La mia amica Boa
04-08-2011, 01:07le 21 notti, raccontiPermalinkPer un bel po’ di tempo l’ho persa di vista – è in Zelanda per la muta, mi dicevano. E io a pensare che ci sono dei bei tipi giù in Zelanda, dei ragazzoni tosti, fanno tutti sport, hanno maglioni a collo alto e un erre moscia molto intellettuale. Ne prendi uno e come minimo nel tempo libero restaura le pellicole di Eizensozski, t’immagini? “Quelle del peviodo in bianco e nevo, che pev me sono le uniche che vavvebbe la pena vivedeve… e domani pvendo il lavgo col mio tve albevi, pevché non vieni?” Insomma appena cominciavo a immaginarmela, la mia Boa in Zelanda, mi veniva subito in mente che era meglio non pensarci. E passa un mese, passa una stagione, poi l’altra sera invito a cena il mio amico Prisco, e lui: “Senti, perché non chiami anche Boa, che è appena tornata, ed è ancora un po’ stranita?”
“Boa?” trangugio io, indifferente. “Perché, dov’era stata?”
“Ma vuoi scherzare? In Zelanda per la muta, c’è rimasta sei mesi… Ed è tutta scombussolata, ti dico, ha bisogno di vedere della gente, allora la chiami?”
“Maaa, non so, non è che siamo così in confidenza… però guarda, se la vuoi invitare tu…”
Così io passo tutta la domenica a riassettare la casa, scegliere i dischi e sistemare i soprammobili perché stasera vengono qui a cena i miei amici Prisco e Michele, e la mia amica Boa.
È gente che fuma parecchio. Mi affaccio al pianerottolo e li sento ansimare su per le scale (io sto al settimo piano, niente ascensore). Quando finalmente arrivano, mio dio! È uno stecco la mia amica Boa, uno stuzzicadenti! Sta in piedi per miracolo, anzi, perché Prisco le sorregge le spalle. È chiaro che non mangia da mesi. Così alla fine, non era proprio quel paradiso in terra la Zelanda.
“Ciao Boa! Quanto tempo! Come stai?”
“Bene, e tu?”
“Si tira avanti”.
Ma sì, e anche i tipi locali, gran fustacchioni, ma a vederli da vicino niente sostanza. Gente introversa probabilmente, cinque giorni sui libri e poi a sballarsi nel week-end, classici eiaculatori precoci. Per non parlare della cucina.
“Allora io non sapevo a che ora arrivavate, così ho aspettato a fare il sugo. Pensavo di fare una cosa con tagliatelle pancetta affumicata e un goccio di vino, vi va?”
“Fai fai”.
Apro il frigo e nell’involto della pancetta scopro due dita di muffa bianca e verde.
“Vuoi che ti aiutiamo?”
“Noo, faccio da solo”
Con un coltello tiro via le muffa. È gente che fuma parecchio, in fin dei conti gli puoi mettere davanti qualsiasi merda. Non sentono i sapori.
La cena è un successone, benché Boa non tocchi quasi il cibo. I ragazzi vanno matti per il mio sugo e non chiedono di meglio di spartirsi il suo piatto. (Prisco in particolare è un vero ingordo).
“E allora Boa”, azzardo, “dopo la muta, come ci si sente?”
“Mah”, fa lei, “normale, non fosse per tutta la gente che ti fa questa stessa domanda”.
Ecco, ho fatto un bel passo falso. Ma va bene, niente paura. Reagire prontamente. “Che ne direste di un caffè?”
Prisco ne vuole, Michele ringrazia e saluta perché deve svegliarsi presto, Boa domanda: “Posso buttarmi sul divano?”
“Certo, fa' come fossi a casa tua”.
Mi fa impazzire, la mia amica Boa.
Ritirata strategica in cucina. Ora bisogna fare molta attenzione, una altro errore sarebbe fatale. Analizziamo la situazione. Le forze in campo. Michele se n’è andato: ci siamo io, Boa e Prisco. Bisogna fare conversazione (purché lui non accenda la tv…)
E bisogna far entrare Boa nella conversazione. Sennò con quell’idiota di Prisco si finisce per parlare dei risultati delle partite. Purché non accenda per vedere i gol! Lei si addormenta ed è finita.
La caffettiera comincia a sibilare.
‘E allora’, le domanderò ‘questa famosa Zelanda?’ Per carità! Anche questo certamente glielo chiedono tutti. E nessun riferimento alla muta, al suo colore diverso e al fatto che non mangia mai, sarà ipersensibile a queste cose, dovevo pensarci prima.
La caffettiera gorgheggia. Pensa a un argomento. Un buon argomento. Un argomento intrigante. Cos’hai nella testa?
Niente, maledizione.
Cosa vuol dire niente, cerca meglio...
I maschi.
I maschi zelandesi?
E se le chiedessi semplicemente: ‘e allora, c’erano dei bei maschi laggiù?’ Ma perché no? Questo, forse, non glielo ha ancora chiesto nessuno.
Ma sì, tanto vale rischiare.
La caffettiera tossisce e sputazza. Tiro fuori tre tazzine e il vassoio buono. Mentre procedo verso il soggiorno, mi accorgo che Prisco ha spento la luce. Balugina nel corridoio la luce verdognola della tv.
“Tu non lo prendi il caffè, Boa?”
“No, meglio di no”.
E poi non mi piace proprio come Prisco ci si è steso accanto sul divano, il braccio dietro la schiena, cos’è tutta questa confidenza?
“Ma dico, l’hai visto il rigore che hanno dato a quei bastardi? Non hanno neanche più il senso del pudore”.
Si è preso il mezzo del divano e ha stretto Boa contro il bracciale. E ora io che faccio? Se mi metto sull'altro lato non riesco neanche più a vederla in faccia, altro che conversazione. E perciò resto impalato tra il video verde e il divano. Non va. Così non va assolutamente. Devo muovermi in un qualche modo.
“Ma cosa fai”, dice Prisco, “ti metti a sparecchiare a quest’ora?”
“Sì, domani ho la sveglia presto”.
Che manovra geniale. Lasciamo pure Prisco bollire nel suo brodo, con i suoi stupidi rigori da contestare. Se non s’addormenta in due minuti, Boa si sarà fatta comunque un’idea di quanto è noioso il mio amico, peggio di un birroso zelandese. E nel frattempo, io… ci faccio la figura del single responsabile e organizzato, mica perdo tempo con le partite, io, sparecchio subito e se mi gira lavo pure i piatti. Questo sì che è un buon messaggio.
Arriva una vocina soave dal soggiorno: “Vuoi una mano?”.
“Grazie, non c’è bisogno, faccio io”. Gli ospiti sono sacri.
Sennonché, ci dev’essere qualche cosa che in partenza non avevo calcolato, perché man mano che torno nella stanza verde a ritirare i piatti, i bicchieri, le bottiglie, l’olio, i tovaglioli, la tovaglia… ogni volta che passo le ombre dei miei due amici sul divano sono sempre più vicine, sempre più compatte, ormai si riesce a distinguere un’ombra sola, sempre più piccola. Il calcio in televisione è finito, ora c’è un corso universitario di zootecnia. Prisco non ha mai manifestato nessun interesse per la zootecnia, però non cambia canale. Io non ho voglia di cercare il telecomando nell’oscurità, non ho voglia di accendere la luce, non ho voglia di dare un’occhiata più attenta a quello che succede sul mio divano. L’unica cosa che mi viene in mente di fare è ritirarmi a lavare i piatti. Alla fine, domani devo veramente svegliarmi presto. La vita è dura per tutti.
Lavo piatti e bicchieri, strofino con attenzione forchette e coltelli (mi taglio anche un polpastrello, non è niente). Lavo e risciacquo, non ho mai risciacquato così tanto in vita mia. Si alzeranno prima o poi da quel divano, penso. Verranno a darmi la buona notte.
Asciugo le posate una ad una, asciugo anche i bicchieri, in un bicchiere c’è un alone e allora rilavo il bicchiere, anzi tutti i bicchieri, poi li risciacquo e li asciugo. Ma che ora è ormai. Si sono addormentati? E chissà in che posizione. Ma si sveglieranno bene prima o poi.
Sistemo ogni cosa al suo posto. Nel mio cassetto delle posate c’è una vaschetta per i coltelli, una per le forchette, una per i cucchiai, una (più piccola) per i cucchiaini. Una distinzione pratica che non ho mai voluto rispettare. Stanotte sì. Stanotte metterò tutto a posto. Per dimostrare a me stesso che sono un single organizzato e responsabile.
Organizzato.
Responsabile.
Single.
Non ne posso più. È casa mia, dopotutto. Mi lancio nel soggiorno.
Laggiù c’è un gran silenzio, un film muto alla tv, proietta ombre in bianco e nero. Il divano è immobile.
“Prisco”, bisbiglio, “ci sei?”
Una voce dolce, solo appena un poco rauca. “Ci sono solo io. Prisco è andato”.
“Sì? Ma quando?”
Un gran sospiro. “È sceso, è sceso anche lui”.
“Senza nemmeno salutarmi!”
Un altro gran sospiro. Cerco il suo viso nella penombra, lo trovo ancora più pallido del solito, e imperlato di sudore.
“Boa, ma stai bene?”
Un terzo sospiro e poi, come un miracolo: una lacrima. Una lacrima densa, sospesa al bordo del ciglio, incerta se buttarsi giù: finché non è talmente grossa da tracimare, correndo rapida per la guancia come un prigioniero in fuga.
“C’è qualcosa che non va?”.
“Sto bene, sto bene, è solo un po' dura da mandar giù”.
Stringo le spalle. “È un tipo fatto così”.
Tira su il naso. “Sono tutti uguali alla fine”.
Faccio segno col capo come per dire no, non siamo tutti uguali. Poi mi rendo conto di un particolare. Cioè, del fondamentale.
“Ma tu eri in macchina con lui, no?”
Per la prima volta della serata, mi fissa negli occhi. Ha iridi verdi che io vedo anche nel buio. “Davide”, mi dice. “Io sono davvero molto stanca…”
“Puoi restare qui se vuoi. Prendi il mio letto e io starò sul divano”.
“N-no, no. Resto qui se non ti dispiace”.
La mia amica Boa mi fa impazzire.
Tre giorni dopo viene a suonarmi Michele. “Senti, hai mica visto in giro Prisco? A casa sua non c’è nessuno”.
“No, non lo vedo da domenica sera. Vieni dentro, su”.
“Guarda, grazie, ma vado di fretta”.
“Ti faccio un caffè, dai. E poi ti mostro una cosa”. Ho una gran voglia di mostrargliela, in effetti.
“Che strano però. Venerdì dovevamo andare su in montagna, e lui scompare. Ho chiamato in casa e ho chiamato nel suo ufficio: niente…Toh, ma non mi hai detto che c’era Boa! Ciao, Boa!”
“Sssst! Non vedi che dorme?”
“Ha proprio fatto il nido a casa tua, eh? Sembra quasi che non si sia spostata un centimetro dall’altra sera”.
“Senti, tu sai se c’era qualcosa di tenero tra lei e Prisco, negli ultimi tempi?”
“Uscivano assieme, ma niente di importante. In effetti…”
“In effetti?”
“La prima cosa che ho pensato, è stata: vuoi vedere che non ci sia andato con lei, in montagna, senza dirmi niente. Ma anche a casa di Boa non rispondeva nessuno”.
“Infatti lei è qui da domenica”.
Michele non può reprimere una smorfia incredula – con una sfumatura di invidia che è così dolce da assaporare (io poi la pregustavo da giorni).
“Il caffè è pronto. Se invece vuoi restare a cena, stasera ci sono gnocchi alla parmigiana”.
“Aspetta un attimo. Lei è qui dall'altra sera?”
“A quanto pare. Domenica abbiamo tirato tardi, e credo che lei e Prisco abbiano litigato, non so, io ero in cucina. Quando sono tornato, Prisco era già partito, e lei non sapeva come tornare a casa. Così io le ho detto: puoi restare. Le ho offerto anche il mio letto, ma lei ha insistito per restare lì, e si è addormentata di schianto… e da allora si deve ancora svegliare”.
“Ah, allora sta dormendo da tre giorni”. Michele sembra quasi rassicurato, benché questo sia il particolare più curioso di tutta la faccenda. “Certo che è strano…”, ammette.
“Beh, sai, alla sua età… è appena tornata dalla muta, è ancora scombussolata, è quasi normale”.
“Ma potrebbe essere in coma, o qualcosa di simile… forse dovresti chiamare qualcuno…”
“Non è in coma, ha un respiro regolare. Non ha niente, solo molto sonno. Ha litigato con Prisco, deve ancora superare la muta, ed è debolissima: cose che capitano. Credo che un buon piatto di gnocchi la rimetterà in sesto. È così patita”.
“Per la verità, non mi è mai sembrata così in carne”.
“Ma cosa dici? Non mangia mai niente, guardale il viso: pelle e ossa”. Le passo una mano leggera sulla fronte, imperlata di sudore. La mia Boa.
“Sì, ma guarda un po’ più giù”.
“Cosa c’è più giù?”
“Guardale i fianchi, la pancia… a me sembra quasi gonfia”.
In quel preciso momento mi viene in mente che Michele non ha mai voluto bene a Boa. E anzi, sin da bambini, quando eravamo tutti piccoli mostri, chi con gli occhiali spessi come fondi di bottiglia, chi con un apparecchio dentale a museruola, Michele era quello che si prendeva gioco delle debolezze di tutti. Certo, prima della muta, molto prima, Boa era stata una tipa cicciottella, così come io e lui eravamo stati dei ceffi brufolosi. E allora? L’infanzia è un incubo, ma poi ci si sveglia. Perché mettersi a rivangare queste orribili storie, ora? La verità è che Michele non sa crescere. Non si rassegna al fatto che siamo tutti diversi, che siamo adulti. Continua a vedere in noi i bambini di un tempo.
“Sai una cosa, Michele? Anche tu sei sempre quel ragazzino brufoloso”.
“Cosa?”
“Mi hai capito benissimo”.
Michele finge di non capire, ma gli trema la voce. Asciugandosi, i brufoli gli hanno lasciato due rughe grigie sulle guance, due parentesi per ogni suo sorriso. Lui fa finta di niente, tutti facciamo finta di niente, ma sappiamo che ogni sorriso di Michele va inteso tra quelle due parentesi.
“Ti dico che sei lo stesso ragazzino brufoloso, che non cresce mai. Vieni da me a piagnucolare perché il tuo amichetto del cuore ti ha dato un bidone, doveva venire con te in montagna, e a me cosa mi frega? Prisco è un adulto, ha le sue esigenze, non può mica starti appresso come a un poppante…”
“Ma Davide, cosa stai dicendo…” Finge di non capire, ma intanto ha portato le mani al volto, a toccarsi le cicatrici, come quando da ragazzino si torturava allo specchio.
“E anche Boa, non l’hai mai potuta sopportare, l’hai sempre presa in giro, non capisci che è un momento molto difficile per lei?”
“Ma io…”
“Tu non sai osservare le persone, tu non ti accorgi che le persone cambiano ogni giorno, che Prisco cambia, che Boa cambia, e anch’io cambio, e tu ti ostini a trattarci come bambini, quando il vero bambino sei tu. Il solito bambino brufoloso. E adesso puoi anche andartene, non avevi fretta? Io sono occupato, devo fare da mangiare per Boa”.
Michele scappa via, la faccia nelle mani.
È passato un altro paio di giorni, ma credo che non ci sia nulla di cui preoccuparsi. Un buon sonno non può che farle bene – chi lo sa? Forse erano mesi che non dormiva. Con quel cazzo di vita notturna che si fanno in Zelanda, feste tutte le sere, e dio solo sa cosa bevono, cosa si fumano... certo se trovassi il modo di farle mangiare qualcosa, sarei più tranquillo. Ho sempre la speranza che da un momento all’altro si svegli affamata, davanti a un piatto fumante di trenette al pesto, o di lasagne verdi, preparato da me.
“Boa…”
“Mmmmm?”
“Boa, è venerdì, cosa ne dici di tirarti su? Ti ho preparato il risotto allo zafferano…”
“Mmmmmm”.
“Te lo tengo in caldo, vuoi?”
I suoi genitori? Se fossero in pensiero chiamerebbero; ma quelli sono sempre via… In fondo non c’è da stupirsi che Boa sola in casa faccia la fame. Nessuno cucina mai niente per lei. Ma qui da me può riposarsi. Io intanto le preparo il pasticcio di maccheroni al forno (coi funghi). O la polenta coi ciccioli; perché no? Quando si sveglierà avrà abbastanza fame da mangiarsi un bue.
“Boa, è sabato”.
“Mmmmsì?”
“È sabato sera, magari è ora di alzarsi…”
“Mmmmno…”
“Ti piacciono le scaloppine di vitello? Con sopra una fettina di prosciutto e il formaggio? Io le rosolo con un cucchiaino di Marsala…”
Mi fa impazzire, la mia amica Boa.
Domenica, che è festa, mi sveglio presto e stendo la sfoglia. Ho pensato che non saprà resistere a un piatto di ravioli alle erbe. Col sugo di funghi. O tortelloni di zucca? Potrei fare gli uni e gli altri.
A mezzogiorno, mentre sorveglio le tre pentole (mi sono alla fine deciso per un tris di minestre), sento un sibilo dal salotto, e un soprassalto.
“Boa!”
“Ciao Davide”
Come avevo fatto a dimenticare quegli occhi verdi, sottili, quasi due fessure sospese su un mare interiore?
“Ho dormito”.
“Sì”.
Si stiracchia, languida, e mi mostra che è bellissima. Ma come ha fatto Michele a vederla gonfia, è liscia e sottile da far paura… potrei cingerle i fianchi con una mano sola.
“Avrai fame, immagino”.
“Mmmmm”.
“Ti sto preparato un po’ di cose: tortellini alla panna, ravioli e lasagne al ragù. Sai, oggi è festa ”.
Scuote il capo. “Vieni qui”, dice, indicando il posto sul divano accanto a sé.
“Sono sul fuoco in questo momento, ancora qualche minuto…”
“Vieni qui”.
Qui c’è una cosa da dire. Se sono imbarazzato, è anche perché ultimamente ho messo su un po’ di pancia. Specie nell’ultima settimana, con tutto quello che mangiavo – perché alla fine mangiavo anche la sua parte, non lasciavo lì nulla. E poi ero sempre in casa, uscivo solo per fare la spesa giù all’angolo… insomma, mi sento addosso qualche chilo di troppo. E ora lei mi osserva, alla luce del giorno, e ammicca con quell’occhio, sembra quasi che le piaccia più così.
“Dai, vieni. Siediti”.
Mi siedo.
“Tra qualche minuto c’è poi da scolare, eh!”
“Non preoccuparti”.
Si allunga contro di me, accanto a me, si avvolge a me, si lascia stringere, mi stringe. Allora è vero. Quante volte ho sognato che si svegliasse innamorata di me. Ed è successo. È sveglia ora. E mi vuole. Non ci pensa più agli Zelandesi, quei burini. Non pensa più a Prisco. Pensa a me. Mi stringe sempre più forte. Sempre più forte. L’ho salvata. Ora ha bisogno di me. Ha voglia di me. Apre la bocca.
“Boa, lo sai da quanto tempo io…”
Mi mette a tacere con un lunghissimo bacio. Mi stringe sempre più forte, e mi bacia in eterno. La mia amica Boa. Mi fa morire.
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"Non sono sicura d'aver capito il senso", disse la schietta Verola quando, dopo alcuni minuti di silenzio, fu chiaro a tutti che il racconto terminava lì. "Comunque chiedevo morte e un po' di morte Mària ce ne ha messa, quindi brava. O bravo? Boh. Ma spero che Taddei sappia fare di meglio domani sera".
"Perché proprio io?" chiese quest'ultimo.
"Così impari ad addormentarti a metà della storia, bamboccione", rispose la franca Verola: e dopo qualche formula di circostanza congedò l'assonnata comitiva, ricordando che la sveglia era alle 6.30, la cucina restava aperta per la colazione fino alle 7, e alle 7.15 erano tutti attesi in palestra per il training intensivo.
