L'egiziano con la balalaika

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Omar Sharif - che era nato Michel Demitri, pensate, Demitri Chalhoub, nel 1932 ad Alessandria d'Egitto in una famiglia melchita (cattolica di rito bizantino), ma poi si convertì all'islam e divenne Omar Sharif per amore dell'attrice Faten Hamama, ma poi si innamorò di Barbara Streisland sul set di Funny Lady proprio all'indomani della Guerra dei Sei Giorni creando una crisi diplomatica, Omar Sharif, dicevo, era una di quelle facce che non sembravano americane, e quindi a quei tempi si potevano usare indifferentemente per qualsiasi altra nazionalità. Come Ernest Borgnine, o soprattutto Anthony Quinn, plausibile sia da greco che da eschimese che da emiro, Sharif approdò a Hollywood per fare uno sceicco e due anni dopo era un prete spagnolo durante la guerra civile. Nel '68 fu arciduca d'Austria, l'anno dopo Che Guevara. Nel '65 era stato Gengis Khan e il dottor Zivago, il personaggio che lo rese una star e che avrebbe dovuto essere interpretato da O'Toole. Lo stesso Sharif non ambiva a tanto: amava il romanzo e si era proposto per la parte di Pasha Antipov (un Gengis Khan in locomotiva).

Il casting del dottor Zivago è una cosa che fa girar la testa. Il laido Komarovski avrebbe potuto essere Marlon Brando (ma sarebbe stato meglio di Rod Steiger? Non ne sono così sicuro). Lara avrebbe potuto essere Sofia Loren - che era poi il motivo per cui Ponti si era preso i diritti del film, ma Lean temeva che non sarebbe stata credibile nei panni iniziali di giovane educanda, un anno dopo essere stata la madre dei tre figli di Filomena Marturano, Audrey Hepburn avrebbe potuto essere Tonya invece che Geraldine Chaplin. Paul Newman avrebbe potuto essere il dottore. Anche Michael Caine fece un provino - o forse aiutò soltanto l'amica Julie Andrews a fare il suo, poi vide quello di Sharif e disse a Lean di scritturarlo. Un grande attore egiziano, nei panni di un medico e poeta russo. Oggi nessun regista oserebbe fare qualcosa del genere in una grande produzione, ed è un peccato. O'Toole sarebbe stato più credibile, ma non so quanto avrei tremato per lui che si specchia assiderato nella dacia. Sharif regalò Zivago a tutto il mondo, è banale dirlo ma è così. Della manciata di Sharif che ho incontrato a scuola, almeno uno so che deve il nome proprio a lui.

Zivago è un film che guardo più o meno una volta all'anno - di solito a scuola. Il comunismo reale è uno degli argomenti più difficili da spiegare a gente che è nata più di dieci anni dopo la caduta del muro di Berlino. La difficoltà principale sta nell'immaginare un regime economico diverso, una cosa che oggi non esiste da nessuna parte nel mondo a parte isole o penisole esotiche. Dopo alcuni tentativi ho scoperto che i film che funzionano meglio sono Goodbye Lenin e Zivago (sì che Reds mi piaceva tantissimo, ma non regge). C'è nelle tre ore di Zivago almeno una trentina di minuti che sono una lezione di storia di terza media, pura e semplice: la scena dei disertori che diventano rivoluzionari, ovviamente, e quella altrettanto celebre in cui il dottore torna a casa e scopre che è stata collettivizzata (è anche notevole quel che riesce a fare Klaus Kinski con tre minuti a disposizione). Lì, e altrove, ho la sensazione che più di Pasternak sia merito di Robert Bolt, che riesce a dare allo spettatore anche digiuno di Storia tutti i riassunti necessari.

Ma nel film c'è tantissimo altro. Lara è una vittima di molestie, anche psicologiche (il laido Komarovski le fa credere di essere stata consenziente). Magari sugli stessi argomenti ci sono film più recenti e aggiornati, ma a volte mi domando se il melò non colpisca più in profondo, in territori preconsci. È pieno di Komarovski là fuori ed è tempo che le ragazze lo sappiano. I nomi poi sono difficili per cui invece di Komarovski lo chiamiamo Il Vecchio Porco. Ci sono frasi bellissime, che in realtà non so a memoria per cui magari le sbaglio: "non abbiate fretta", "canteranno meglio dopo la rivoluzione",  "chi è felice non parte volontario", "è notato, il tuo atteggiamento è notato", "e comunque avevo ucciso uomini  migliori di me", e ovviamente, "ci sono due tipi di donne" e "ci sono due tipi di uomo". Ora che ci penso, Sharif non ne pronuncia nessuna - e dovrebbe essere il poeta. È un'anima bella sballottolata dalla Storia in un paesaggio enorme. È un buon medico ma questo passa in secondo piano rispetto all'ingenuità con cui affronta tutto quello che gli succede. Mi capita di solito di calarmi nei panni di tutti i personaggi maschili tranne il suo. Siamo stati tutti idealisti come Antipov (per fortuna nessuna rivoluzione ci ha dato un'armata a disposizione), burocrati rassegnati come il fratello di Zivago, e invecchiando metteremo su la pancia e il cinismo del porco Komarovski (per poi rimbecillire come il papà di Tonya); siamo quell'altro tipo di uomo, quello che l'umanità finge di disprezzare ma in realtà produce in serie. Siamo fatti tutti di quella creta. Questo non ci impedisce di voler bene a Zivago, mentre porta a casa tre assi schiodate a uno steccato, e non è nemmeno in grado di mentire. Forse avremmo voluto ugualmente bene a O'Toole, ma... no. Doveva essere Omar Sharif.
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Nel tempo si viaggia da soli

