un link…
E per oggi con la letteratura abbiamo finito. Che ne dite di un po’ di Storia?
Termopili, Battaglia delle
Strage greca del quinto secolo avanti Cristo: per rallentare le armate persiane, trecento spartani guidati da Leonida (più altri 700 tespiesi di cui nessuno parla mai) si fecero massacrare eroicamente. Se avessero lasciato passare i persiani, probabilmente il re Serse si sarebbe fatto un giro, avrebbe sottomesso formalmente una ventina di villaggi costieri e se ne sarebbe tornato soddisfatto dall’altra parte del mondo.
Invece, mandando al macello sé e mille compagni, Leonida (luogotenente di uno stato fascista basato sulla schiavitù e sulla segregazione razziale) ha ottenuto l’indubbio onore di figurare in tutti i libri di scuola della quarta ginnasio come il salvatore della cultura occidentale. Che nel cinquecento avanti Cristo consisteva già in questo: considerarsi radicalmente superiori agli stranieri, tenere democraticamente gli schiavi lontano dall’acropoli e mandare i cittadini a morire in battaglie sanguinose e inutili.
(Sulle Termopili c’è un bel libro a fumetti, scritto dal più geniale e fascistoide fumettista americano: Frank Miller).
Le battaglie famose sono sempre quelle che finiscono male, ci avete fatto caso? Di solito le Termopili vengono citate dai leader politici che s’imbarcano in imprese disastrose. Per esempio:
Ma lo rifaresti? Bertinotti risponde citando la poesia di Costantino Kavafkis “in onore di coloro che hanno difeso le loro Termopili ben sapendo che i Medi sarebbero comunque passati”. «Se non avessimo fatto il referendum avremmo lasciato libero il campo al rullo compressore di Berlusconi e non si sarebbero accesi i riflettori sull’invisibilità del lavoro dipendente...».
Invece, grazie all’eroica figuraccia del referendum, il rullo compressore di Berlusconi è passato sopra lavoratori e sindacato, e i riflettori sul lavoro dipendente si sono spenti subito. Che dire: Bertinotti è ancora vivo e orgoglioso, pronto a imbarcarci in una nuova gloriosa battaglia.
Almeno Leonida alle Termopili ci lasciò le penne, e la smise, una buona volta, di mandare allo sbaraglio la sua gente.
Comments (5)