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Storia di Verola e dei suoi sei spasimanti
02-08-2011, 15:54le 21 nottiPermalinkCarola dormì saporitamente per tutto il giorno e la notte seguente, la prima vera notte di sonno da quando si era messa in viaggio, per essere svegliata il mattino successivo dalla sorella di ritorno dal suo viaggio di lavoro. Grande fu la meraviglia di quest'ultima, che durante la sua assenza non aveva smesso di pensare con ansia alla sorella e ai di lei struggimenti, quando si rese conto che l'umore di Carola era mutato radicalmente, da insofferente e malinconico ad allegro, garrulo addirittura. Eppure, quando chiese alla sorella il motivo di un tanto singolare sbalzo di umore, non ricevette in risposta che le solite chiacchiere sull'intollerabile tendenza femminile al melodramma, etcetcetc. “E poi non vuoi realmente saperlo, sorella: ti basti sapere che ho capito di non essere la più insultata delle donne; e che con ogni probabilità non lo sono mai stata”.
Questa frase, che nell'intenzione di Carola doveva troncare la discussione, ebbe come spesso avviene l'effetto opposto, accendendo vieppiù la curiosità di Verola, la quale promise che non avrebbe più cessato di tormentare la sorella finché non le avesse spiegato compiutamente chi fosse quindi da ritenersi la più insultata delle donne, e per quale motivo; al che Carola, che in cuor suo non aveva mai realmente voluto nascondere alla diletta sorella i dettagli del di lei disonore, rispose: “Non intendo dilungarmi, diletta sorella, descrivendoti con dovizia di particolari episodi ai quali comunque non crederesti, e costringendoti a dubitare o di me o del tuo caro marito: ma se proprio vuoi sapere cosa escogita tra le mura del vostro palazzo mentre tu non ci sei, fatti invitare alla premiazione di questo o quel premio letterario, e dopo aver informato il tuo sposo che passerai fuori la nottata, declina l'invito all'ultimo momento e vatti a nascondere nel giardino, più precisamente dietro il cespuglio di alloro che ritrae Dafne molestata da Apollo. Ciò che scoprirai, te lo annunzio fin d'ora, ti getterà in uno stato di angoscia e prostrazione; e poiché conosco la tua indole passiva e aggressiva, so che non ne uscirai se non commettendo qualche atto odioso e irreparabile, di cui, ti prevengo, non mi considero in alcun modo responsabile: infatti è solo per la tua insistenza che mi risolvo ad accusare tuo marito di azioni che vanno contro il buon nome tuo, suo e del vostro reame”. Terminato che ebbe questo discorso, salì a fare i bagagli, perché le scenate non le piacevano e non intendeva certo assistere di persona allo smascheramento dell'anziano satiro: inoltre, ogni ora che passava le pesava un poco di più la lontananza dal marito, quell'amabile furfante.
Per farla breve, Verola non attese nemmeno tre giorni per realizzare il piano suggeritole dalla amata sorella: e constatato rapidamente l'impegno e l'ardore col quale il marito si prodigava a fare strame delle sue promesse coniugali, non attese un'ulteriore settimana per assoldare i legulei più esosi e chiedere un divorzio che la controparte accettò senza grosse difficoltà, ottenendo un'indennità che rese colei che fino a qualche anno prima era la fanciulla più piacente del reame, la più ricca signora del medesimo. E tuttavia, come aveva ben previsto la sorella, nemmeno i principeschi alimenti riuscirono in qualche modo a placare la sua rabbia e l'odio divorante che non nutriva più per il solo marito, ma per gli uomini in generale e forse per l'intera specie umana. Questo cieco furore era reso ancora più acerbo dalla consapevolezza che degli uomini, malgrado tutto, Verola continuava ad avere necessità: come riconosceva chiacchierandone al desco con le amiche più care, non avrebbe potuto realmente vivere senza. “Come del resto non saprei vivere senza un rotolo di quella carta per mezzo della quale, con licenza vostra, ci si netta il culo: e tuttavia, proseguendo nella metafora, non per questo ritengo necessario sposare uno di siffatti rotoli, anzi, non mi trattengo mai con essi più dello stretto necessario: e allo stesso modo ritengo giusto e igienico fare con gli uomini d'ora in poi. Perciò, care amiche e confidenti, ho risolto di coricarmi ogni notte con uno diverso, a cui farò tagliare la testa il mattino dopo”. E quando le amiche le fecero presente che un simile progetto, in linea teorica non privo di interesse, una volta messo in pratica avrebbe avuto fin troppo ovvie ricadute penali, e che forse le gocce che le aveva consigliato il dottore andavano prese con regolarità e con più attenzione ai dosaggi, rispose ringraziandole per il loro gentile interessamento, e farfugliando qualche altra fantasia criminale. Indi se ne tornò alla sua residenza privata, e dopo alcuni giorni di attenta riflessione – l'estate afosa era al suo apice – si decise a sfogliare, per la prima volta, l'enorme archivio delle lettere che i suoi ammiratori continuavano a inviarle.
Era Verola nella lettura, come del resto in ogni sua passione, sbrigativa e spietata: così le bastavano pochi istanti per fare giustizia di mille e più confidenze leziose e lacrimevoli, consegnandole senza scrupoli al cestino che riteneva meritassero. E tuttavia le poteva capitare, dopo cento pagine, di soffermarsi su un dettaglio, su un episodio vissuto o immaginato, purché avesse un inizio, uno svolgimento, e un finale, non necessariamente lieto: purché si trattasse di una storia, insomma. Quest'osservazione la turbò, come accade alle scoperte che facciamo su noi stessi quando non siamo più giovani, e lo stupore per l'aver scoperto qualcosa di nuovo su di noi si mescola subito con la vergogna di non averlo capito un po' prima. “In somma è questo che io cerco: non l'uomo potente, Dio me ne scampi! Né il maschio aitante, né quello divertente: voglio un uomo che sappia raccontarmi delle storie. Ebbene, stanti così le cose, non mi mancano certo i mezzi né il discernimento necessari per trovare un partner all'altezza delle mie esigenze”.
Presa che ebbe questa risoluzione, si dedicò col furore consueto alla scrematura dei suoi corrispondenti: nel giro di poche ore li ebbe ridotti al numero di sei, gli unici che le apparissero dotati di qualche inclinazione alla narrativa. Quella notte stessa, gli stessi sei ricevettero per via elettronica un messaggio che li convocava per l'indomani alla residenza estiva dell'ex moglie del Presidente, per una breve vacanza in tutta intimità. Giunti che furono quivi, ognuno credendo in cuor suo di esser l'unico invitato, essi si resero conto soltanto dopo aver consegnato i propri bagagli a un personale di servizio di non avere più alcuna possibilità di collegarsi col resto del mondo: la residenza, infatti, benché amenissima e dotata di ogni delizia e comfort, si ergeva su una rocca remota, appollaiata su uno strapiombo affacciato su un lago sconosciuto ai più, ignorato da ogni antenna o parabola; né i servitori, armati di tutto punto, sembravano inclini a lasciare più uscire alcuno dei sei: fatto, questo, che confermò in ciascuno di loro il sospetto di essere, più che destinatario di un invito galante, vittima di un clamoroso sequestro di persona.
Si era radunata così, nella rocca di Verola, la più eterogenea delle comitive. Ne faceva parte don Tinto, un panciuto parroco di mezza età che, nonostante fosse stato recentemente sospeso a divinis per cause non meglio chiarite, non per questo aveva dismesso il clergyman nero. Di un medesimo colore, ma di foggia quanto mai diversa erano gli indumenti del compagno Aureliano, anarcosindacalista del comparto cognitivo già attenzionato presso alcune questure; vi era poi il professor Esso, il quale malgrado il titolo insigne non era che un grigio insegnante di scuola secondaria inferiore, mentre il muscoloso quarantenne in tuta da ginnastica blu altri non era che Bartolomeo Taddei, già blogger di una qualche fama nei ruggenti anni del neoconservativismo, di cui del resto non parlava più volentieri. Lo accompagnava il misterioso Arci, col quale aveva condiviso anni prima avventure complesse e sostanzialmente incomprensibili. A completare il quadretto, avvolta da un sobrio tailleur la giunonica sagoma di Mària, transessuale di chiara fama, di cui non vi è certo bisogno di ricordare al lettore i prestigiosi riconoscimenti professionali, né l'indirizzo, né tanto meno il numero di telefono.
Fu proprio mentre i sei ammiratori discutevano concitatamente sul da farsi, davanti a un meraviglioso buffet che ne aveva rinfrancate le forze senza lenirne le angosce, che Verola apparve a loro, offrendo a dodici occhi sbigottiti e ansiosi l'immagine di una bellezza appena scalfita dal Tempo, e ravvivata in compenso dalla furia dei recenti rancori. “Cari i miei spasimanti”, disse, “perché questo voi siete, inutile girarci attorno: se vi ho convocati in questo luogo è perché ho deciso di concedermi a uno di voi... anche se io stessa ignoro ancora di chi si tratti. Ma di questo non mi cruccio troppo: all'eletto intendo arrivare per esclusione, dopo avere eliminato uno alla volta tutti i rivali inadeguati. Volete dunque sapere quali prove dovrete affrontare? Non sono certo troppo gravose. Si tratta di inventare una storia, una diversa ogni notte su un argomento scelto da me, così che in capo a sei giorni avrò ascoltato un racconto dalla bocca di ciascuno di voi: a questo punto eliminerò il narratore più scadente, cacciandolo dalla mia residenza, e proponendo ai cinque superstiti un nuovo argomento sul quale imbastire nuovi racconti, e così via. La competizione, se così vogliamo chiamarla, proseguirà dunque per 6+5+4+3+2+1=21 notti; ai termini delle quali dovrei aver trovato fra voi il mio compagno ideale, o se non altro il meno peggio. Ora che vi è palese il motivo per cui vi ho riunito, e il cimento che vi viene proposto, è tempo che chi tra voi non si ritiene all'altezza dell'impresa lo manifesti, di modo che i miei servitori possano scortarlo all'esterno dei miei possedimenti, dove avrà il resto della vita per piangere l'occasione mancata. Ma siccome nessuno di voi poveretti mi pare così impudente o folle da oppormi un simile rifiuto, non mi resta che guidarvi nel giardino di ponente, dove i domestici stanno già portando il caffè in sei tazzine di finissima porcellana di Hong Kong, una sola delle quali ha l'occhiello del manico sbeccato: ovviamente a colui al quale capiterà in sorte la tazza fallata toccherà per primo di cimentarsi con la non facile arte del racconto”.
A quelle parole gli astanti, sbigottiti, non seppero reagire se non farfugliando qualche espressione di genuino sconcerto. Soltanto Arci ebbe la prontezza di spirito di replicare: “Gentile Signora, come vede nessuno di noi, malgrado in cuor suo non osi ritenersi degno di comparire davanti a un giudice tanto esigente, è abbastanza coraggioso da ammetterlo e levarsi di torno. Per cui siamo tutti in ballo, e balleremo. Ma lei deve ancora dirci quale sarà il primo argomento intorno al quale dovremo imbastire i nostri improvvisati canovacci”.
“Ah già”, replicò Verola, “dimenticavo. Vorrei dunque che per risollevare il mio incanaglito umore ciascuno di voi inventasse o ripescasse dalla sua memoria per me una storia di malattia, sofferenza e morte, individuale o perché no, collettiva: battaglie, guerre ed epidemie saranno parimenti bene accette”. “Ah ok”, risposero i sei, tirando fiato, giacché avevano temuto argomenti assai meno abbordabili. E la seguirono senza altri indugi nel giardino occidentale, dove la tazza dal manico sbeccato toccò in sorte a Mària, la quale, dopo una brevissima riflessione iniziò con voce tonante il suo racconto:
Questa frase, che nell'intenzione di Carola doveva troncare la discussione, ebbe come spesso avviene l'effetto opposto, accendendo vieppiù la curiosità di Verola, la quale promise che non avrebbe più cessato di tormentare la sorella finché non le avesse spiegato compiutamente chi fosse quindi da ritenersi la più insultata delle donne, e per quale motivo; al che Carola, che in cuor suo non aveva mai realmente voluto nascondere alla diletta sorella i dettagli del di lei disonore, rispose: “Non intendo dilungarmi, diletta sorella, descrivendoti con dovizia di particolari episodi ai quali comunque non crederesti, e costringendoti a dubitare o di me o del tuo caro marito: ma se proprio vuoi sapere cosa escogita tra le mura del vostro palazzo mentre tu non ci sei, fatti invitare alla premiazione di questo o quel premio letterario, e dopo aver informato il tuo sposo che passerai fuori la nottata, declina l'invito all'ultimo momento e vatti a nascondere nel giardino, più precisamente dietro il cespuglio di alloro che ritrae Dafne molestata da Apollo. Ciò che scoprirai, te lo annunzio fin d'ora, ti getterà in uno stato di angoscia e prostrazione; e poiché conosco la tua indole passiva e aggressiva, so che non ne uscirai se non commettendo qualche atto odioso e irreparabile, di cui, ti prevengo, non mi considero in alcun modo responsabile: infatti è solo per la tua insistenza che mi risolvo ad accusare tuo marito di azioni che vanno contro il buon nome tuo, suo e del vostro reame”. Terminato che ebbe questo discorso, salì a fare i bagagli, perché le scenate non le piacevano e non intendeva certo assistere di persona allo smascheramento dell'anziano satiro: inoltre, ogni ora che passava le pesava un poco di più la lontananza dal marito, quell'amabile furfante.
Per farla breve, Verola non attese nemmeno tre giorni per realizzare il piano suggeritole dalla amata sorella: e constatato rapidamente l'impegno e l'ardore col quale il marito si prodigava a fare strame delle sue promesse coniugali, non attese un'ulteriore settimana per assoldare i legulei più esosi e chiedere un divorzio che la controparte accettò senza grosse difficoltà, ottenendo un'indennità che rese colei che fino a qualche anno prima era la fanciulla più piacente del reame, la più ricca signora del medesimo. E tuttavia, come aveva ben previsto la sorella, nemmeno i principeschi alimenti riuscirono in qualche modo a placare la sua rabbia e l'odio divorante che non nutriva più per il solo marito, ma per gli uomini in generale e forse per l'intera specie umana. Questo cieco furore era reso ancora più acerbo dalla consapevolezza che degli uomini, malgrado tutto, Verola continuava ad avere necessità: come riconosceva chiacchierandone al desco con le amiche più care, non avrebbe potuto realmente vivere senza. “Come del resto non saprei vivere senza un rotolo di quella carta per mezzo della quale, con licenza vostra, ci si netta il culo: e tuttavia, proseguendo nella metafora, non per questo ritengo necessario sposare uno di siffatti rotoli, anzi, non mi trattengo mai con essi più dello stretto necessario: e allo stesso modo ritengo giusto e igienico fare con gli uomini d'ora in poi. Perciò, care amiche e confidenti, ho risolto di coricarmi ogni notte con uno diverso, a cui farò tagliare la testa il mattino dopo”. E quando le amiche le fecero presente che un simile progetto, in linea teorica non privo di interesse, una volta messo in pratica avrebbe avuto fin troppo ovvie ricadute penali, e che forse le gocce che le aveva consigliato il dottore andavano prese con regolarità e con più attenzione ai dosaggi, rispose ringraziandole per il loro gentile interessamento, e farfugliando qualche altra fantasia criminale. Indi se ne tornò alla sua residenza privata, e dopo alcuni giorni di attenta riflessione – l'estate afosa era al suo apice – si decise a sfogliare, per la prima volta, l'enorme archivio delle lettere che i suoi ammiratori continuavano a inviarle.
Era Verola nella lettura, come del resto in ogni sua passione, sbrigativa e spietata: così le bastavano pochi istanti per fare giustizia di mille e più confidenze leziose e lacrimevoli, consegnandole senza scrupoli al cestino che riteneva meritassero. E tuttavia le poteva capitare, dopo cento pagine, di soffermarsi su un dettaglio, su un episodio vissuto o immaginato, purché avesse un inizio, uno svolgimento, e un finale, non necessariamente lieto: purché si trattasse di una storia, insomma. Quest'osservazione la turbò, come accade alle scoperte che facciamo su noi stessi quando non siamo più giovani, e lo stupore per l'aver scoperto qualcosa di nuovo su di noi si mescola subito con la vergogna di non averlo capito un po' prima. “In somma è questo che io cerco: non l'uomo potente, Dio me ne scampi! Né il maschio aitante, né quello divertente: voglio un uomo che sappia raccontarmi delle storie. Ebbene, stanti così le cose, non mi mancano certo i mezzi né il discernimento necessari per trovare un partner all'altezza delle mie esigenze”.
Presa che ebbe questa risoluzione, si dedicò col furore consueto alla scrematura dei suoi corrispondenti: nel giro di poche ore li ebbe ridotti al numero di sei, gli unici che le apparissero dotati di qualche inclinazione alla narrativa. Quella notte stessa, gli stessi sei ricevettero per via elettronica un messaggio che li convocava per l'indomani alla residenza estiva dell'ex moglie del Presidente, per una breve vacanza in tutta intimità. Giunti che furono quivi, ognuno credendo in cuor suo di esser l'unico invitato, essi si resero conto soltanto dopo aver consegnato i propri bagagli a un personale di servizio di non avere più alcuna possibilità di collegarsi col resto del mondo: la residenza, infatti, benché amenissima e dotata di ogni delizia e comfort, si ergeva su una rocca remota, appollaiata su uno strapiombo affacciato su un lago sconosciuto ai più, ignorato da ogni antenna o parabola; né i servitori, armati di tutto punto, sembravano inclini a lasciare più uscire alcuno dei sei: fatto, questo, che confermò in ciascuno di loro il sospetto di essere, più che destinatario di un invito galante, vittima di un clamoroso sequestro di persona.
Si era radunata così, nella rocca di Verola, la più eterogenea delle comitive. Ne faceva parte don Tinto, un panciuto parroco di mezza età che, nonostante fosse stato recentemente sospeso a divinis per cause non meglio chiarite, non per questo aveva dismesso il clergyman nero. Di un medesimo colore, ma di foggia quanto mai diversa erano gli indumenti del compagno Aureliano, anarcosindacalista del comparto cognitivo già attenzionato presso alcune questure; vi era poi il professor Esso, il quale malgrado il titolo insigne non era che un grigio insegnante di scuola secondaria inferiore, mentre il muscoloso quarantenne in tuta da ginnastica blu altri non era che Bartolomeo Taddei, già blogger di una qualche fama nei ruggenti anni del neoconservativismo, di cui del resto non parlava più volentieri. Lo accompagnava il misterioso Arci, col quale aveva condiviso anni prima avventure complesse e sostanzialmente incomprensibili. A completare il quadretto, avvolta da un sobrio tailleur la giunonica sagoma di Mària, transessuale di chiara fama, di cui non vi è certo bisogno di ricordare al lettore i prestigiosi riconoscimenti professionali, né l'indirizzo, né tanto meno il numero di telefono.