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Predestination (Michael e Peter Spierig, 2014)

Bisogna trovare quello che è tornato indietro nel tempo
per impedire che quei cappelli andassero di moda e
fermarlo (lei è bravissima comunque).
Per noi che ci muoviamo liberamente in tre dimensioni - mentre la quarta ci sposta inesorabilmente in una sola direzione - un cerchio è semplicemente l'insieme di punti equidistanti dal suo centro, senza inizio né fine. Immagina ora che esistano creature bidimensionali, in grado di pensare e guardarsi attorno, ma che percepiscano la Larghezza come noi percepiamo il Tempo: qualcosa che si può percorrere soltanto in una direzione. Intorno a loro vedrebbero soltanto filamenti che si avvicinano e allontanano. Non sarebbero in grado di immaginare un cerchio, o forse sì, ma nel suo tornare al punto di partenza vedrebbero qualcosa di mostruoso, di contronatura. La stessa cosa proviamo noi di fronte a un fenomeno che sembra causa o conseguenza di sé stesso - lo rifiutiamo. Siamo abituati a vedere gli eventi allontanarsi e avvicinarsi a noi, e abbiamo imparato a descriverli in termini di causa ed effetto, di prima e di dopo. Qualcuno a volte riesce ad astrarsi abbastanza da immaginare che esista un'ulteriore dimensione, dalla quale anche il Tempo si possa osservare da più punti di vista. Da lì forse scopriremmo che anche le catene filiformi di eventi in cui siamo avvolti, in realtà sono loop circolari: che causa ed effetto non sono che archi degli stessi cerchi; che tutto accade perché tutto accade, nello stesso spazio-momento. È quello che alcuni chiamano predestinazione.

Predestination è un film australiano tratto da un racconto di Robert Heinlein che fareste bene a non aver letto, o ad aver dimenticato. Un agente segreto (Ethan Hawke) viaggia nel tempo per sventare gli attentati di un terrorista che viaggia pure lui nel tempo e che riesce sempre a prevenirlo, e a questo punto o vi siete già distratti, o siete appassionati di paradossi temporali e avete già formulato il sospetto più ovvio.

Questo è il principale problema di Predestination e in generale di tutto il cinema di fantascienza, che pure in questi anni ci sta regalando soddisfazioni non piccole: il fatto di rivolgersi a un pubblico già selezionato ed esigente, che conosce i trucchi meglio di chi li mette in scena - non è come l'horror; in sala non sono tutti adolescenti a bocca aperta incapaci di rendersi conto che Bruce Willis è un fantasma anche se nessuno gli rivolge mai la parola. Anche se non conosci il racconto originale, persino se ignori Heinlein e la sua ossessione per i loop temporali, se ti piace la fantascienza hai l'occhio allenato per queste cose - e dopo dieci minuti di girato hai già capito quello che i gemelli Spierig vorrebbero rivelarti al novantesimo. (Continua su +eventi!)

Il film resta ugualmente godibile, un bell’episodio lungo di Ai Confini della Realtà. Gli Spierig non sono i Wachowski ma hanno mutuato qualcosa della loro follia, nel bene e nel male – una fascinazione per l’androgino e la metamorfosi del corpo che è ancora merce rara, ma che purtroppo anche qui come in Cloud Atlas non riesce a tradursi in forme cinematograficamente plausibili: anche se in questo film non ci sono trucchi altrettanto imbarazzanti, la pur brava Sarah Snook semplicemente non è abbastanza credibile nei panni maschili che si trova addosso per metà film. In compenso la macchina del tempo è la più minimal mai vista al cinema, e forse anche la più elegante e suggestiva. Il film si mantiene per una buona metà estremamente aderente al racconto di Heinlein, senza nemmeno correggerne il sessismo molto anni Cinquanta, a costo di disorientare lo spettatore meno esperto che si ritrova in un passato alternativo con cadetti spaziali che quando fu descritto era semplicemente un futuro prossimo. Poi, cercando di confondere le acque, i gemelli scelgono di raddoppiare l’intreccio già arzigogolato, aggiungendo riferimenti al terrorismo che invece di attualizzare la storia la sospendono ancora di più nello spazio e nel tempo: non è che torni tutto, e se vi ha innervosito la logica circolare di Interstellar forse è meglio che vi teniate alla larga. Se invece qualche volta vi viene di pensare a come dev’essere il Tempo visto da una quinta dimensione, Predestination è il film fatto per voi. O forse eravate voi fatti per lui. Probabilmente vi verrà voglia di vederlo e rivederlo, anche al contrario.