Fu proprio mentre i sei ammiratori discutevano concitatamente sul da farsi, davanti a un meraviglioso buffet che ne aveva rinfrancate le forze senza lenirne le angosce, che Verola apparve a loro, offrendo a dodici occhi sbigottiti e ansiosi l'immagine di una bellezza appena scalfita dal Tempo, e ravvivata in compenso dalla furia dei recenti rancori. “Cari i miei spasimanti”, disse, “perché questo voi siete, inutile girarci attorno: se vi ho convocati in questo luogo è perché ho deciso di concedermi a uno di voi... anche se io stessa ignoro ancora di chi si tratti. Ma di questo non mi cruccio troppo: all'eletto intendo arrivare per esclusione, dopo avere eliminato uno alla volta tutti i rivali inadeguati. Volete dunque sapere quali prove dovrete affrontare? Non sono certo troppo gravose. Si tratta di inventare una storia, una diversa ogni notte su un argomento scelto da me, così che in capo a sei giorni avrò ascoltato un racconto dalla bocca di ciascuno di voi: a questo punto eliminerò il narratore più scadente, cacciandolo dalla mia residenza, e proponendo ai cinque superstiti un nuovo argomento sul quale imbastire nuovi racconti, e così via. La competizione, se così vogliamo chiamarla, proseguirà dunque per 6+5+4+3+2+1=21 notti; ai termini delle quali dovrei aver trovato fra voi il mio compagno ideale, o se non altro il meno peggio. Ora che vi è palese il motivo per cui vi ho riunito, e il cimento che vi viene proposto, è tempo che chi tra voi non si ritiene all'altezza dell'impresa lo manifesti, di modo che i miei servitori possano scortarlo all'esterno dei miei possedimenti, dove avrà il resto della vita per piangere l'occasione mancata. Ma siccome nessuno di voi poveretti mi pare così impudente o folle da oppormi un simile rifiuto, non mi resta che guidarvi nel giardino di ponente, dove i domestici stanno già portando il caffè in sei tazzine di finissima porcellana di Hong Kong, una sola delle quali ha l'occhiello del manico sbeccato: ovviamente a colui al quale capiterà in sorte la tazza fallata toccherà per primo di cimentarsi con la non facile arte del racconto”.
A quelle parole gli astanti, sbigottiti, non seppero reagire se non farfugliando qualche espressione di genuino sconcerto. Soltanto Arci ebbe la prontezza di spirito di replicare: “Gentile Signora, come vede nessuno di noi, malgrado in cuor suo non osi ritenersi degno di comparire davanti a un giudice tanto esigente, è abbastanza coraggioso da ammetterlo e levarsi di torno. Per cui siamo tutti in ballo, e balleremo. Ma lei deve ancora dirci quale sarà il primo argomento intorno al quale dovremo imbastire i nostri improvvisati canovacci”.
“Ah già”, replicò Verola, “dimenticavo. Vorrei dunque che per risollevare il mio incanaglito umore ciascuno di voi inventasse o ripescasse dalla sua memoria per me una storia di malattia, sofferenza e morte, individuale o perché no, collettiva: battaglie, guerre ed epidemie saranno parimenti bene accette”. “Ah ok”, risposero i sei, tirando fiato, giacché avevano temuto argomenti assai meno abbordabili. E la seguirono senza altri indugi nel giardino occidentale, dove la tazza dal manico sbeccato toccò in sorte a Mària, la quale, dopo una brevissima riflessione iniziò con voce tonante il suo racconto:
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Storia di Carola e di sua sorella
01-08-2011, 03:10essere donna oggi, le 21 notti, raccontiPermalink(Introduzione)
Era Carola una giovane di nobili natali a cui la Natura, così parca abitualmente, così prudente nel dispensare i suoi doni ai mortali, aveva viceversa profuso un'avvenenza e un fascino senza pari: e tutto questa senza volerla sprovvista di un'intelligenza acutissima e viva, e di quel buon senso senza il quale tutte le altre doti e talenti non sono che spinte scomposte in ogni direzione, che tirandoci di qua e di là non ci portano veramente in nessun luogo, incatenandoci viceversa ai nostri fallimenti, quando non sono talmente violente da dilaniarci. Non così per Carola, la quale, al culmine di una carriera ricca di soddisfazioni professionali, dopo essere stata lungamente corteggiata da uomini d'arte e di potere, aveva preso in isposo il Presidente di un reame ricco e potente, il cui popolo l'amava e invidiava con alternante intensità.
Un giorno, mentre nel Palazzo presidenziale ella disbrigava gli affari correnti, gettando uno sguardo distratto a una finestra invasa da un cielo insolitamente sereno, Carola si sentì pungere dal cocente desiderio di rivedere la sorella maggiore, con cui madre Natura non era stata meno generosa, e che aveva sposato l'anziano Presidente del reame confinante. Senza indugio ordinò che fossero preparati i bagagli, e si avvertisse l'augusto marito che sarebbe stata assente tutta la settimana. Ma poi, quando già il convoglio presidenziale era a un buon punto sulla strada dell'aeroporto, si accorse di aver dimenticato una spilla che Verola, la sorella maggiore, le aveva regalato in occasione del suo matrimonio, e che nel trasporto degli addii aveva giurato di portare sempre con sé (ma poi aveva chiuso nel penultimo cassetto a partire dal basso del terzo comò della seconda cabina armadio). Ordinato dunque agli autisti e alla scorta un repentino dietrofront, Carola giunse al palazzo presidenziale ben oltre l'ora del tramonto: credette tuttavia che introducendosi con discrezione nei suoi appartamenti non avrebbe disturbato il diletto marito, il quale era solito lavorare fino a tardi ai suoi decreti nella sala del consiglio. Quale fu dunque lo stupore della povera Carola, quando, penetrata nell'alcova presidenziale, vi trovò il diletto marito abbrancato a una robusta domestica circassa?
Sconvolta da ciò a cui il suo cuore non voleva credere, e di cui pure i suoi occhi non potevano negarle la visione, nulla seppe fare nell'orgasmo del momento, fuorché chiudere la porta sulla scena penosa e grottesca insieme, ripartendo nottetempo senza far parola con nessuno di quanto visto e sentito, e senza aver recuperato la spilla fatale. L'episodio non cessò tuttavia di tormentarla per tutta la durata del viaggio. “Non è tanto il tradimento” (pensava, dibattendosi sulla poltroncina di prima classe) “in somma, siamo uomini e donne di mondo, ma proprio sul nostro talamo nuziale? E il mio aereo non era nemmeno partito! Che razza di uomo è mio marito? Vi è mai stato qualcuno al mondo meno provvisto di rispetto per sé stesso, per la carica che ricopre, e per me? E vi è mai stata al mondo moglie di presidente più vilipesa?”
Di un simile tenore erano ancora i suoi pensieri quando finalmente fu ricevuta da Verola, la quale, pur nell'allegrezza per l'incontro lungamente agognato, non impiegò molto tempo ad accorgersi che un'ombra ostinata di malinconia raffreddava l'umore della sorella adorata. Ma per quanto ripetutamente le chiedesse il motivo di questa tristezza, non ebbe da Carola che vaghe risposte sull'insostenibile vanità degli uomini e blablà. “Non vuoi veramente saperlo, sorella: contentati di riconoscere in me la più triste e insultata delle donne”. Andarono avanti così per due o tre giorni, dopodiché Verola, molto presa dalla sua agenda istituzionale, dovette recarsi da qualche parte a tagliare un nastro o consegnare un premio. “Sorella diletta”, le disse allora, “nel tempo che hai trascorso qui tra noi non hai ancora visitato i giardini presidenziali, luogo di delizie se mai ve ne fu uno in questo Reame. Ora che debbo assentarmi per qualche giorno, te li raccomando fortemente: chi sa che una breve passeggiata nell'ora del crepuscolo, quando spira una lieve tramontana e il sole all'orizzonte incendia le nubi più basse e lontane, non possa in qualche modo lenire le tue pene segrete”. “Ci credo poco, mia cara sorella; comunque grazie”, le rispose Carola, e proseguì a soffiarsi il naso. L'indomani, tuttavia, ella si recò davvero nei giardini, dove ebbe modo di verificare che né gli esemplari botanici unici al mondo, né i cespugli dalle forme bizzarre e favolose, né i leggiadri getti d'acqua avevano il potere di rimettere in sincronia il suo cuore intermittente.
Immersa in pensieri di disprezzo e vaghi propositi di vendetta, Carola non aveva prestato attenzione al trascorrere del tempo: grande fu perciò il suo stupore quando – il sole stava per calare – vide entrare dal lato opposto del giardino una trentina e più di servitori provvisti di torce, al centro dei quali distinse una sagoma tracagnotta nella quale riconobbe immediatamente il Presidente marito di sua sorella, che pure sapeva in missione all'estero. Incuriosita dalla situazione, ma tutt'altro che ansiosa di farsi riconoscere dall'ospite di cui non apprezzava i modi un po' villani, né l'umorismo greve, si nascose dietro un cespuglio, verso il quale tuttavia il gruppetto convergeva: sicché la prudente Carola poté osservare la scena che qui sotto racconto quasi come se vi partecipasse.
Man mano che vedeva i servitori avanzare ignari verso di lei, scopriva che si trattava piuttosto di servitrici: alcune nella livrea della Presidenza, altre fasciate da un'uniforme di crocerossina che appariva tuttavia troppo stretta per risultare pratica; altre le si sarebbe dette, dalla divisa ugualmente discinta, agenti delle forze della pubblica sicurezza o delle forze armate; altre ancora, e non erano le più coperte, vestivano in borghese, e dall'acconciatura o dalla montatura degli occhiali si sarebbero dette istitutrici, se il trucco pesante e le movenze non avessero smentito questa prima impressione nel modo più spettacolare. Tutte quante apparivano poi troppo giovani per le professioni che i loro costumi denunciavano, e per qualsiasi altra professione che non fosse illegale ed esecranda; e tuttavia Carola, da donna di mondo quale in effetti era, non poteva negare una certa dose di professionalità ai loro movimenti (che del resto non rimasero impediti dai vestiti per molto tempo ancora). In mezzo a loro, rosso e tronfio, troneggiava il Presidente marito di Verola, come un fiore che non smettesse di attirare a sé farfalle e api danzanti e frementi; anche se Carola trovava più congruo pensare a una piccola pallina di sterco di cervo o cinghiale, rinvenuta in mezzo al bosco durante una battuta di caccia e sfiorata e baciata da cento moscerini e parassiti.
Capita a volte anche al più giudizioso degli automobilisti di non riuscire a distogliere lo sguardo da un catastrofico incidente avvenuto nella corsia contigua: vuoi per quella morbosa curiosità che ci suscitano gli orrori, vuoi per la torva soddisfazione di non farne parte. Similmente, per quanto trovasse ripugnante e osceno lo spettacolo che si dipanava dinanzi a lei, Carola non trovava modo di saziarsene gli occhi. Ad animarla non era certo un lubrico interesse per gli amplessi, il cui ritmo artificialmente sostenuto conosceva fin troppo bene, quanto un senso di distacco, che man mano che la serata andava avanti si impadroniva sempre più del suo cuore. “Ecco dunque”, si diceva, “un uomo che un tempo fu ambizioso e capace di ogni impresa, e oggi è potente e anziano, ricco di ogni cosa al mondo fuorché di giorni da vivere; che realmente potrebbe realizzare ogni suo residuo desiderio: e quello che desidera a quanto pare è essere lo zimbello di giovinette fatue e inconsistenti, parassiti persino troppo piccine per succhiare realmente, intendo per saper trovare la vena giusta. Cosa può trovarvi in loro, di paragonabile ai trionfi dei suoi giorni più verdi? E che fine ha fatto la sua esperienza del mondo, che lo soccorse in cento e più battaglie e rovesci di fortuna, e ora lo abbandona ai capricci di una scolaresca ginnasiale? Come può non rendersi conto che fingendo un vigore impossibile non si prende gioco del Tempo, ma è il Tempo piuttosto a prendersi gioco di lui? Ma è dunque questo il destino dei più dotati fra gli uomini: lottare per tutta la vita per traguardi sempre più ambiziosi, per poi cedere alla più banale e bestiale delle pulsioni?”, e altre simili filosofiche riflessioni con le quali forse Carola nascondeva a sé stessa la ragione più segreta del suo cambio d'umore: la sorella Verola era da compatire quanto e più di lei, e il pensiero, anziché colmarla della necessaria compassione, la consolava: la catastrofe che si annunciava era avvenuta nella corsia opposta alla sua, e un così esibito disprezzo della fedeltà coniugale da parte del cognato non poteva che derubricare il fugace amplesso del marito a banale scappatella, comprensibile, perdonabile e anzi già perdonata, prima che la luce dell'alba venisse a rischiarare la comitiva esausta, che col favore delle tenebre Carola aveva già abbandonato... (continua)
Era Carola una giovane di nobili natali a cui la Natura, così parca abitualmente, così prudente nel dispensare i suoi doni ai mortali, aveva viceversa profuso un'avvenenza e un fascino senza pari: e tutto questa senza volerla sprovvista di un'intelligenza acutissima e viva, e di quel buon senso senza il quale tutte le altre doti e talenti non sono che spinte scomposte in ogni direzione, che tirandoci di qua e di là non ci portano veramente in nessun luogo, incatenandoci viceversa ai nostri fallimenti, quando non sono talmente violente da dilaniarci. Non così per Carola, la quale, al culmine di una carriera ricca di soddisfazioni professionali, dopo essere stata lungamente corteggiata da uomini d'arte e di potere, aveva preso in isposo il Presidente di un reame ricco e potente, il cui popolo l'amava e invidiava con alternante intensità.
Un giorno, mentre nel Palazzo presidenziale ella disbrigava gli affari correnti, gettando uno sguardo distratto a una finestra invasa da un cielo insolitamente sereno, Carola si sentì pungere dal cocente desiderio di rivedere la sorella maggiore, con cui madre Natura non era stata meno generosa, e che aveva sposato l'anziano Presidente del reame confinante. Senza indugio ordinò che fossero preparati i bagagli, e si avvertisse l'augusto marito che sarebbe stata assente tutta la settimana. Ma poi, quando già il convoglio presidenziale era a un buon punto sulla strada dell'aeroporto, si accorse di aver dimenticato una spilla che Verola, la sorella maggiore, le aveva regalato in occasione del suo matrimonio, e che nel trasporto degli addii aveva giurato di portare sempre con sé (ma poi aveva chiuso nel penultimo cassetto a partire dal basso del terzo comò della seconda cabina armadio). Ordinato dunque agli autisti e alla scorta un repentino dietrofront, Carola giunse al palazzo presidenziale ben oltre l'ora del tramonto: credette tuttavia che introducendosi con discrezione nei suoi appartamenti non avrebbe disturbato il diletto marito, il quale era solito lavorare fino a tardi ai suoi decreti nella sala del consiglio. Quale fu dunque lo stupore della povera Carola, quando, penetrata nell'alcova presidenziale, vi trovò il diletto marito abbrancato a una robusta domestica circassa?
Sconvolta da ciò a cui il suo cuore non voleva credere, e di cui pure i suoi occhi non potevano negarle la visione, nulla seppe fare nell'orgasmo del momento, fuorché chiudere la porta sulla scena penosa e grottesca insieme, ripartendo nottetempo senza far parola con nessuno di quanto visto e sentito, e senza aver recuperato la spilla fatale. L'episodio non cessò tuttavia di tormentarla per tutta la durata del viaggio. “Non è tanto il tradimento” (pensava, dibattendosi sulla poltroncina di prima classe) “in somma, siamo uomini e donne di mondo, ma proprio sul nostro talamo nuziale? E il mio aereo non era nemmeno partito! Che razza di uomo è mio marito? Vi è mai stato qualcuno al mondo meno provvisto di rispetto per sé stesso, per la carica che ricopre, e per me? E vi è mai stata al mondo moglie di presidente più vilipesa?”
Di un simile tenore erano ancora i suoi pensieri quando finalmente fu ricevuta da Verola, la quale, pur nell'allegrezza per l'incontro lungamente agognato, non impiegò molto tempo ad accorgersi che un'ombra ostinata di malinconia raffreddava l'umore della sorella adorata. Ma per quanto ripetutamente le chiedesse il motivo di questa tristezza, non ebbe da Carola che vaghe risposte sull'insostenibile vanità degli uomini e blablà. “Non vuoi veramente saperlo, sorella: contentati di riconoscere in me la più triste e insultata delle donne”. Andarono avanti così per due o tre giorni, dopodiché Verola, molto presa dalla sua agenda istituzionale, dovette recarsi da qualche parte a tagliare un nastro o consegnare un premio. “Sorella diletta”, le disse allora, “nel tempo che hai trascorso qui tra noi non hai ancora visitato i giardini presidenziali, luogo di delizie se mai ve ne fu uno in questo Reame. Ora che debbo assentarmi per qualche giorno, te li raccomando fortemente: chi sa che una breve passeggiata nell'ora del crepuscolo, quando spira una lieve tramontana e il sole all'orizzonte incendia le nubi più basse e lontane, non possa in qualche modo lenire le tue pene segrete”. “Ci credo poco, mia cara sorella; comunque grazie”, le rispose Carola, e proseguì a soffiarsi il naso. L'indomani, tuttavia, ella si recò davvero nei giardini, dove ebbe modo di verificare che né gli esemplari botanici unici al mondo, né i cespugli dalle forme bizzarre e favolose, né i leggiadri getti d'acqua avevano il potere di rimettere in sincronia il suo cuore intermittente.
Immersa in pensieri di disprezzo e vaghi propositi di vendetta, Carola non aveva prestato attenzione al trascorrere del tempo: grande fu perciò il suo stupore quando – il sole stava per calare – vide entrare dal lato opposto del giardino una trentina e più di servitori provvisti di torce, al centro dei quali distinse una sagoma tracagnotta nella quale riconobbe immediatamente il Presidente marito di sua sorella, che pure sapeva in missione all'estero. Incuriosita dalla situazione, ma tutt'altro che ansiosa di farsi riconoscere dall'ospite di cui non apprezzava i modi un po' villani, né l'umorismo greve, si nascose dietro un cespuglio, verso il quale tuttavia il gruppetto convergeva: sicché la prudente Carola poté osservare la scena che qui sotto racconto quasi come se vi partecipasse.
Man mano che vedeva i servitori avanzare ignari verso di lei, scopriva che si trattava piuttosto di servitrici: alcune nella livrea della Presidenza, altre fasciate da un'uniforme di crocerossina che appariva tuttavia troppo stretta per risultare pratica; altre le si sarebbe dette, dalla divisa ugualmente discinta, agenti delle forze della pubblica sicurezza o delle forze armate; altre ancora, e non erano le più coperte, vestivano in borghese, e dall'acconciatura o dalla montatura degli occhiali si sarebbero dette istitutrici, se il trucco pesante e le movenze non avessero smentito questa prima impressione nel modo più spettacolare. Tutte quante apparivano poi troppo giovani per le professioni che i loro costumi denunciavano, e per qualsiasi altra professione che non fosse illegale ed esecranda; e tuttavia Carola, da donna di mondo quale in effetti era, non poteva negare una certa dose di professionalità ai loro movimenti (che del resto non rimasero impediti dai vestiti per molto tempo ancora). In mezzo a loro, rosso e tronfio, troneggiava il Presidente marito di Verola, come un fiore che non smettesse di attirare a sé farfalle e api danzanti e frementi; anche se Carola trovava più congruo pensare a una piccola pallina di sterco di cervo o cinghiale, rinvenuta in mezzo al bosco durante una battuta di caccia e sfiorata e baciata da cento moscerini e parassiti.
Capita a volte anche al più giudizioso degli automobilisti di non riuscire a distogliere lo sguardo da un catastrofico incidente avvenuto nella corsia contigua: vuoi per quella morbosa curiosità che ci suscitano gli orrori, vuoi per la torva soddisfazione di non farne parte. Similmente, per quanto trovasse ripugnante e osceno lo spettacolo che si dipanava dinanzi a lei, Carola non trovava modo di saziarsene gli occhi. Ad animarla non era certo un lubrico interesse per gli amplessi, il cui ritmo artificialmente sostenuto conosceva fin troppo bene, quanto un senso di distacco, che man mano che la serata andava avanti si impadroniva sempre più del suo cuore. “Ecco dunque”, si diceva, “un uomo che un tempo fu ambizioso e capace di ogni impresa, e oggi è potente e anziano, ricco di ogni cosa al mondo fuorché di giorni da vivere; che realmente potrebbe realizzare ogni suo residuo desiderio: e quello che desidera a quanto pare è essere lo zimbello di giovinette fatue e inconsistenti, parassiti persino troppo piccine per succhiare realmente, intendo per saper trovare la vena giusta. Cosa può trovarvi in loro, di paragonabile ai trionfi dei suoi giorni più verdi? E che fine ha fatto la sua esperienza del mondo, che lo soccorse in cento e più battaglie e rovesci di fortuna, e ora lo abbandona ai capricci di una scolaresca ginnasiale? Come può non rendersi conto che fingendo un vigore impossibile non si prende gioco del Tempo, ma è il Tempo piuttosto a prendersi gioco di lui? Ma è dunque questo il destino dei più dotati fra gli uomini: lottare per tutta la vita per traguardi sempre più ambiziosi, per poi cedere alla più banale e bestiale delle pulsioni?”, e altre simili filosofiche riflessioni con le quali forse Carola nascondeva a sé stessa la ragione più segreta del suo cambio d'umore: la sorella Verola era da compatire quanto e più di lei, e il pensiero, anziché colmarla della necessaria compassione, la consolava: la catastrofe che si annunciava era avvenuta nella corsia opposta alla sua, e un così esibito disprezzo della fedeltà coniugale da parte del cognato non poteva che derubricare il fugace amplesso del marito a banale scappatella, comprensibile, perdonabile e anzi già perdonata, prima che la luce dell'alba venisse a rischiarare la comitiva esausta, che col favore delle tenebre Carola aveva già abbandonato... (continua)
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Non siete così meglio di Breivik
28-07-2011, 18:17fascismo, razzismi, terrorismoPermalinkNon è un pazzo.
Solo perché ha portato alle logiche, estreme conseguenze le chiacchiere che possono scapparvi a una certa ora al terzo grappino, al secondo limoncello, voi dite che è un pazzo, Breivik.
E siccome sotto la patina becera e pagana siete uomini di mondo, moderni e disincantati, non vi attraversa nemmeno per un istante il sospetto di averlo evocato voi il folle Breivik, durante i sonnellini della vostra ragione. No, il mostro lo avrà senza dubbio partorito qualcun altro - il gene dello stragismo, il welfare nordico, il disagio della società multiculturale, i videogiochi, il "sistema".
Io per me non credo che Breivik sia un pazzo, o meglio: non credo che la sua pazzia sia di un genere diverso dalla vostra. Se faccio qualche distinguo tra voi e lui, non è perché rispetti l'atteggiamento moderato con cui anche stanotte vi alzerete dal tavolino e ve ne andrete a nanna senza aver fucilato nemmeno un negro, nemmeno un comunista. Non è che vi stimi più di lui: mi fate meno paura, questo sì, ma non perché lui sia un pazzo e voi no. Il fatto è che la sua "pazzia", chiamiamola pure così, è molto più efficiente. Breivik, se ho capito bene, è stato abbastanza pazzo da trasferirsi in campagna per qualche anno, onde poter acquistare tutto il fertilizzante esplosivo che gli serviva senza destare sospetti. Quando alla fine ha colpito, non ha tirato alla cieca come i terroristi, a cui basta seminare il terrore.
Breivik aveva un obiettivo molto più preciso, accessibile soltanto in una piccola nazione: ammazzare un intero partito, interrompendone il ricambio generazionale. Così ne ha fatto esplodere la sede della capitale, attirando la polizia lontano dall'isola dove ha decimato con freddezza i futuri quadri del laburismo norvegese. Tutto alla luce del sole, perfettamente spiegato, senza quelle zone d'ombra in cui il terrorismo incuba: Breivik non è un terrorista, è il flagello di Dio. Il sorriso che mostra nelle foto dell'arresto lo leggete come il sorriso di un folle: io ci vedo la soddisfazione per un buon piano eseguito, per un lavoro ben fatto. C'è nella sua "pazzia" un metodo, una lucidità che forse noi sani di mente non possiamo permetterci. Quella che ci impedisce di irrompere con una mitraglietta nella redazione di Feltri, togliendo a lui e ai suoi pards la possibilità di mettere alla prova il proprio coraggio, la propria abnegazione, cos'è? ragionevolezza? O paura, o rassegnazione? Siamo meno pazzi o soltanto più pigri?
Di fronte a uomini lucidi come Breivik, in grado di concepire una missione e sacrificarvi tutta la loro esistenza; individualisti assoluti pronti a bruciare il proprio ego pur di rischiare l'alba di un nuovo Califfato o di un nuovo Sacro Romano Impero, forse la soluzione è: più videogiochi. Sul serio. Nel suo caso evidentemente non ne ha giocati abbastanza: alla lunga è rispuntata la voglia di irrompere nella realtà, realizzandovi le sue fantasie di sterminio e sacrificio. Forse avremo risolto il problema quando ognuno di voi, senza neanche alzarsi dal tavolino, avrà a disposizione la sua realtà simulata in cui uccidere tutti i laburisti e i negri che vuole, trionfare e regnare. Più crociate per tutti, purché virtuali; più target, più missioni, più munizioni, più ministeri in Brianza, più oppio per i popoli dell'Europa dei popoli. Il giorno in cui la fantasia sarà davvero più soddisfacente della realtà, quel giorno forse vi libererete all'estasi dei vostri sogni di purezza e gloria, e ci lascerete in pace a tentare di convivere e sopravvivere in questo mondo imperfetto. Forse a Bossi non abbiamo dato abbastanza Braveheart; forse da qualche parte qualcuno ha già scritto il gioco di ruolo che riuscirà a incatenare per sempre l'inquieto Borghezio, come Merlino nel Lago.
Nel frattempo dobbiamo sopportarvi, ma non è che ci facciate meno schifo di Breivik. Un po' meno paura, forse: e forse abbiamo torto. Perché non sarete lucidi e conseguenti quanto Breivik, ma quando volete sapete uccidere meglio di lui, con più pulizia e senza pagarne le conseguenze. A un simpatico leghista moderato come il ministro Maroni, a quel mattacchione ex-post-fascista sdoganato del ministro La Russa, basta lasciare soltanto due motovedette a pattugliare un largo braccio di mare all'apice dell'emergenza profughi in Libia, e il Canale di Sicilia si riempie in pochi giorni di quelle centinaia di cadaveri di fronte ai quali Breivik perde tutto il suo carisma folle e si rivela per quel che è: un dilettante, che ora andrà in galera. Voi invece restate al governo. Ma non è che mi facciate meno schifo di Breivik, o che dobbiate sembrarmi meno pazzi di lui.
Solo perché ha portato alle logiche, estreme conseguenze le chiacchiere che possono scapparvi a una certa ora al terzo grappino, al secondo limoncello, voi dite che è un pazzo, Breivik.
E siccome sotto la patina becera e pagana siete uomini di mondo, moderni e disincantati, non vi attraversa nemmeno per un istante il sospetto di averlo evocato voi il folle Breivik, durante i sonnellini della vostra ragione. No, il mostro lo avrà senza dubbio partorito qualcun altro - il gene dello stragismo, il welfare nordico, il disagio della società multiculturale, i videogiochi, il "sistema".
Io per me non credo che Breivik sia un pazzo, o meglio: non credo che la sua pazzia sia di un genere diverso dalla vostra. Se faccio qualche distinguo tra voi e lui, non è perché rispetti l'atteggiamento moderato con cui anche stanotte vi alzerete dal tavolino e ve ne andrete a nanna senza aver fucilato nemmeno un negro, nemmeno un comunista. Non è che vi stimi più di lui: mi fate meno paura, questo sì, ma non perché lui sia un pazzo e voi no. Il fatto è che la sua "pazzia", chiamiamola pure così, è molto più efficiente. Breivik, se ho capito bene, è stato abbastanza pazzo da trasferirsi in campagna per qualche anno, onde poter acquistare tutto il fertilizzante esplosivo che gli serviva senza destare sospetti. Quando alla fine ha colpito, non ha tirato alla cieca come i terroristi, a cui basta seminare il terrore.
Breivik aveva un obiettivo molto più preciso, accessibile soltanto in una piccola nazione: ammazzare un intero partito, interrompendone il ricambio generazionale. Così ne ha fatto esplodere la sede della capitale, attirando la polizia lontano dall'isola dove ha decimato con freddezza i futuri quadri del laburismo norvegese. Tutto alla luce del sole, perfettamente spiegato, senza quelle zone d'ombra in cui il terrorismo incuba: Breivik non è un terrorista, è il flagello di Dio. Il sorriso che mostra nelle foto dell'arresto lo leggete come il sorriso di un folle: io ci vedo la soddisfazione per un buon piano eseguito, per un lavoro ben fatto. C'è nella sua "pazzia" un metodo, una lucidità che forse noi sani di mente non possiamo permetterci. Quella che ci impedisce di irrompere con una mitraglietta nella redazione di Feltri, togliendo a lui e ai suoi pards la possibilità di mettere alla prova il proprio coraggio, la propria abnegazione, cos'è? ragionevolezza? O paura, o rassegnazione? Siamo meno pazzi o soltanto più pigri?
Di fronte a uomini lucidi come Breivik, in grado di concepire una missione e sacrificarvi tutta la loro esistenza; individualisti assoluti pronti a bruciare il proprio ego pur di rischiare l'alba di un nuovo Califfato o di un nuovo Sacro Romano Impero, forse la soluzione è: più videogiochi. Sul serio. Nel suo caso evidentemente non ne ha giocati abbastanza: alla lunga è rispuntata la voglia di irrompere nella realtà, realizzandovi le sue fantasie di sterminio e sacrificio. Forse avremo risolto il problema quando ognuno di voi, senza neanche alzarsi dal tavolino, avrà a disposizione la sua realtà simulata in cui uccidere tutti i laburisti e i negri che vuole, trionfare e regnare. Più crociate per tutti, purché virtuali; più target, più missioni, più munizioni, più ministeri in Brianza, più oppio per i popoli dell'Europa dei popoli. Il giorno in cui la fantasia sarà davvero più soddisfacente della realtà, quel giorno forse vi libererete all'estasi dei vostri sogni di purezza e gloria, e ci lascerete in pace a tentare di convivere e sopravvivere in questo mondo imperfetto. Forse a Bossi non abbiamo dato abbastanza Braveheart; forse da qualche parte qualcuno ha già scritto il gioco di ruolo che riuscirà a incatenare per sempre l'inquieto Borghezio, come Merlino nel Lago.
Nel frattempo dobbiamo sopportarvi, ma non è che ci facciate meno schifo di Breivik. Un po' meno paura, forse: e forse abbiamo torto. Perché non sarete lucidi e conseguenti quanto Breivik, ma quando volete sapete uccidere meglio di lui, con più pulizia e senza pagarne le conseguenze. A un simpatico leghista moderato come il ministro Maroni, a quel mattacchione ex-post-fascista sdoganato del ministro La Russa, basta lasciare soltanto due motovedette a pattugliare un largo braccio di mare all'apice dell'emergenza profughi in Libia, e il Canale di Sicilia si riempie in pochi giorni di quelle centinaia di cadaveri di fronte ai quali Breivik perde tutto il suo carisma folle e si rivela per quel che è: un dilettante, che ora andrà in galera. Voi invece restate al governo. Ma non è che mi facciate meno schifo di Breivik, o che dobbiate sembrarmi meno pazzi di lui.
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Caino non dovrebbe morire mai
27-07-2011, 01:27delitti e cronaca, dialoghiPermalinkA ciascuno il suo fiordo
"Guarda, io da giovane ero anche contro la pena di morte, poi però ho cominciato a pensare..."
"Stop".
"Che alla fine la morte..."
"Stop, ti ho detto. Non m'interessa cosa ne pensi adesso".
"Ah no?"
"No. Mi contento di quello che pensavi da giovane".
"Guarda che adesso sono più pietoso. Adesso penso che la morte non sia il castigo peggiore che puoi infliggere a un uomo. Cioè, io se penso a Breivik, io non lo vorrei mai morto. Vorrei che vivesse per sempre, capisci? In una cella foderata di foto delle sue vittime che sorridono, mentre una tv che non si può spegnere gli mostra la Norvegia che diventa sempre più multiculturale. Non sarebbe peggio della morte?"
"Sì, in effetti è l'inferno dantesco. Benvenuto nel Trecento".
"Sempre meglio del duemila norvegese. Uccidi novanta persone e ti danno 21 anni?"
"Trenta. Se riescono a dimostrare che è un crimine contro l'umanità gliene danno trenta".
"Apperò. Se riescono a dimostrare... Eh, sarà dura".
"Guarda, di sicuro non me ne intendo, ma può anche darsi che una bomba e una settantina di omicidi non rientrino nella definizione".
"E comunque trent'anni, eh... Cioè, Hitler se si consegnava ai norvegesi era libero verso il 1975, faceva in tempo a scoprire Nina Hagen".
"Avevamo detto niente riferimenti agli anni Quaranta per un mese".
"Lo so. E il mese è passato".
"Di già? Comunque sono tanti trent'anni, eh. Alla sua età è quasi un ergastolo".
"Appunto, quasi. Io me lo immagino già novantenne in una casetta di legno appollaiata su qualche fiordo, mentre scarica la posta degli ammiratori..."
"Non sarà più la stessa persona".
"E non sarà più la stessa posta, e anche i fiordi chissà se saranno gli stessi; e allora? C'è che questi nordici non sanno più cos'è il male. Niente guerre da sessant'anni..."
"Come noi".
"Niente mafie, niente anni di piombo... Non sono preparati, non sono vaccinati".
"Mentre noi, invece..."
"Noi, guarda, avremo tanti difetti, ma a un tizio così... Strage, banda armata, ottanta omicidi... Uno o due ergastoli non glieli toglieva nessuno, no?"
"Massì anche otto. Come Fioravanti".
"..."
"...che infatti si è fatto più o meno trent'anni di notti in cella. Poi di giorno vabbe', magari era in giro a salvare qualche Caino, ci pensi mai?"
"A cosa dovrei pensare?"
"Che noialtri con le nostre vite dignitose e banali probabilmente non avremo mai salvato la vita di nessuno, mentre chissà quante vite di quanti Caini avrà contribuito a salvare Fioravanti col suo impegno diurno".
"È da un po' che non si sente in giro, comunque".
"Avrà anche lui il diritto di starsene per i fatti suoi, dopo tutto il bene e il male che ha fatto... Sarà anche lui appollaiato da qualche parte a scaricare la sua posta..."
"Ognuno ha i suoi fiordi, insomma".
"Ognuno ha i suoi fiordi".
"Guarda, io da giovane ero anche contro la pena di morte, poi però ho cominciato a pensare..."
"Stop".
"Che alla fine la morte..."
"Stop, ti ho detto. Non m'interessa cosa ne pensi adesso".
"Ah no?"
"No. Mi contento di quello che pensavi da giovane".
"Guarda che adesso sono più pietoso. Adesso penso che la morte non sia il castigo peggiore che puoi infliggere a un uomo. Cioè, io se penso a Breivik, io non lo vorrei mai morto. Vorrei che vivesse per sempre, capisci? In una cella foderata di foto delle sue vittime che sorridono, mentre una tv che non si può spegnere gli mostra la Norvegia che diventa sempre più multiculturale. Non sarebbe peggio della morte?"
"Sì, in effetti è l'inferno dantesco. Benvenuto nel Trecento".
"Sempre meglio del duemila norvegese. Uccidi novanta persone e ti danno 21 anni?"
"Trenta. Se riescono a dimostrare che è un crimine contro l'umanità gliene danno trenta".
"Apperò. Se riescono a dimostrare... Eh, sarà dura".
"Guarda, di sicuro non me ne intendo, ma può anche darsi che una bomba e una settantina di omicidi non rientrino nella definizione".
"E comunque trent'anni, eh... Cioè, Hitler se si consegnava ai norvegesi era libero verso il 1975, faceva in tempo a scoprire Nina Hagen".
"Avevamo detto niente riferimenti agli anni Quaranta per un mese".
"Lo so. E il mese è passato".
"Di già? Comunque sono tanti trent'anni, eh. Alla sua età è quasi un ergastolo".
"Appunto, quasi. Io me lo immagino già novantenne in una casetta di legno appollaiata su qualche fiordo, mentre scarica la posta degli ammiratori..."
"Non sarà più la stessa persona".
"E non sarà più la stessa posta, e anche i fiordi chissà se saranno gli stessi; e allora? C'è che questi nordici non sanno più cos'è il male. Niente guerre da sessant'anni..."
"Come noi".
"Niente mafie, niente anni di piombo... Non sono preparati, non sono vaccinati".
"Mentre noi, invece..."
"Noi, guarda, avremo tanti difetti, ma a un tizio così... Strage, banda armata, ottanta omicidi... Uno o due ergastoli non glieli toglieva nessuno, no?"
"Massì anche otto. Come Fioravanti".
"..."
"...che infatti si è fatto più o meno trent'anni di notti in cella. Poi di giorno vabbe', magari era in giro a salvare qualche Caino, ci pensi mai?"
"A cosa dovrei pensare?"
"Che noialtri con le nostre vite dignitose e banali probabilmente non avremo mai salvato la vita di nessuno, mentre chissà quante vite di quanti Caini avrà contribuito a salvare Fioravanti col suo impegno diurno".
"È da un po' che non si sente in giro, comunque".
"Avrà anche lui il diritto di starsene per i fatti suoi, dopo tutto il bene e il male che ha fatto... Sarà anche lui appollaiato da qualche parte a scaricare la sua posta..."
"Ognuno ha i suoi fiordi, insomma".
"Ognuno ha i suoi fiordi".
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Il Piccolo Opinionista Nero
25-07-2011, 22:46giornalisti, ho una teoria, migranti, razzismi, scontro di civiltàPermalinkLa vita non è facile in Italia, quando nasci piccolo e nero. Se poi vuoi fare pure l'opinionista, beh, solidarietà.
Scherzavo. No, nessuna pietà. La leggenda del Piccolo Opinionista Nero è sull'Unita.it, e si commenta ovviamente là. Speriam bene.
C'era una volta, in un Paese di bianchi, un piccolo uomo nero, a cui la sorte non aveva davvero regalato molto. Solo un briciolo di orgoglio, qualche etto di astuzia e tanta, tantissima ambizione. Ma cosa ci fai con l'astuzia e l'ambizione, se ti ritrovi piccolo e nero in un Paese di bianchi? È una vera ingiustizia, pensava il piccolo uomo: in altri Paesi uno come me potrebbe fare perfino il Presidente. Aveva ragione, tra l'altro.
Scherzavo. No, nessuna pietà. La leggenda del Piccolo Opinionista Nero è sull'Unita.it, e si commenta ovviamente là. Speriam bene.
C'era una volta, in un Paese di bianchi, un piccolo uomo nero, a cui la sorte non aveva davvero regalato molto. Solo un briciolo di orgoglio, qualche etto di astuzia e tanta, tantissima ambizione. Ma cosa ci fai con l'astuzia e l'ambizione, se ti ritrovi piccolo e nero in un Paese di bianchi? È una vera ingiustizia, pensava il piccolo uomo: in altri Paesi uno come me potrebbe fare perfino il Presidente. Aveva ragione, tra l'altro.
“Usa l'astuzia”, gli diceva il suo demone interiore. “Trasforma la tua debolezza in forza. Tu hai una cosa che i bianchi non hanno, ci hai mai pensato? Tu sei nero”.
“Lo so bene, ed è il motivo per cui mi sputano”.
“Ti sputano perché hanno paura dei neri come te, che sono tantissimi e arrivano da tutte le parti”.
“Ah sì? Non lo sapevo. È orribile!”
“Sì, in effetti non sono proprio tantissimi, e non arrivano proprio da tutte le parti. Però non importa, con la paura non si ragiona. A questo punto arrivi tu”.
“E che ci faccio io?”
“Tu fai il nero buono, il nero che ha studiato, il nero che parla come i bianchi, e li tranquillizzi. Gli spiegherai che i neri sono brava gente, gli racconterai i loro costumi, la loro cultura, la ricchezza dell'Islam”.
“Ma che ne so io, scusa, ho studiato dai salesiani”.
“Vuoi dire che non sei neanche musulmano?”
“Boh”.
“Vabbe', convertiti, insomma, studia, datti da fare. Devi amare un poco i neri per piacere a certi bianchi”.
E il Piccolo Nero si impegnò. Studiò un poco, si mise persino a frequentare le moschee, anche se non è che capisse sempre tutto. Scrisse pagine su pagine, che diventarono libri su libri, in cui spiegava che i neri non erano così cattivi, e quanto fosse difficile fare il nero in un Paese di bianchi, e tutto sommato era sincero. Dai e dai il suo faccino nero e il suo cognome strano cominciarono a comparire sulle pagine dei quotidiani più prestigiosi. Insomma stava filando tutto a gonfie vele, quando accadde che dei neri non proprio tolleranti dirottarono alcuni aerei e abbatterono alcuni grattacieli. Fu un disastro per tutti, e anche per il nostro Piccolo Opinionista Nero.
All'inizio si disse che non sarebbe cambiato niente, anzi, ci sarebbe sempre stato bisogno di una faccia nera sorridente che rassicurava e spiegava ai lettori che non tutti i neri erano cattivi. Però le cose stavano cambiando rapidamente. Ormai in quel Paese i neri erano tanti – non tantissimi in verità, ma si vedevano da lontano, come grani di caffè in una ciotola piena di zucchero. E tanti di questi neri ne sapevano molto più di lui sulla loro cultura e sull'Islam, insomma, non poteva più salire in cattedra impunemente come qualche anno prima. C'erano ancora lettori bianchi che lo stimavano per le cose che aveva scritto in passato, ma ormai i suoi libri li avevano comprati. Invece adesso andavano di moda libri molto diversi, per esempio furoreggiavano le favole di una vecchietta che vedeva neri dappertutto che distruggevano tutte le chiese e i monumenti cristiani. Benché avesse già scritto molti articoli per criticare la vecchietta, il Piccolo Opinionista Nero segretamente la invidiava: lei sì che poteva scrivere qualsiasi puttanata senza fare nessun tipo di ricerca, e il suo bacino di lettori aumentava geometricamente a ogni attentato.
“Non vale, cioè, è troppo facile così! Sarei capace anch'io di scrivere quella robaccia!”
“E perché non lo fai?”, gli chiese il suo demone.
“Ah, rieccoti. Era da un po' che non ti si vedeva in giro”.
“Il buonismo dei tuoi articoli mi annoiava profondamente”.
“Ecco, vedi? Adesso vanno di moda le apocalissi, le lotte di civiltà, di religione, le crociate, tutta quella roba lì”.
“E tu scrivile!”
“Ma non posso! Io sono il nero gentile che scrive di tolleranza, di pace, di multicult...”
“Bla bla bla. Tu sei il piccolo nero a cui nessuno ha mai regalato niente, ricordatelo! E nessuno mai te lo regalerà! Se vuoi il successo, devi prendertelo senza guardare in faccia a nessuno, hai capito? E adesso cos'è, hai paura di una vecchietta? Quanto pensi che durerà? E quando se ne sarà andata, a chi toccherà il suo posto?”
“Non può mica toccare a me, scusa, lei è una crociata e io sono un musulmano”.
“Ah sì, sei un musulmano adesso? Beh, e allora convertiti”.
E fu così che il Piccolo Opinionista Nero si convertì – fu un grande giorno, venne anche il grande capo degli uomini Bianchi in persona, a bagnargli il capo; e per quanto lo chinasse, il Piccolo Opinionista non poté fare a meno di notare che il gran capo non era più alto di lui, né più bello, né più sveglio; era solo nato bianco, tutto qui, che ingiustizia! Ma si poteva rimediare. Ora che era cristiano il Piccolo Opinionista non scorgeva più l'orizzonte delle sue ambizioni. È vero che qualche bianco ancora non si fidava di lui; per ingraziarseli, il Piccolo Op. cominciò a denunciare tutti i neri che aveva conosciuto quando frequentava le moschee: siccome non sempre riusciva a capire cosa dicessero, non c'era il minimo dubbio che stessero complottando contro il Cristianesimo; pianificando di minare qualche sacrestia, avvelenare un battistero, dirottare un campanile... andavano fermati! Il Piccolo Opinionista li fermò. E non si fermò lì. Scrisse libri sulla bellezza del Cristo, che conosceva più o meno come Maometto (poco), e sull'esigenza di difenderlo dai cani infedeli rabbiosi infami, senza fidarsi di chi si riempiva troppo la bocca di paroloni vuoti come Tolleranza Rispetto Multiculturalità Dialogo... 'Non vi fidate, essi mentono! Vogliono soltanto entrare nel vostro giardino, cogliere i fiori che avete coltivato con tanto amore, suggere i vostri frutti, fare quattro tuffi nella vostra piscina, prima di avvelenarla!' così diceva, più o meno, e si stupiva lui stesso di quanto riusciva a essere convincente. Si sentiva persino più sincero di prima; era come se tutta la frustrazione che aveva raccolto nella sua vita si fosse trasformata d'incanto in qualcosa di nobile, di giusto, di puro. E guadagnava un sacco. Cercò anche di entrare in un partito politico, ma gli dissero che era troppo estremista; fu quasi un complimento. Tanto più che in fondo lui non voleva essere secondo a nessuno: così si fondò un partito su misura per lui. Come simbolo prese il crocifisso, tanto non si pagava il copyright. Propose anche di metterlo sulla bandiera, come nei Paesi del Nord: nessuno era già arrivato a tanto! Perché ormai ragionava più bianco dei Bianchi.
E certamente avrebbe potuto vendere libri su libri, superando il record della vecchietta (che nel frattempo aveva lasciato questo mondo), se solo gli islamici avessero continuato a fare attentati con una certa regolarità. E invece c'era questo problema: che da un po' di tempo in qua nicchiavano, non dirottavano più aerei, nemmeno autobombe; per quanto li si bombardasse e invadesse e torturasse, non reagivano quasi più, smidollati! Il Piccolo Opinionista Nero li aveva sempre segretamente disprezzati, ma adesso decisamente li odiava: possibile che non facessero mai, mai quello che ci si aspettava da loro? “Sembra che lo facciano apposta per deludermi”, pensava.
Ma poi finalmente, una sera, da un Paese del Nord arrivò la notizia di un'autobomba e di una sparatoria, e il Piccolo Opinionista Nero si rimproverò di essere stato così ingiusto coi suoi ex-fratelli. Nel giro di mezz'ora aveva già scritto un pezzo trionfante contro la tolleranza, contro l'ideologia del multiculturalismo e il relativismo “che si fonda sulla tesi che per amare il prossimo devi sposare la sua religione e le sue idee”. Lo mandò al giornale e andò a letto presto. Sognò un'elezione, una bandiera crociata, e un popolo biancovestito che lo incoronava Presidente, proprio lui, un piccolo uomo nero! proprio come negli USA...
Al mattino il risveglio fu un po' brusco.
“Incapace”, gli disse il suo demone, “guarda cos'hai combinato!”
“Ah, sei tu! Era da un po' che non ti si vedeva in giro”.
“Il fondamentalismo dei tuoi articoli cominciava a imbarazzarmi, e i fatti non mi hanno certo dato torto. Lo sai chi ha ucciso tutti quei bianchi nordici multiculturali?”
“Non so, i soliti islamici, presumo”.
“Ma non li leggi i giornali?”
“No, li scrivo”.
“Il solito problema. Bene stamattina dicono tutti che è stato un bianco nordico che odia il multiculturalismo e la tolleranza”.
“Oddio! Sono fregato!”
“Piano, piano. Certo, certe pagine del suo memoriale assomigliano veramente molto a uno dei tuoi libri, come si chiama...”
“Quello? Ma è tutta roba copiata dalla vecchietta!”
“Avrà copiato anche lui. Poi è uscito, ha messo due bombe e fucilato un centinaio di ragazzini”.
“E aveva le mie idee! Era uno come me! Stavolta sono fregato davvero!”
“Ehi, piano, piano. Non è uno come te”.
“Come no. Era cristiano, odiava la tolleranza... lo hai detto tu...”
“Sì, però guardati. Lui era alto e biondo. Sei alto tu? Sei biondo?”
“Ma che c'entra, scusa”.
“C'entra, c'entra eccome. Tu sei piccolo. E nero. Non scordartelo mai”.
“Ma mi sono convertito...”
“Non ha nessuna importanza. A certe cose non ci si converte. Se ci fossi stato tu, ferito, su quell'isola, lui non ci avrebbe pensato due volte a darti il colpo di grazia. Anche se tu credi nel suo Dio. Anche se ti comporti come un bianco. Anzi, proprio perché ti comporti così. Capisci?”
“Credo di sì”.
“Più ti sforzi di assomigliare a loro, più ti odiano. Sono nazisti, fondamentalisti, è quel che sono. Vengono a corrompere la nostra società aperta. Bisogna combatterli”.
“Cosa devo fare?”
“Il solito. Convertiti”.
“A cosa?”
“Boh, improvvisa. Il tizio ha massacrato i giovani laburisti. Potresti convertirti al laburismo”.
“Non ho la minima idea di cosa sia”.
“Toh, una novità. E allora studia, aggiornati, su. Prima che vengano a cercarti col fucile”.
“Sì, però che stanchezza”.
“Sei stanco? Stanco di cosa?”
“Ma di dover sempre cambiare religione, cambiare idea, cambiare camicia, quando alla fine è solo la mia faccia che non va. La mia faccia piccola e nera. Non è giusto”.
“Ma sentilo un po', il calimero. Sei stanco di cambiare? Vorresti restare quel che sei adesso? Un nero che ispira gli ammazzaneri?”
“Non so. Vorrei... forse vorrei provare una volta sola a essere semplicemente me stesso”.
“Te stesso? E chi sarebbe, “te stesso”?”
“Buffo, ormai non lo so più”.
“Allora te lo ricordo io: tu non sei mai stato nessuno. Solo un piccolo uomo nero a cui la sorte non ha davvero regalato molto. Solo un briciolo di orgoglio, qualche etto di astuzia e tanta, tantissima ambizione...”
Ok, disperdiamoci
20-07-2011, 15:49anniversari, attivismo, Il G8 di Genova 2001, manifestaiolismiPermalinkDieci anni sono un intervallo interessante. Di solito, se è ancora troppo presto per il “com'eravamo stupidi”, è quasi sempre il momento in cui si smette di dire “sembra ieri”. Questo è curioso perché in effetti qualche somiglianza con ieri (le manifestazioni anti-tav, o quelle studentesche dell'autunno scorso) persiste. Eppure non c'è nessuno in giro che osi dire sembra ieri. Genova è già un termine di paragone storico: i suoi protagonisti (Agnoletto, Caruso, Casarini, i vertici della polizia italiana, Scajola, George W. Bush) sono lontani dai riflettori; l'espressione “Movimento di movimenti” nessuno la sente più da anni; il social forum nessuno si ricorda bene cosa fosse; indymedia Italia fa gli accessi di un blog di provincia. A quanto pare l'unico termine che è sopravvissuto nella memoria collettiva è “black bloc”, salvo che ormai vuol dire tutto e niente.
Di fronte a una dissoluzione così spettacolare, il primo istinto è quello di istituire un rapporto di causa-effetto con l'unico aspetto ancora assolutamente attuale dell'esperienza genovese: le mazzate dei poliziotti (quelle sì, potrebbero avercele date ieri o l'altro ieri, più o meno con gli stessi tonfa). L'ho letto da più parti: il movimento a Genova è stato “sconfitto”, ecco perché facciamo persino fatica a ricordarci cosa fosse la Rete di Lilliput o il Genoa Social Forum. Genova insomma sarebbe il migliore esempio di repressione di un movimento, una success story da insegnare a tutte i gendarmi del mondo, che dal Libano alla Spagna sembrano avere un gran bisogno di lezioni. Questo è il messaggio che rischia di passare, anche quando continuiamo a raccontare le nostre ormai decennali esperienze treno-mazzate-treno ad amici e conoscenti che, a questo punto, più che chiederci come ci siamo trovati a Genova dovrebbero chiederci cosa abbiamo fatto dopo. Ci hanno disperso, ci hanno dissuaso, soprattutto ci hanno “mostrato gli strumenti”: non ci hanno ammazzati ma ci hanno fatto capire che era un'opzione, e dopo lo choc iniziale ognuno è tornato alla sua vita; due mesi dopo sono venute giù le torri e il decennio ha preso un binario diverso.
Io ovviamente non sono d'accordo. Trovo questa versione non soltanto ingiusta – Genova non è stata la “fine” di un bel niente – ma anche in un qualche modo consolatoria. Perché se è vero che ci siamo dispersi, non sono state le mazzate a farlo. Ci siamo dispersi da soli, con calma, negli anni successivi. Alle mazzate si può riconoscere viceversa il merito di averci temporaneamente riunito in un qualcosa che il venti luglio 2001 era ancora un cartello di associazioni diverse, con storie diverse e progetti diversi, che addirittura facevano manifestazioni diverse (le maledette “piazze tematiche”) e il ventuno era un Movimento che marciava compatto, battezzato nel sangue di Piazza Alimonda e della Diaz. Da questo punto di vista Genova potrebbe anche essere considerato un inizio di qualcosa, di un “attivismo anni zero” che ha caratteri abbastanza diversi da quelli del decennio precedente.
Ora, proprio perché sono passati dieci anni di manifestazioni, è difficile rendersi conto della differenza, ma Genova non era una manifestazione come la concepiamo oggi, con un obiettivo, delle rivendicazioni precise, un comitato che la promuove, un percorso più o meno negoziato con le autorità ecc. A Genova eravamo arrivati con idee diverse, progetti diversi, e una piattaforma comune che si riduceva a uno slogan: un altro mondo è possibile. A parte questo, non c'era nessuna possibilità che un tesserato Legambiente potesse condividere qualcosa con una Tuta Bianca: se si fossero incontrati, non si sarebbero capiti, ma del resto anche questo era improbabile: dormivano in campeggi diversi, partecipavano a riunioni diverse, manifestavano addirittura in piazze diverse. Fino al diciannove. Il venti abbiamo scoperto che il manganello non faceva nessuna differenza; che le piazze tematiche erano trappole per topi, che nessun distinguo ci salvava dai pestaggi e dalle infiltrazioni. Lì forse abbiamo dato un taglio all'attivismo anni '90 e all'idea che la pluralità sia sempre un valore. Il social forum smise di essere un coordinamento di non-rappresentanti e diventò un movimento; tra l'altro fu uno di quei casi in cui l'insieme si rivelò maggiore della somma algebrica delle parti, perché molte persone che sfilarono il ventuno arrivarono a Genova quel mattino, ignorando gli inviti dei dirigenti dei DS che nella notte avevano ordinato alla Sinistra Giovanile di non salire sui treni e disdire le corriere. Il risultato fu abbastanza spettacolare: il venti c'erano ancora tute bianche, anarcoinsurrezionalisti, cattolici lillipuziani, rifondaroli, attacchini, sindacalisti; il 21 c'era il Forum Sociale. Non era più un modo di dire: esisteva, ed è esistito per parecchio. Nella mia pigra città si fecero riunioni regolari almeno per un paio di anni, e a un certo punto i reduci del G8 erano una minoranza; la maggior parte degli attivisti a Genova non c'era andata, eppure era chiaro a tutti che Genova era stato il punto di partenza. Poi cos'è successo? Tante cose.
Cominciamo da quelle positive. I membri di quel movimento, che oggi sembrano piuttosto inclini all'elegia e alla celebrazione, dieci anni fa non ebbero grossi problemi a riconoscere i loro errori, e ad ammettere che una forza più organizzata aveva giocato con loro come il gatto col topo. La prima cosa che doveva fare il movimento per ottenere una credibilità era marcare la sua differenza coi casseur più o meno nerovestiti, e lo fece. Nel giro di un anno e mezzo riuscì a riposizionarsi: da cartello di facinorosi a movimento pacifico e pacifista. Le tappe di questo percorso furono le marce della pace dell'ottobre 2001 e del maggio successivo; la manifestazione romana anti-wto del novembre 2001 (con il disturbatore Ferrara ad agitare la bandierina israeliana), fino al trionfale forum sociale di Firenze (novembre 2002), quando centinaia di migliaia di attivisti si incaricarono di smentire le profezie vandaliche di Oriana Fallaci. L'undici settembre, e l'immediata invasione dell'Afganistan, lungi dal disperderci diedero più stabilità alla piattaforma comune, ma soprattutto ci fornirono un avversario ideologico (il neoconservatorismo filoamericano) che rese molto più semplici le adunate: non c'era più bisogno di spiegare che mondo possibile si desiderava; bastava essere contro il mondo dei neocon: la guerra infinita, uno scenario molto più concreto del Wto o degli immaginosi imperi toninegriani. Da questo punto di vista, provocatori 'soft' come Ferrara o la Fallaci ci resero un servizio enorme. Il 2003 fu la consacrazione: non solo con l'invasione dell'Iraq i “noglobal” diventavano definitivamente “no war”, ma il loro attivismo era diventato un elemento stabilizzante per tutta la sinistra: quando Cofferati, all'indomani dell'assassinio Biagi, non annullò il corteo di Roma, ma lo trasformò in un'enorme e composta celebrazione, ricalcava inconsapevolmente su una scala molto diversa quello che avevano fatto Agnoletto & co all'indomani dell'assassinio di Giuliani; ma intanto aveva dietro di sé l'esempio di due anni di manifestazioni composte e pacifiche. Insomma, se si trattasse di un film, uno potrebbe scegliere di mettere i titoli di coda sulle adunate di Firenze e Roma, e sarebbe il migliore lieto fine immaginabile: c'era una volta un movimento fatto di tanti gruppi autoreferenziali, che non si parlavano e non distinguevano infiltrati e utili idioti, e che nel giro di pochi giorni sono cresciuti, sono cambiati, sono diventati un movimento serio con obiettivi precisi (la denuncia delle violenze della polizia, il ritiro dell'Italia dall'Iraq), alcuni li ha persino ottenuti, quindi fine. Ma appunto, non è un film: e quel che viene dopo è meno esaltante. È anche molto più difficile da raccontare. Cos'è successo dal 2004 in poi?
In un certo senso, niente. A invasione dell'Iraq completata, il ritmo delle grandi manifestazioni è rallentato, e ci siamo tutti dati una calmata. Non essendo un movimento generazionale, non ha senso cercare una spiegazione anagrafica; però nella vita di grandi e piccini esistono dei cicli, e forse chi aveva vissuto l'estate terribile ed entusiasmante del 2001 dopo tre anni era semplicemente stanco. Io per esempio cominciai a sentire una certa insofferenza quando mi resi conto che non c'era ricambio: tre anni dopo eravamo sempre gli stessi, ora si trattava di incrostarci e sopravvivere in attesa di confluire nella successiva ondata, nel successivo movimento di movimenti. Nel frattempo ci furono le amministrative e nella mia pigra città i noglobal arrivarono in Consiglio, addirittura in Giunta, e quello forse fu un altro segno della fine. Più in generale, dopo aver lottato contro la globalizzazione, contro la criminalizzazione e la repressione e contro la guerra, si trattava di passare alla fase propositiva, ma per questo passaggio non eravamo pronti, ammesso che un movimento lo sia. Molte idee sfoggiate a Firenze alla prova dei fatti mostravano la loro scarsa consistenza: mi viene in mente l'esempio del Bilancio Partecipativo: quando ci mettemmo a studiare da vicino la rivoluzionaria proposta della municipalità di Porto Alegre, ci accorgemmo che poteva essere rivoluzionaria, sì, per una cittadinanza analfabeta, e che i bilanci delle nostre amministrazioni comunali o circoscrizionali erano già altrettanto aperti senza nessuna rivoluzione. Andò un po' meglio con la Tobin Tax, perlomeno se ne parla ancora come di qualcosa di serio. Per il resto, continuavano a esserci milioni di buoni motivi per dire di no: no al Tav, no alla Del Molin, no al rifinanziamento delle missioni italiane, no ai periodici sgomberi... ma a quel punto eravamo più o meno tornati al pre-Genova, alle piazze tematiche e un po' autoreferenziali. Poi, se uno vuole, nella vittoria del sì all'ultimo referendum può anche verderci un colpo di coda dei noglobal seguaci di Zanotelli (ma anche dei verdi antinucleari anni'80: in fondo se smettiamo per un attimo di mettere a fuoco le etichette ci rendiamo conto che c'è gente che manifesta da vent'anni per lo stesse cose, anche se - comprensibilmente - ogni tanto cambia berretto).
Insomma è andata così. Poteva andare meglio. Però che sia chiaro: non è stata colpa delle mazzate, anzi. Finché ci sono state mazzate, c'è stata unità di intenti, prontezza di riflessi, determinazione a reagire. Qui mi fermo, perché il passo successivo è lamentarsi che abbiano smesso di darcene, e chiederne altre. E invece no: quello che ci è mancato è la concentrazione e la determinazione per passare al passo successivo, dal movimentismo alla politica. E un'altra cosa che ci è mancata – ma qui partiranno i fischi – sono stati i leader. Per forza, il movimento era antileaderistico e acefalo per sua costituzione. Però un movimento si riconosce anche dai personaggi che riesce a formare e selezionare, e qui sta la nostra vera sconfitta. Non abbiamo creato nessuna classe dirigente; quei pochi leader che avevamo li abbiamo presi in prestito dai centri sociali o dai cobas o dalla LILA. Non ne abbiamo creati di nuovi, e sì che a un certo punto sembrava che nelle nostre file militassero gli intellettuali, gli economisti, i giuristi, i mediattivisti più aggiornati (per quanto farraginosa e caotica, indymedia nel 2001 era lo stato dell'Arte dell'informazione on line). Da tutta questa fucina di talenti non è uscito quasi niente: giusto qualche romanzo, qualche pezzo celebrativo ogni estate verso il venti luglio, tutto qui.
Di fronte a una dissoluzione così spettacolare, il primo istinto è quello di istituire un rapporto di causa-effetto con l'unico aspetto ancora assolutamente attuale dell'esperienza genovese: le mazzate dei poliziotti (quelle sì, potrebbero avercele date ieri o l'altro ieri, più o meno con gli stessi tonfa). L'ho letto da più parti: il movimento a Genova è stato “sconfitto”, ecco perché facciamo persino fatica a ricordarci cosa fosse la Rete di Lilliput o il Genoa Social Forum. Genova insomma sarebbe il migliore esempio di repressione di un movimento, una success story da insegnare a tutte i gendarmi del mondo, che dal Libano alla Spagna sembrano avere un gran bisogno di lezioni. Questo è il messaggio che rischia di passare, anche quando continuiamo a raccontare le nostre ormai decennali esperienze treno-mazzate-treno ad amici e conoscenti che, a questo punto, più che chiederci come ci siamo trovati a Genova dovrebbero chiederci cosa abbiamo fatto dopo. Ci hanno disperso, ci hanno dissuaso, soprattutto ci hanno “mostrato gli strumenti”: non ci hanno ammazzati ma ci hanno fatto capire che era un'opzione, e dopo lo choc iniziale ognuno è tornato alla sua vita; due mesi dopo sono venute giù le torri e il decennio ha preso un binario diverso.
Io ovviamente non sono d'accordo. Trovo questa versione non soltanto ingiusta – Genova non è stata la “fine” di un bel niente – ma anche in un qualche modo consolatoria. Perché se è vero che ci siamo dispersi, non sono state le mazzate a farlo. Ci siamo dispersi da soli, con calma, negli anni successivi. Alle mazzate si può riconoscere viceversa il merito di averci temporaneamente riunito in un qualcosa che il venti luglio 2001 era ancora un cartello di associazioni diverse, con storie diverse e progetti diversi, che addirittura facevano manifestazioni diverse (le maledette “piazze tematiche”) e il ventuno era un Movimento che marciava compatto, battezzato nel sangue di Piazza Alimonda e della Diaz. Da questo punto di vista Genova potrebbe anche essere considerato un inizio di qualcosa, di un “attivismo anni zero” che ha caratteri abbastanza diversi da quelli del decennio precedente.
Ora, proprio perché sono passati dieci anni di manifestazioni, è difficile rendersi conto della differenza, ma Genova non era una manifestazione come la concepiamo oggi, con un obiettivo, delle rivendicazioni precise, un comitato che la promuove, un percorso più o meno negoziato con le autorità ecc. A Genova eravamo arrivati con idee diverse, progetti diversi, e una piattaforma comune che si riduceva a uno slogan: un altro mondo è possibile. A parte questo, non c'era nessuna possibilità che un tesserato Legambiente potesse condividere qualcosa con una Tuta Bianca: se si fossero incontrati, non si sarebbero capiti, ma del resto anche questo era improbabile: dormivano in campeggi diversi, partecipavano a riunioni diverse, manifestavano addirittura in piazze diverse. Fino al diciannove. Il venti abbiamo scoperto che il manganello non faceva nessuna differenza; che le piazze tematiche erano trappole per topi, che nessun distinguo ci salvava dai pestaggi e dalle infiltrazioni. Lì forse abbiamo dato un taglio all'attivismo anni '90 e all'idea che la pluralità sia sempre un valore. Il social forum smise di essere un coordinamento di non-rappresentanti e diventò un movimento; tra l'altro fu uno di quei casi in cui l'insieme si rivelò maggiore della somma algebrica delle parti, perché molte persone che sfilarono il ventuno arrivarono a Genova quel mattino, ignorando gli inviti dei dirigenti dei DS che nella notte avevano ordinato alla Sinistra Giovanile di non salire sui treni e disdire le corriere. Il risultato fu abbastanza spettacolare: il venti c'erano ancora tute bianche, anarcoinsurrezionalisti, cattolici lillipuziani, rifondaroli, attacchini, sindacalisti; il 21 c'era il Forum Sociale. Non era più un modo di dire: esisteva, ed è esistito per parecchio. Nella mia pigra città si fecero riunioni regolari almeno per un paio di anni, e a un certo punto i reduci del G8 erano una minoranza; la maggior parte degli attivisti a Genova non c'era andata, eppure era chiaro a tutti che Genova era stato il punto di partenza. Poi cos'è successo? Tante cose.
Cominciamo da quelle positive. I membri di quel movimento, che oggi sembrano piuttosto inclini all'elegia e alla celebrazione, dieci anni fa non ebbero grossi problemi a riconoscere i loro errori, e ad ammettere che una forza più organizzata aveva giocato con loro come il gatto col topo. La prima cosa che doveva fare il movimento per ottenere una credibilità era marcare la sua differenza coi casseur più o meno nerovestiti, e lo fece. Nel giro di un anno e mezzo riuscì a riposizionarsi: da cartello di facinorosi a movimento pacifico e pacifista. Le tappe di questo percorso furono le marce della pace dell'ottobre 2001 e del maggio successivo; la manifestazione romana anti-wto del novembre 2001 (con il disturbatore Ferrara ad agitare la bandierina israeliana), fino al trionfale forum sociale di Firenze (novembre 2002), quando centinaia di migliaia di attivisti si incaricarono di smentire le profezie vandaliche di Oriana Fallaci. L'undici settembre, e l'immediata invasione dell'Afganistan, lungi dal disperderci diedero più stabilità alla piattaforma comune, ma soprattutto ci fornirono un avversario ideologico (il neoconservatorismo filoamericano) che rese molto più semplici le adunate: non c'era più bisogno di spiegare che mondo possibile si desiderava; bastava essere contro il mondo dei neocon: la guerra infinita, uno scenario molto più concreto del Wto o degli immaginosi imperi toninegriani. Da questo punto di vista, provocatori 'soft' come Ferrara o la Fallaci ci resero un servizio enorme. Il 2003 fu la consacrazione: non solo con l'invasione dell'Iraq i “noglobal” diventavano definitivamente “no war”, ma il loro attivismo era diventato un elemento stabilizzante per tutta la sinistra: quando Cofferati, all'indomani dell'assassinio Biagi, non annullò il corteo di Roma, ma lo trasformò in un'enorme e composta celebrazione, ricalcava inconsapevolmente su una scala molto diversa quello che avevano fatto Agnoletto & co all'indomani dell'assassinio di Giuliani; ma intanto aveva dietro di sé l'esempio di due anni di manifestazioni composte e pacifiche. Insomma, se si trattasse di un film, uno potrebbe scegliere di mettere i titoli di coda sulle adunate di Firenze e Roma, e sarebbe il migliore lieto fine immaginabile: c'era una volta un movimento fatto di tanti gruppi autoreferenziali, che non si parlavano e non distinguevano infiltrati e utili idioti, e che nel giro di pochi giorni sono cresciuti, sono cambiati, sono diventati un movimento serio con obiettivi precisi (la denuncia delle violenze della polizia, il ritiro dell'Italia dall'Iraq), alcuni li ha persino ottenuti, quindi fine. Ma appunto, non è un film: e quel che viene dopo è meno esaltante. È anche molto più difficile da raccontare. Cos'è successo dal 2004 in poi?
In un certo senso, niente. A invasione dell'Iraq completata, il ritmo delle grandi manifestazioni è rallentato, e ci siamo tutti dati una calmata. Non essendo un movimento generazionale, non ha senso cercare una spiegazione anagrafica; però nella vita di grandi e piccini esistono dei cicli, e forse chi aveva vissuto l'estate terribile ed entusiasmante del 2001 dopo tre anni era semplicemente stanco. Io per esempio cominciai a sentire una certa insofferenza quando mi resi conto che non c'era ricambio: tre anni dopo eravamo sempre gli stessi, ora si trattava di incrostarci e sopravvivere in attesa di confluire nella successiva ondata, nel successivo movimento di movimenti. Nel frattempo ci furono le amministrative e nella mia pigra città i noglobal arrivarono in Consiglio, addirittura in Giunta, e quello forse fu un altro segno della fine. Più in generale, dopo aver lottato contro la globalizzazione, contro la criminalizzazione e la repressione e contro la guerra, si trattava di passare alla fase propositiva, ma per questo passaggio non eravamo pronti, ammesso che un movimento lo sia. Molte idee sfoggiate a Firenze alla prova dei fatti mostravano la loro scarsa consistenza: mi viene in mente l'esempio del Bilancio Partecipativo: quando ci mettemmo a studiare da vicino la rivoluzionaria proposta della municipalità di Porto Alegre, ci accorgemmo che poteva essere rivoluzionaria, sì, per una cittadinanza analfabeta, e che i bilanci delle nostre amministrazioni comunali o circoscrizionali erano già altrettanto aperti senza nessuna rivoluzione. Andò un po' meglio con la Tobin Tax, perlomeno se ne parla ancora come di qualcosa di serio. Per il resto, continuavano a esserci milioni di buoni motivi per dire di no: no al Tav, no alla Del Molin, no al rifinanziamento delle missioni italiane, no ai periodici sgomberi... ma a quel punto eravamo più o meno tornati al pre-Genova, alle piazze tematiche e un po' autoreferenziali. Poi, se uno vuole, nella vittoria del sì all'ultimo referendum può anche verderci un colpo di coda dei noglobal seguaci di Zanotelli (ma anche dei verdi antinucleari anni'80: in fondo se smettiamo per un attimo di mettere a fuoco le etichette ci rendiamo conto che c'è gente che manifesta da vent'anni per lo stesse cose, anche se - comprensibilmente - ogni tanto cambia berretto).
Insomma è andata così. Poteva andare meglio. Però che sia chiaro: non è stata colpa delle mazzate, anzi. Finché ci sono state mazzate, c'è stata unità di intenti, prontezza di riflessi, determinazione a reagire. Qui mi fermo, perché il passo successivo è lamentarsi che abbiano smesso di darcene, e chiederne altre. E invece no: quello che ci è mancato è la concentrazione e la determinazione per passare al passo successivo, dal movimentismo alla politica. E un'altra cosa che ci è mancata – ma qui partiranno i fischi – sono stati i leader. Per forza, il movimento era antileaderistico e acefalo per sua costituzione. Però un movimento si riconosce anche dai personaggi che riesce a formare e selezionare, e qui sta la nostra vera sconfitta. Non abbiamo creato nessuna classe dirigente; quei pochi leader che avevamo li abbiamo presi in prestito dai centri sociali o dai cobas o dalla LILA. Non ne abbiamo creati di nuovi, e sì che a un certo punto sembrava che nelle nostre file militassero gli intellettuali, gli economisti, i giuristi, i mediattivisti più aggiornati (per quanto farraginosa e caotica, indymedia nel 2001 era lo stato dell'Arte dell'informazione on line). Da tutta questa fucina di talenti non è uscito quasi niente: giusto qualche romanzo, qualche pezzo celebrativo ogni estate verso il venti luglio, tutto qui.
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Un popolo di eroi
18-07-2011, 16:25ho una teoria, memoria del 900PermalinkSiamo noi, ovviamente, gli eroi che salveranno la baracca anche stavolta. Fosse la volta buona, almeno (H1t#82 sull'unita.it, si commenta laggiù).
Ho trovato questo messaggio, che volentieri pubblico:
“Buongiorno, Presidente. Chi le scrive non ha nessuna importanza. Diciamo che sono uno dei milioni di contribuenti onesti di questo Paese.
Uno di quelli che lavora – finché lavoro ce n'è – senza lamentarsi troppo, e non evade le tasse, perché non può, o magari non vuole: pensi che c'è gente che paga ancora persino il canone Rai; ecco, io sono tra questi. Non creda che io lo faccia perché mi piace la Rai. Non so nemmeno io più perché lo faccio. Forse perché quando si è eroi, bisogna esserlo fino in fondo, e Presidente, in questi giorni ho finalmente compreso questa semplice verità: io sono un eroe. Sono il cavaliere senza macchia e senza paura che anche stavolta salverà l'Italia, salverà la moneta unica europea, salverà la faccia ai miei rappresentanti: sono io.
Pagherò tutto io, per gli anni di vacche grasse che ho visto molto da lontano; pagherò ticket e superbolli mentre metto da parte per le vacche magre che invece all'orizzonte si distinguono già benissimo; ma non importa, tanto ci penso io. Sono il nuovo Robin Hood che ruba a sé stesso per dare ai poveri, ma anche ai ricchi che hanno paura di rimetterci qualcosina del loro; senza dimenticare una mancia generosa per lo sceriffo di Nottingham che senza di me non saprebbe dove sbattere la testa. Faccio tutto io, come mio padre vent'anni fa, come suo nonno che si cavò il sangue con la quota novanta. Come vede vengo da una stirpe di eroi. Tutti ignoti, come me.
Pagherò tutto io, per gli anni di vacche grasse che ho visto molto da lontano; pagherò ticket e superbolli mentre metto da parte per le vacche magre che invece all'orizzonte si distinguono già benissimo; ma non importa, tanto ci penso io. Sono il nuovo Robin Hood che ruba a sé stesso per dare ai poveri, ma anche ai ricchi che hanno paura di rimetterci qualcosina del loro; senza dimenticare una mancia generosa per lo sceriffo di Nottingham che senza di me non saprebbe dove sbattere la testa. Faccio tutto io, come mio padre vent'anni fa, come suo nonno che si cavò il sangue con la quota novanta. Come vede vengo da una stirpe di eroi. Tutti ignoti, come me.
In cambio non chiedo certo un monumento. L'unica cosa che pretendo, Presidente, è che tra dieci, tra vent'anni, a mio figlio non sia chiesto lo stesso sacrificio. A lui almeno vorrei fosse concesso il diritto di scegliere, se essere eroe o vivere una vita normale in un Paese non più sull'orlo del baratro. Ma affinché questo succeda, Presidente, occorre che Lei e i suoi uomini si levino di mezzo. Mi spiace, perché Lei mi sembra una brava persona e onesta; ma il sistema politico che rappresenta è marcio alle radici, e probabilmente lo sa. Come sa che noi eroi ignoti non sopporteremo un solo giorno di più lo spettacolo dei privilegi di cui gode la casta dei governanti che ha portato il Paese allo sfascio.
Sciolga le camere, Presidente, indica le elezioni, e lasci che noi eroi ignoti completiamo l'opera – abbiamo salvato il bilancio, salveremo anche la democrazia, se merita d'essere salvata. Ma bisogna farla finita con la politica, con questa politica. Non abbia paura del caos: qualsiasi caos è preferibile agli uomini che ci hanno portato a questo ennesimo disastro. Chiunque verrà dopo di loro, non potrà che essere migliore – persino quell'Umberto Bossi, con quel piglio barbarico, se andasse al potere non potrebbe che fare del bene. Certo, taglierebbe molti uffici inutili, molti enti assurdi, molte teste; tanto meglio. Ma ancora meglio di lui potrebbe fare un imprenditore, uno dei pochi che dal niente è riuscito a mettere insieme un solido impero economico: uno come il cavaliere Silvio Berlusconi, insomma, il fondatore della Fininvest. Se solo accettasse di candidarsi...”
(Fax trovato in una bottiglia al largo di Marina di Ravenna, domenica 17 luglio. Anche se manca la data, tutto lascia supporre che sia stato scritto 19 anni fa, nell'autunno del 1992, mentre il governo presieduto da Giuliano Amato fronteggiava la svalutazione della lira varando la finanziaria “lacrime e sangue” da 93.000 miliardi di lire. Onore all'eroe ignoto, a tutti gli eroi ignoti. Ma beati anche i Paesi che sanno farne a meno). http://leonardo.blogspot.com
Perché ho scelto Scienze Inutili
15-07-2011, 11:06chiudere i licei (con i prof dentro), scuola, universiadePermalinkLa stanzetta della principessa.
Non capita molto spesso ultimamente che una cosa che leggo on line mi faccia pensare parecchio, e quando succede di solito è dello Scorfano. Eppure questo pezzo non dovrebbe fare altro che confermare le mie non originalissime tesi sul sistema educativo superiore italiano. Io sono infatti tra quelli che credono che in Italia si continui a dare troppa importanza ai licei, e soprattutto ai licei classici; che il motivo per cui continuiamo a tenerli aperti e iscriverci i figli abbia più a che fare con un problema di status che con una reale esigenza del mondo del lavoro (ma anche del mondo tout court: nessuno ha bisogno di così tanti latinisti); che questa inerzia culturale ci consegna non solo un enorme bacino di umanisti sottopagati, ma una generale sottovalutazione delle competenze tecniche e scientifiche. E bla e bla e bla, ne abbiamo parlato centinaia di volte.
E quindi lo Scorfano, che insegna in un liceo e non credo condivida la mia tesi, cosa fa? Mi mostra un laureato in lettere col massimo dei voti che stacca biglietti al cinema. Perfetto, no? Il guaio è che in lettere mi ci sono laureato anch'io, ovviamente col massimo dei voti (esistono altri voti oltre al massimo? Se non hai un centodieci quella pergamena non la vai nemmeno a ritirare), e se dopo la laurea non ho staccato biglietti, mi sono capitate anche mansioni più umilianti. Quindi, insomma, si parla di me? Do la colpa alla società per gli errori che io ho commesso? La mia rabbia contro il sistema della scuola media superiore italiana nasce dalla frustrazione di essere diventato quello che sono diventato? Ma io non me la passo così male, in realtà. Ho una cattedra, già da alcuni anni: con quello che succede in questi giorni sono abbastanza contento che Tremonti non me l'abbia ancora portata via, e il giorno che capiterà non sarà una tragedia; nel frattempo ho avuto diverse esperienze lavorative, sono riuscito a portare a termine un dottorato di ricerca e ho persino pubblicato una lunghissima tesi; ho messo su famiglia; e poi che altro c'è? Ah già, tengo un blog che mi dà qualche soddisfazione. Tutto sommato la tana che mi sono scavato in questi anni universalmente grami non mi sembra da disprezzare: anche se sospetto di avere avuto, rispetto ad altri coetanei laureati in lettere, diverse botte di puro culo (e il tempismo di laurearmi in tempo per l'ultimo oceanico concorsone: quello ha fatto la differenza, molto più di tutto quello che posso aver studiato o capito prima o dopo).
Dunque, a questo punto della mia non eccezionale ma nemmeno catastrofica parabola professionale, se vedo un neolaureato in lettere che si lamenta perché non riesce a trovare un lavoro in cui esprimere le sue competenze, cosa gli devo dire? La prima cosa è esattamente quella venuta in mente allo Scorfano, e cioè: Lo sapevi. Lo sapevi benissimo. Te l'avevano detto i genitori, i compagni, perfino gli insegnanti. Perlomeno, a me l'avevano detto davvero tutti: Vai a lettere? Vai a studiare da disoccupato. Punto. La scuola è un brutto mondo e comunque fuori c'è la fila; l'editoria è un miraggio; il giornalismo si impara da un'altra parte. Questi discorsi li abbiamo ascoltati cento, mille volte, eppure ci siamo iscritti a Lettere lo stesso. Cosa c'era di sbagliato in noi? Per prima cosa, avevamo diciott'anni. Ma questo ci scusa fino a un certo punto. A diciott'anni cos'è che non dovremmo sapere? Non sappiamo che dovremo affrancarci dai genitori, metter su famiglia, casa, proteggere i nostri cari da imprevisti, malattie e vecchiaia? In un qualche modo no, non lo sappiamo, altrimenti non ci iscriveremmo a Lettere, che se uno non è ricco di famiglia è oggettivamente una scelta dissennata. Del resto nei centri operosi era la scuola delle signorine di buona famiglia. E noi studenti di Lettere, in fondo, sotto sotto siamo tutti così: signorine di buona famiglia, di cui tutti lodano l'impegno, ma che nessuno si aspetta debbano rendersi utili: al massimo è lodevole che si trovino un modo elegante per occupare il tempo. Ecco, se volete una risposta all'eterna domanda: Perché nelle facoltà di lettere non si nega un trenta a nessuno?, la mia risposta è: ma vuoi negare un trenta a una gentile signorina di buona famiglia che si vede che s'impegna molto, e che comunque non arrecherà alcun danno a chicchessia? Devi essere una belva senza cuore (invece, il più delle volte, dall'altra parte della cattedra c'è una versione precedente, un po' inacidita, della stessa signorina).
Qui secondo me c'è un problema. Forse è il liceo classico. Forse no. Ma insomma se ogni anno migliaia di studenti maturi in tutta Italia fanno questa scelta oggettivamente dissennata, da qualche parte nella loro formazione è mancata una lezione di vita. Una cosa banalissima, secondo me basterebbe anche una mezza giornata, quel classico momento in cui per esempio ti telefona una tizia con cui esci che ha un ritardo e non sa bene cosa fare. Tu ti siedi un attimo a fare due conti e ti rendi conto che almeno in senso tecnico sei già un adulto, che non puoi più scegliere gli indirizzi di studio come si scelgono i film al cinema, che puoi anche laurearti in lettere classiche se ti piacciono tanto, ma probabilmente non ti potrai permettere la villetta suburbana col giardino per il cane e la mansarda per i giochi dei bimbi. Perché tantissimi diciottenni, soprattutto (ma non solo) al liceo, non si siedono brevemente a fare questo ragionamento? Non potrebbe trattarsi di una lacuna nella loro formazione?
Ho ripensato a quel me stesso spensierato che aveva davvero tutta la vita davanti, che poteva provare a diventare un medico o un magistrato e invece s'iscrisse a Lettere. Cosa gli frullava nel cervellino, pure già molto ben coltivato? Non c'era nessuno che poteva dargli buoni consigli? Ho pensato a tutte le persone sagge che conoscevo – che mi apparivano sagge in quel momento, al liceo e fuori. E forse ho capito una cosa. Io non sono cresciuto in un contesto competitivo. Io sono cresciuto in un contesto che faceva tutto il possibile per proteggermi dalla competizione. È vero che persino i nostri prof ci mettevano in guardia dalla facoltà-fucina di disoccupati. Ma lo facevano con una certa dose di ironia, che era poi la vera lezione che ho trattenuto. Cioè, è vero che rischiavamo di finire sulla strada, ma c'era poi qualcosa di male nel finire sulla strada? Gli anni Ottanta erano finiti da un pezzo, c'era la crisi e Amato doveva rastrellare novantaduemilamiliardi di lire per salvare l'euro che ancora non esisteva e già rompeva i coglioni eppure no, non c'era nulla di male a immaginarsi un futuro da dropout. L'importante era essere ricchi dentro.
Cosa significhi essere ricchi dentro credo che lo spieghi meglio di tutti Niccolò Machiavelli in una lettera che è antologizzata in tutti i manuali di letteratura del liceo, quella in cui racconta il suo ingaglioffirsi in un borgo dov'era finito durante un temporaneo rovescio di fortuna, i pomeriggi passati a bere e a giocare le carte eccetera; poi però la sera entrava nel suo studio, e lì tornava un ricco, un sapiente, a suo modo un nobile, che dialogava coi grandi della letteratura e coi potenti della terra, trattandoli da pari. Ecco: invece di attirare la mia pigra attenzione sul fatto che un giorno avrei dovuto mantenere un nucleo famigliare; che un giorno soltanto il mio reddito mi avrebbe difeso dalla miseria e dalla morte; invece di contagiarmi quell'ansia calvinista che ti porta a studiare giorno e notte anche una cosa che non ti piace, o a costruire computer nei garage, al liceo mi insegnarono che non importa quanto mi sarei ingaglioffito di giorno: se studiavo i classici, ci sarebbe sempre stata una stanzetta in cui avrei potuto essere grande, essere nobile, trattare i grandi personaggi alla pari. Se studiavo i classici.
mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
E credo che sia stata quella stanzetta a fare la differenza, almeno nel mio caso. Se avessi studiato legge, avrei potuto condannare un innocente. Se avessi studiato medicina, avrei potuto ammazzare un sano. Ma studiando lettere non avrei mai ammazzato Pirandello; non solo, ma potevo immaginare di essere il suo più grande amico, e certo lui non avrebbe potuto protestare. La stanzetta non è che te la regalavano: dovevi studiare sodo, e io credo di averlo fatto. Ma non quanto deve studiare un veterinario o un architetto. Tanto non dovrò mai curare un cavallo, né disegnare un edificio che resti in piedi. Devo soltanto portare pazienza tutti i giorni, con quell'ironia che è la prima e l'ultima cosa che mi hanno insegnato al liceo, mentre assolvo le incombenze quotidiane che mi assicurano il pane, in attesa di entrare in quella stanzetta dove finalmente sono a tu per tu con Dostoevskij e Fenoglio (peggio per me se preferisco perder tempo con Facci e Merlo), e non c'è più spazio per temere le povertà, o sbigottirmi della morte.
La stanzetta è l'immunità a qualsiasi fallimento che la vita ti riserva, una specie di patto col diavolo: se tu hai paura di non farcela nella vita, ti iscrivi a Lettere e a diciannove anni sei già un perfetto fallito. Da lì in poi puoi solo fare progressi e apprezzarli, come è successo a me.
La stanzetta non è una metafora, esiste davvero. La prima che ho avuto era così piccola che un letto e una scrivania non ci stavano, bisognava scegliere, e io scelsi di dormire sul divano. La seconda era una mansarda, in cui ho ammazzato centinaia di zanzare mentre traducevo libri di cose che non conoscevo, e ogni tanto mi sentivo con David Foster Wallace. Tante volte poi, passando davanti alla mia stessa casa, guardavo in alto e pensavo questo molto strano pensiero: “io sono lì”. La terza è quella dove sto scrivendo adesso. Ma in un certo senso la stanzetta è questo stesso blog. È il posto dove io posso discutere di massimi sistemi senza pudore; posso criticare film o libri o musiche come se ne fossi un esperto, e poi nei commenti la gente dice sei un frustrato. Sono un frustrato? Può darsi, ma la mia è la stessa frustrazione di Niccolò Machiavelli, soffrirla è un onore.
Tutto questo per arrivare a dire che io, se incontrassi come lo Scorfano un neolaureato bigliettaio che si lamenta perché il mercato del lavoro non ha bisogno di lui, dopo qualche minuto di riflessione, gli direi: guarda che ti sei sbagliato. Tu non hai fatto Lettere per trovare un buon lavoro a scuola o nell'editoria. Tu hai fatto Lettere perché è quel corso di studi che dovrebbe farti sentire ricco, ricco dentro, anche se nella vita di tutti i giorni fai il bigliettaio. Dovresti staccare i biglietti spensierato, pensando ad Alceo o Arbasino. E se non hai capito questa cosa, vuol dire che non hai capito nemmeno la prima satira del primo libro delle satire di Orazio; figurati le altre.
Poi scapperei, perché una risposta così altera si merita gli schiaffi. Ma insomma noi nobili italiani, noi principesse di buona famiglia, siamo così. Non c'interessa nulla di quanto ci fruttino i latifondi o i btp: l'estratto conto lo degniamo di uno sguardo distratto, e torniamo nella stanzetta a chiacchierare con Franzen. Il mondo sarà anche pieno di gente più ricca, più elegante, più sana di noi, ma in un qualche modo dalla nostra stanzetta riusciamo a guardarli tutti dall'alto, e nessun destino ci sembra valga veramente il nostro. Siamo fatti così.
Siamo fatti male? Siamo fatti male.
Non capita molto spesso ultimamente che una cosa che leggo on line mi faccia pensare parecchio, e quando succede di solito è dello Scorfano. Eppure questo pezzo non dovrebbe fare altro che confermare le mie non originalissime tesi sul sistema educativo superiore italiano. Io sono infatti tra quelli che credono che in Italia si continui a dare troppa importanza ai licei, e soprattutto ai licei classici; che il motivo per cui continuiamo a tenerli aperti e iscriverci i figli abbia più a che fare con un problema di status che con una reale esigenza del mondo del lavoro (ma anche del mondo tout court: nessuno ha bisogno di così tanti latinisti); che questa inerzia culturale ci consegna non solo un enorme bacino di umanisti sottopagati, ma una generale sottovalutazione delle competenze tecniche e scientifiche. E bla e bla e bla, ne abbiamo parlato centinaia di volte.
E quindi lo Scorfano, che insegna in un liceo e non credo condivida la mia tesi, cosa fa? Mi mostra un laureato in lettere col massimo dei voti che stacca biglietti al cinema. Perfetto, no? Il guaio è che in lettere mi ci sono laureato anch'io, ovviamente col massimo dei voti (esistono altri voti oltre al massimo? Se non hai un centodieci quella pergamena non la vai nemmeno a ritirare), e se dopo la laurea non ho staccato biglietti, mi sono capitate anche mansioni più umilianti. Quindi, insomma, si parla di me? Do la colpa alla società per gli errori che io ho commesso? La mia rabbia contro il sistema della scuola media superiore italiana nasce dalla frustrazione di essere diventato quello che sono diventato? Ma io non me la passo così male, in realtà. Ho una cattedra, già da alcuni anni: con quello che succede in questi giorni sono abbastanza contento che Tremonti non me l'abbia ancora portata via, e il giorno che capiterà non sarà una tragedia; nel frattempo ho avuto diverse esperienze lavorative, sono riuscito a portare a termine un dottorato di ricerca e ho persino pubblicato una lunghissima tesi; ho messo su famiglia; e poi che altro c'è? Ah già, tengo un blog che mi dà qualche soddisfazione. Tutto sommato la tana che mi sono scavato in questi anni universalmente grami non mi sembra da disprezzare: anche se sospetto di avere avuto, rispetto ad altri coetanei laureati in lettere, diverse botte di puro culo (e il tempismo di laurearmi in tempo per l'ultimo oceanico concorsone: quello ha fatto la differenza, molto più di tutto quello che posso aver studiato o capito prima o dopo).
Dunque, a questo punto della mia non eccezionale ma nemmeno catastrofica parabola professionale, se vedo un neolaureato in lettere che si lamenta perché non riesce a trovare un lavoro in cui esprimere le sue competenze, cosa gli devo dire? La prima cosa è esattamente quella venuta in mente allo Scorfano, e cioè: Lo sapevi. Lo sapevi benissimo. Te l'avevano detto i genitori, i compagni, perfino gli insegnanti. Perlomeno, a me l'avevano detto davvero tutti: Vai a lettere? Vai a studiare da disoccupato. Punto. La scuola è un brutto mondo e comunque fuori c'è la fila; l'editoria è un miraggio; il giornalismo si impara da un'altra parte. Questi discorsi li abbiamo ascoltati cento, mille volte, eppure ci siamo iscritti a Lettere lo stesso. Cosa c'era di sbagliato in noi? Per prima cosa, avevamo diciott'anni. Ma questo ci scusa fino a un certo punto. A diciott'anni cos'è che non dovremmo sapere? Non sappiamo che dovremo affrancarci dai genitori, metter su famiglia, casa, proteggere i nostri cari da imprevisti, malattie e vecchiaia? In un qualche modo no, non lo sappiamo, altrimenti non ci iscriveremmo a Lettere, che se uno non è ricco di famiglia è oggettivamente una scelta dissennata. Del resto nei centri operosi era la scuola delle signorine di buona famiglia. E noi studenti di Lettere, in fondo, sotto sotto siamo tutti così: signorine di buona famiglia, di cui tutti lodano l'impegno, ma che nessuno si aspetta debbano rendersi utili: al massimo è lodevole che si trovino un modo elegante per occupare il tempo. Ecco, se volete una risposta all'eterna domanda: Perché nelle facoltà di lettere non si nega un trenta a nessuno?, la mia risposta è: ma vuoi negare un trenta a una gentile signorina di buona famiglia che si vede che s'impegna molto, e che comunque non arrecherà alcun danno a chicchessia? Devi essere una belva senza cuore (invece, il più delle volte, dall'altra parte della cattedra c'è una versione precedente, un po' inacidita, della stessa signorina).
Qui secondo me c'è un problema. Forse è il liceo classico. Forse no. Ma insomma se ogni anno migliaia di studenti maturi in tutta Italia fanno questa scelta oggettivamente dissennata, da qualche parte nella loro formazione è mancata una lezione di vita. Una cosa banalissima, secondo me basterebbe anche una mezza giornata, quel classico momento in cui per esempio ti telefona una tizia con cui esci che ha un ritardo e non sa bene cosa fare. Tu ti siedi un attimo a fare due conti e ti rendi conto che almeno in senso tecnico sei già un adulto, che non puoi più scegliere gli indirizzi di studio come si scelgono i film al cinema, che puoi anche laurearti in lettere classiche se ti piacciono tanto, ma probabilmente non ti potrai permettere la villetta suburbana col giardino per il cane e la mansarda per i giochi dei bimbi. Perché tantissimi diciottenni, soprattutto (ma non solo) al liceo, non si siedono brevemente a fare questo ragionamento? Non potrebbe trattarsi di una lacuna nella loro formazione?
Ho ripensato a quel me stesso spensierato che aveva davvero tutta la vita davanti, che poteva provare a diventare un medico o un magistrato e invece s'iscrisse a Lettere. Cosa gli frullava nel cervellino, pure già molto ben coltivato? Non c'era nessuno che poteva dargli buoni consigli? Ho pensato a tutte le persone sagge che conoscevo – che mi apparivano sagge in quel momento, al liceo e fuori. E forse ho capito una cosa. Io non sono cresciuto in un contesto competitivo. Io sono cresciuto in un contesto che faceva tutto il possibile per proteggermi dalla competizione. È vero che persino i nostri prof ci mettevano in guardia dalla facoltà-fucina di disoccupati. Ma lo facevano con una certa dose di ironia, che era poi la vera lezione che ho trattenuto. Cioè, è vero che rischiavamo di finire sulla strada, ma c'era poi qualcosa di male nel finire sulla strada? Gli anni Ottanta erano finiti da un pezzo, c'era la crisi e Amato doveva rastrellare novantaduemilamiliardi di lire per salvare l'euro che ancora non esisteva e già rompeva i coglioni eppure no, non c'era nulla di male a immaginarsi un futuro da dropout. L'importante era essere ricchi dentro.
Cosa significhi essere ricchi dentro credo che lo spieghi meglio di tutti Niccolò Machiavelli in una lettera che è antologizzata in tutti i manuali di letteratura del liceo, quella in cui racconta il suo ingaglioffirsi in un borgo dov'era finito durante un temporaneo rovescio di fortuna, i pomeriggi passati a bere e a giocare le carte eccetera; poi però la sera entrava nel suo studio, e lì tornava un ricco, un sapiente, a suo modo un nobile, che dialogava coi grandi della letteratura e coi potenti della terra, trattandoli da pari. Ecco: invece di attirare la mia pigra attenzione sul fatto che un giorno avrei dovuto mantenere un nucleo famigliare; che un giorno soltanto il mio reddito mi avrebbe difeso dalla miseria e dalla morte; invece di contagiarmi quell'ansia calvinista che ti porta a studiare giorno e notte anche una cosa che non ti piace, o a costruire computer nei garage, al liceo mi insegnarono che non importa quanto mi sarei ingaglioffito di giorno: se studiavo i classici, ci sarebbe sempre stata una stanzetta in cui avrei potuto essere grande, essere nobile, trattare i grandi personaggi alla pari. Se studiavo i classici.
mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
E credo che sia stata quella stanzetta a fare la differenza, almeno nel mio caso. Se avessi studiato legge, avrei potuto condannare un innocente. Se avessi studiato medicina, avrei potuto ammazzare un sano. Ma studiando lettere non avrei mai ammazzato Pirandello; non solo, ma potevo immaginare di essere il suo più grande amico, e certo lui non avrebbe potuto protestare. La stanzetta non è che te la regalavano: dovevi studiare sodo, e io credo di averlo fatto. Ma non quanto deve studiare un veterinario o un architetto. Tanto non dovrò mai curare un cavallo, né disegnare un edificio che resti in piedi. Devo soltanto portare pazienza tutti i giorni, con quell'ironia che è la prima e l'ultima cosa che mi hanno insegnato al liceo, mentre assolvo le incombenze quotidiane che mi assicurano il pane, in attesa di entrare in quella stanzetta dove finalmente sono a tu per tu con Dostoevskij e Fenoglio (peggio per me se preferisco perder tempo con Facci e Merlo), e non c'è più spazio per temere le povertà, o sbigottirmi della morte.
La stanzetta è l'immunità a qualsiasi fallimento che la vita ti riserva, una specie di patto col diavolo: se tu hai paura di non farcela nella vita, ti iscrivi a Lettere e a diciannove anni sei già un perfetto fallito. Da lì in poi puoi solo fare progressi e apprezzarli, come è successo a me.
La stanzetta non è una metafora, esiste davvero. La prima che ho avuto era così piccola che un letto e una scrivania non ci stavano, bisognava scegliere, e io scelsi di dormire sul divano. La seconda era una mansarda, in cui ho ammazzato centinaia di zanzare mentre traducevo libri di cose che non conoscevo, e ogni tanto mi sentivo con David Foster Wallace. Tante volte poi, passando davanti alla mia stessa casa, guardavo in alto e pensavo questo molto strano pensiero: “io sono lì”. La terza è quella dove sto scrivendo adesso. Ma in un certo senso la stanzetta è questo stesso blog. È il posto dove io posso discutere di massimi sistemi senza pudore; posso criticare film o libri o musiche come se ne fossi un esperto, e poi nei commenti la gente dice sei un frustrato. Sono un frustrato? Può darsi, ma la mia è la stessa frustrazione di Niccolò Machiavelli, soffrirla è un onore.
Tutto questo per arrivare a dire che io, se incontrassi come lo Scorfano un neolaureato bigliettaio che si lamenta perché il mercato del lavoro non ha bisogno di lui, dopo qualche minuto di riflessione, gli direi: guarda che ti sei sbagliato. Tu non hai fatto Lettere per trovare un buon lavoro a scuola o nell'editoria. Tu hai fatto Lettere perché è quel corso di studi che dovrebbe farti sentire ricco, ricco dentro, anche se nella vita di tutti i giorni fai il bigliettaio. Dovresti staccare i biglietti spensierato, pensando ad Alceo o Arbasino. E se non hai capito questa cosa, vuol dire che non hai capito nemmeno la prima satira del primo libro delle satire di Orazio; figurati le altre.
Poi scapperei, perché una risposta così altera si merita gli schiaffi. Ma insomma noi nobili italiani, noi principesse di buona famiglia, siamo così. Non c'interessa nulla di quanto ci fruttino i latifondi o i btp: l'estratto conto lo degniamo di uno sguardo distratto, e torniamo nella stanzetta a chiacchierare con Franzen. Il mondo sarà anche pieno di gente più ricca, più elegante, più sana di noi, ma in un qualche modo dalla nostra stanzetta riusciamo a guardarli tutti dall'alto, e nessun destino ci sembra valga veramente il nostro. Siamo fatti così.
Siamo fatti male? Siamo fatti male.
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Il Lodo Ligabue
11-07-2011, 20:07Emilia paranoica, Ligabue, racconti, ucroniePermalinkLe persone che non siamo diventate.
Stavo cercando di inventarmi un'ucronia, sapete, una realtà alternativa, non la solita dove Hitler vince la guerra; una cosa un po' più verosimile, del tipo: la CIR nel 1991 si prende la Mondadori, magari riesce anche a ottenere un'emittenza televisiva, la Fininvest perde smalto e quando arriva Mani Pulite Berlusconi è già decotto. Di conseguenza noi oggi saremmo... boh, una nazione normale? Una dittatura del popolo con gigantografie di Scalfari su tutti i muri? O viceversa Scalfari sarebbe caduto e dimenticato come Trotskij? Ma faccio molta fatica, non è come Hitler e il nazifascismo, una foto in bianco e nero da osservare da fuori. Questa è una foto a colori, e in più ci sono dentro anch'io, non riesco a mantenere il necessario distacco, voglio dire, nel 1991 ero quasi maggiorenne, andavo già in giro, facevo cose.
Oddio, “cose”.
In realtà l'estate 1991 è un angolo buio, non c'è neanche un Mondiale o un Europeo per aggrapparsi al ricordo delle partite. Tutto quello che riesco a ricostruire è che avevo comprato un biglietto per un concerto di un giovane cantautore rock di Correggio che l'anno prima mi aveva piacevolmente sorpreso – non è che andassi pazzo per il rock italiano, però il primo disco di questo tizio era la fotografia precisa di quello che stavo facendo io e i miei amici in quel periodo, ovvero niente.
Ma un niente molto inquieto, che cominciava alle ventuno nel parcheggio della parrocchia e che poteva portare in una pizzeria dall'altra parte della provincia, e da lì in una birreria che stava magari nella provincia di fianco, e poi a far la coda per entrare in una disco magari in un'altra regione, magari per rompersi le palle prima di entrare perché dai, ventimila lire e sono già le tre, e finire in un'altra birreria in un'altra provincia ancora, se non era già l'ora dei bomboloni in un forno ad altri cento km di distanza – insomma, in quel periodo la sera, più che andare in pizzeria, o in birreria, o in disco, si stava in macchina. Per ore intere, ad ascoltare musica con impianti stereo spesso più soddisfacenti di quelli che avevamo in casa, come a dire che alla fine le brevi consumazioni nei pub di Ravarino o Gualtieri non erano che pretesti, scuse per aggiungere chilometri alla serata. E questo nuovo rocker di Correggio, imparato a memoria sui sedili posteriori degli amici che avevano la patente, ecco, non è che suonasse così originale neanche allora, al massimo si poteva apprezzare che non cercasse di copiare Vasco; che partendo da un accento simile fosse già riuscito a costruire un birignao tutto suo. Ma soprattutto che parlasse di noi, esattamente di noi, che ci fornisse polaroid non importa quanto mosse o saturate della nostra vita banalissima e inquieta, e insomma, io venticinque sacchi per il suo concerto li avevo staccati, ma in realtà era anche e soprattutto una scusa per vedere la Franca.
Perché quando arrivava luglio e la scuola era terminata da un pezzo, e le corriere non si prendevano più, le persone che ti eri abituato a vedere tutti i giorni diventavano improvvisamente ricordi lontani (no cellulari, no facebook), e l'idea di rivederle diventava un miracolo, un'epifania, la sola fantasia di poterle riavere per un istante nel campo visivo ti rendeva capace di espedienti astuti e temerari, o viceversa penosi e ridicoli, come comprare un biglietto per Ligabue senza avere la macchina per andarci. Nessuno dei miei amici mi avrebbe accompagnato, non so perché poi: probabilmente erano troppo tarantolati, troppo schiavi dell'inquietudine del motore a scoppio per accettare le costrizioni di un concerto, il dover restare bloccati nella stessa folla per un'oretta senza poter girare i tacchi in qualsiasi istante “O raga mi son rotto le palle, andiamo a Pievepelago che c'è un posto dove hanno la birra non filtrata?” E un po' li capisco, in fondo sono anch'io così. Quando non sono innamorato.
Ecco (comincio a ricordare) io nell'estate del 1991, mentre De Benedetti e Berlusconi si giocavano la Mondadori e il destino dell'industria culturale, ero sbandato perso per la Franca, totalmente drogato di quella cosa potentissima che è l'assenza, dopo mesi e anni che avevo avuto per parlarle invece di far lo scemo con Baraldi sui sedili posteriori, poi arriva l'estate del 1991 e magari non avevo neanche il numero del suo fisso. Ma Ligabue a Nonantola non se lo sarebbe perso. Di questo ero sicuro, e di nient'altro: Ligabue le piaceva, l'iscrizione in uniposca sopra la tasca del suo zainetto non mentiva e soprattutto non potevano mentire le foto appiccicate sulle pagine estive della sua smemo (intercettata da Baraldi durante una innocente finta colluttazione sui seggiolini). Oggi, ripensando al primo tizio con cui si mise (e al tizio con cui si mise due anni dopo, il padre se non sbaglio dei suoi quattro cattolicissimi figli, ma potrei aver perso il conto) mi sembra evidente ciò che nel 1991 non mi attraversava nemmeno per sbaglio il cervello, ovvero: Ligabue le piaceva soprattutto in quanto uomo; le piaceva quel tipo di vitello emiliano con quell'aria da sventragalline a riposo, con quell'esistenzialismo alla Lupo Alberto, per cui è sempre colpa della sfiga, è Dio che ce l'ha con me, ma se tu insisti baby mi converto, quel tizio che a ventisei anni ne mostra trentasei ma poi inspiegabilmente si blocca lì, quindi di recente devo averlo sorpassato a destra. Non che abbia molta voglia di controllare.
Dunque a Franca piacevano quei tipi lì, questo mi è terribilmente chiaro solo oggi, però voglio dire, non è detto, uno passa anche trent'anni di vita senza assaggiare ghiaccioli all'anice, poi scopre che esistono e diventa matto e ne vuole tutti i giorni, sì, cose di questo tipo succedono. Io coi miei amori de lonh ero probabilmente un tizio ridicolo nel 1991, e magari per certi versi lo sono anche adesso, però mi piace pensare che avrei potuto essere il ghiacciolo all'anice della Franca, se non fosse stato per Baraldi che la sera mi dice: Ma sei sfigato? Come ci vuoi andare a Nonantola, in bici? Dai qua il biglietto, valà. E cala trenta sacchi, un Return On Investment immediato del dodici per cento, ma non fu quello il motivo per cui capitolai. Fu l'incubo della Sfiga, fu la vergogna di avere un biglietto e non avere nemmeno un vespino, qualcosa di dignitoso, niente: pedalare nella notte fino a Nonantola e ritorno non sarebbe stato un problema, ma era una cosa che fanno gli scemi del villaggio, non gli innamorati.
“Ma a te non faceva cagare Ligabue, scusa”.
“Non è per me, è una mia (occhiolino) amica, ce la porto”.
“Allora te ne servono due”.
“Lei ce lo ha già, però non ha nessuno che la accompagni, (occhiolino) capisci”.
Baraldi adesso te lo posso dire, tu mi hai rovinato la vita io ti odio, con quel tuo perpetuo occhiolino e il tuo continuo alzare l'asticella sul baratro della Sfiga, io quella notte sarei sfrecciato nella luce del crepuscolo sulla mia viscontea bordeaux, perché no?, l'aria mi avrebbe phonato i capelli dando loro il volume ottimale, asciugando nel contempo il sudore senza lasciare aloni sulla polo, e sarei arrivato in tempo per occupare le prime file e trovarci la Franca, magari per lasciarle il posto davanti alla spia del solista, e lei avrebbe sgranato gli occhi con quel riflesso condizionato di cui era inconsapevole, e mi avrebbe detto Ma cosa ci fai qui? Sei da solo? Sei un matto!, ma con quel sarcasmo bonario che amavo alla follia anche se ci avevo messo quattro anni per accorgermene, e poi avrebbe preso il mio posto passandomi davanti e lasciandomi a pochi centimetri dai suoi dolcissimi fianchi per tutto il concerto, che mi auguravo lunghissimo – ma tu mi hai corrotto, tu, tu hai messo su un piatto i miei sogni d'amore e sull'altro trentamila lire, tu hai comprato la mia innocenza, il mio entusiasmo giovanile, con un ROI immediato del dodici per cento (cinque sacchi), mi hai fatto sentire irrimediabilmente sporco. Ma non è neanche questo il problema.
Il problema è che, come ben immagina il lettore a questo punto, la ragazza che hai accompagnato al concerto era proprio la Franca, e che la notte stessa sotto il ponte di Navicello l'hai sverginata sulla tua Tipo Diesel rossa, con Ba-ba-bambolina in sottofondo, tu con la tua estetica da bagnino nato per sbaglio in questo luogo così ingiustamente remoto al mare: tu non mi hai semplicemente spezzato il cuore, tu lo hai trasformato in antimateria, c'è una vescica di nulla che pulsa da allora nel mio petto, io Franca l'avrei amata sul serio, non avevo neanche bisogno di convertirmi e credere al Vangelo, io quattro figli glieli avrei fatti sulla parola, saremmo andati a vivere in una di quelle villette a schiera di San Prospero che non costano tanto e non sono poi così male, e insomma a questo punto sarei una persona molto diversa. Non saprei neanche dirti che persona sarei.
Andrò in tribunale, a chiedere l'indennizzo per la persona che non sono diventato nel 1991. Cinquecento milioni non li spunto, ma un paio, chissà. Insomma, è una vita intera, mica briciole.
(è un racconto, Franca e Baraldi non sono mai esistiti, neanche io del resto, e magari non è esistito neanche Liguabue, non so, non ho molta voglia di controllare).
Stavo cercando di inventarmi un'ucronia, sapete, una realtà alternativa, non la solita dove Hitler vince la guerra; una cosa un po' più verosimile, del tipo: la CIR nel 1991 si prende la Mondadori, magari riesce anche a ottenere un'emittenza televisiva, la Fininvest perde smalto e quando arriva Mani Pulite Berlusconi è già decotto. Di conseguenza noi oggi saremmo... boh, una nazione normale? Una dittatura del popolo con gigantografie di Scalfari su tutti i muri? O viceversa Scalfari sarebbe caduto e dimenticato come Trotskij? Ma faccio molta fatica, non è come Hitler e il nazifascismo, una foto in bianco e nero da osservare da fuori. Questa è una foto a colori, e in più ci sono dentro anch'io, non riesco a mantenere il necessario distacco, voglio dire, nel 1991 ero quasi maggiorenne, andavo già in giro, facevo cose.
Oddio, “cose”.
In realtà l'estate 1991 è un angolo buio, non c'è neanche un Mondiale o un Europeo per aggrapparsi al ricordo delle partite. Tutto quello che riesco a ricostruire è che avevo comprato un biglietto per un concerto di un giovane cantautore rock di Correggio che l'anno prima mi aveva piacevolmente sorpreso – non è che andassi pazzo per il rock italiano, però il primo disco di questo tizio era la fotografia precisa di quello che stavo facendo io e i miei amici in quel periodo, ovvero niente.
Ma un niente molto inquieto, che cominciava alle ventuno nel parcheggio della parrocchia e che poteva portare in una pizzeria dall'altra parte della provincia, e da lì in una birreria che stava magari nella provincia di fianco, e poi a far la coda per entrare in una disco magari in un'altra regione, magari per rompersi le palle prima di entrare perché dai, ventimila lire e sono già le tre, e finire in un'altra birreria in un'altra provincia ancora, se non era già l'ora dei bomboloni in un forno ad altri cento km di distanza – insomma, in quel periodo la sera, più che andare in pizzeria, o in birreria, o in disco, si stava in macchina. Per ore intere, ad ascoltare musica con impianti stereo spesso più soddisfacenti di quelli che avevamo in casa, come a dire che alla fine le brevi consumazioni nei pub di Ravarino o Gualtieri non erano che pretesti, scuse per aggiungere chilometri alla serata. E questo nuovo rocker di Correggio, imparato a memoria sui sedili posteriori degli amici che avevano la patente, ecco, non è che suonasse così originale neanche allora, al massimo si poteva apprezzare che non cercasse di copiare Vasco; che partendo da un accento simile fosse già riuscito a costruire un birignao tutto suo. Ma soprattutto che parlasse di noi, esattamente di noi, che ci fornisse polaroid non importa quanto mosse o saturate della nostra vita banalissima e inquieta, e insomma, io venticinque sacchi per il suo concerto li avevo staccati, ma in realtà era anche e soprattutto una scusa per vedere la Franca.
Perché quando arrivava luglio e la scuola era terminata da un pezzo, e le corriere non si prendevano più, le persone che ti eri abituato a vedere tutti i giorni diventavano improvvisamente ricordi lontani (no cellulari, no facebook), e l'idea di rivederle diventava un miracolo, un'epifania, la sola fantasia di poterle riavere per un istante nel campo visivo ti rendeva capace di espedienti astuti e temerari, o viceversa penosi e ridicoli, come comprare un biglietto per Ligabue senza avere la macchina per andarci. Nessuno dei miei amici mi avrebbe accompagnato, non so perché poi: probabilmente erano troppo tarantolati, troppo schiavi dell'inquietudine del motore a scoppio per accettare le costrizioni di un concerto, il dover restare bloccati nella stessa folla per un'oretta senza poter girare i tacchi in qualsiasi istante “O raga mi son rotto le palle, andiamo a Pievepelago che c'è un posto dove hanno la birra non filtrata?” E un po' li capisco, in fondo sono anch'io così. Quando non sono innamorato.
Ecco (comincio a ricordare) io nell'estate del 1991, mentre De Benedetti e Berlusconi si giocavano la Mondadori e il destino dell'industria culturale, ero sbandato perso per la Franca, totalmente drogato di quella cosa potentissima che è l'assenza, dopo mesi e anni che avevo avuto per parlarle invece di far lo scemo con Baraldi sui sedili posteriori, poi arriva l'estate del 1991 e magari non avevo neanche il numero del suo fisso. Ma Ligabue a Nonantola non se lo sarebbe perso. Di questo ero sicuro, e di nient'altro: Ligabue le piaceva, l'iscrizione in uniposca sopra la tasca del suo zainetto non mentiva e soprattutto non potevano mentire le foto appiccicate sulle pagine estive della sua smemo (intercettata da Baraldi durante una innocente finta colluttazione sui seggiolini). Oggi, ripensando al primo tizio con cui si mise (e al tizio con cui si mise due anni dopo, il padre se non sbaglio dei suoi quattro cattolicissimi figli, ma potrei aver perso il conto) mi sembra evidente ciò che nel 1991 non mi attraversava nemmeno per sbaglio il cervello, ovvero: Ligabue le piaceva soprattutto in quanto uomo; le piaceva quel tipo di vitello emiliano con quell'aria da sventragalline a riposo, con quell'esistenzialismo alla Lupo Alberto, per cui è sempre colpa della sfiga, è Dio che ce l'ha con me, ma se tu insisti baby mi converto, quel tizio che a ventisei anni ne mostra trentasei ma poi inspiegabilmente si blocca lì, quindi di recente devo averlo sorpassato a destra. Non che abbia molta voglia di controllare.
Dunque a Franca piacevano quei tipi lì, questo mi è terribilmente chiaro solo oggi, però voglio dire, non è detto, uno passa anche trent'anni di vita senza assaggiare ghiaccioli all'anice, poi scopre che esistono e diventa matto e ne vuole tutti i giorni, sì, cose di questo tipo succedono. Io coi miei amori de lonh ero probabilmente un tizio ridicolo nel 1991, e magari per certi versi lo sono anche adesso, però mi piace pensare che avrei potuto essere il ghiacciolo all'anice della Franca, se non fosse stato per Baraldi che la sera mi dice: Ma sei sfigato? Come ci vuoi andare a Nonantola, in bici? Dai qua il biglietto, valà. E cala trenta sacchi, un Return On Investment immediato del dodici per cento, ma non fu quello il motivo per cui capitolai. Fu l'incubo della Sfiga, fu la vergogna di avere un biglietto e non avere nemmeno un vespino, qualcosa di dignitoso, niente: pedalare nella notte fino a Nonantola e ritorno non sarebbe stato un problema, ma era una cosa che fanno gli scemi del villaggio, non gli innamorati.
“Ma a te non faceva cagare Ligabue, scusa”.
“Non è per me, è una mia (occhiolino) amica, ce la porto”.
“Allora te ne servono due”.
“Lei ce lo ha già, però non ha nessuno che la accompagni, (occhiolino) capisci”.
Baraldi adesso te lo posso dire, tu mi hai rovinato la vita io ti odio, con quel tuo perpetuo occhiolino e il tuo continuo alzare l'asticella sul baratro della Sfiga, io quella notte sarei sfrecciato nella luce del crepuscolo sulla mia viscontea bordeaux, perché no?, l'aria mi avrebbe phonato i capelli dando loro il volume ottimale, asciugando nel contempo il sudore senza lasciare aloni sulla polo, e sarei arrivato in tempo per occupare le prime file e trovarci la Franca, magari per lasciarle il posto davanti alla spia del solista, e lei avrebbe sgranato gli occhi con quel riflesso condizionato di cui era inconsapevole, e mi avrebbe detto Ma cosa ci fai qui? Sei da solo? Sei un matto!, ma con quel sarcasmo bonario che amavo alla follia anche se ci avevo messo quattro anni per accorgermene, e poi avrebbe preso il mio posto passandomi davanti e lasciandomi a pochi centimetri dai suoi dolcissimi fianchi per tutto il concerto, che mi auguravo lunghissimo – ma tu mi hai corrotto, tu, tu hai messo su un piatto i miei sogni d'amore e sull'altro trentamila lire, tu hai comprato la mia innocenza, il mio entusiasmo giovanile, con un ROI immediato del dodici per cento (cinque sacchi), mi hai fatto sentire irrimediabilmente sporco. Ma non è neanche questo il problema.
Il problema è che, come ben immagina il lettore a questo punto, la ragazza che hai accompagnato al concerto era proprio la Franca, e che la notte stessa sotto il ponte di Navicello l'hai sverginata sulla tua Tipo Diesel rossa, con Ba-ba-bambolina in sottofondo, tu con la tua estetica da bagnino nato per sbaglio in questo luogo così ingiustamente remoto al mare: tu non mi hai semplicemente spezzato il cuore, tu lo hai trasformato in antimateria, c'è una vescica di nulla che pulsa da allora nel mio petto, io Franca l'avrei amata sul serio, non avevo neanche bisogno di convertirmi e credere al Vangelo, io quattro figli glieli avrei fatti sulla parola, saremmo andati a vivere in una di quelle villette a schiera di San Prospero che non costano tanto e non sono poi così male, e insomma a questo punto sarei una persona molto diversa. Non saprei neanche dirti che persona sarei.
Andrò in tribunale, a chiedere l'indennizzo per la persona che non sono diventato nel 1991. Cinquecento milioni non li spunto, ma un paio, chissà. Insomma, è una vita intera, mica briciole.
(è un racconto, Franca e Baraldi non sono mai esistiti, neanche io del resto, e magari non è esistito neanche Liguabue, non so, non ho molta voglia di controllare).
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