(Quando sono entrato in sala ero solo. Se c’è un film da guardare da soli, è questo. Dopo un po’ è entrato qualcun altro, qualcuno che ho evitato rigorosamente di osservare. Non so se era un uomo o una donna, ma ho avuto la sensazione che mi somigliasse).

Predestination è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:30 e alle 22:45, e poi chissà dove andrà a finire.
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Ivan non mangiare tranquillo

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La settimana scorsa, mentre eravamo tutti un po' distratti, Ivan Scalfarotto ha deciso di digiunare. Qualcuno lo ha chiamato sciopero della fame, espressione che a lui non piace ("sciopero", in particolare, è un termine che gli ha sempre dato fastidio, persino quando era vicepresidente di un partito che vi aderiva). In un pezzo scritto ieri, ha spiegato più in dettaglio che il digiuno dovrebbe servire a costruire "una consapevolezza, l’inizio di un dibattito un po’ più approfondito di quello a cui abbiamo assistito in questi anni in tema di diritti civili", e che durerà "fino a quando non avremo una certezza sulla data della cessazione di questa grave violazione dei diritti umani che si consuma nel nostro Paese". Per "grave violazione" si intende ovviamente la mancanza, in Italia, di una legislazione sulle unioni civili. Se però a questo punto ci facciamo l'idea che Scalfarotto stia digiunando per ottenere una rapida calendarizzazione del ddl Cirinnà, ebbene, ci sbagliamo. "Il Calendario dei lavori delle Camere è prerogativa dei gruppi parlamentari, la cui autonomia rispetto in modo assoluto. Quello che chiedo è invece che ci sia una presa di coscienza della serietà del problema e del fatto che si tratta di un’assoluta priorità e che, su questa base, mi sia assicurata una data certa entro la quale avremo una legge all’altezza di quella degli altri paesi che hanno già legiferato." C'è scritto così, ognuno si faccia l'idea che preferisce. Quel che ho capito io (e magari mi sbaglio) è che il ddl se la vede male. Non così male da causare le dimissioni del sottosegretario Scalfarotto, ma abbastanza male da portarlo a un gesto clamoroso - almeno nelle intenzioni avrebbe dovuto esserlo; purtroppo eravamo tutti voltati verso la Grecia e c'è da aggiungere che i digiuni sono un mezzo un po' inflazionato, probabilmente per il modo un po' allegro in cui li ha gestiti per troppi anni Pannella.

Questo pezzo era partito per intonare un affettuoso sfottò, "Ivan magna tranquillo", qualcosa del genere. Poi mi è successo qualcosa - forse il caldo - più ci penso e più mi rendo conto che Scalfarotto sta facendo la mossa giusta, delle poche che gli restano a disposizione. Un po' ridicola, e senz'altro la tempistica non lo aiuta, ma l'alternativa è buttarsi a terra e aspettare che l'arbitro conti fino a dieci. Scalfarotto ha già preso una botta abbastanza dura col ddl sull'aggravante omofoba, arenatosi in Senato; ma se lì non c'è la maggioranza per una cosa del genere, non c'è nemmeno per le unioni civili. Il resto - l'ostruzione, gli emendamenti fantasiosi, sono dettagli che Renzi potrebbe spazzar via in un mattino se dalla sua parte avesse i numeri sufficienti. Ce li aveva per la legge elettorale, ce li aveva per la Buona Scuola, ma per le unioni civili non le ha. Su questa cosa mi pare che Alfano e i suoi siano stati chiari sin dall'inizio, e della loro sincerità non c'è da dubitare; al loro elettorato di riferimento, che mal digerisce il loro sostegno a Renzi, cercheranno di rivendersi come i salvatori della famiglia tradizionale. Il ddl non soffre perché un gruppetto di bigotti va in piazza: il ddl soffre perché Renzi non ha una maggioranza senza NCD, e se cercasse la fiducia rischierebbe di perdere anche quella. Questo è tutto quel che importa: non le fiaccolate o le sentinelle, movimenti folkloristici organizzati da battitori liberi che cercano di parassitare la discussione per (ri)costruirsi una carriera politica.

Sull'altro versante è Scalfarotto a giocarsi la sua. Le possibilità di far passare il ddl sono appese a quella filiforme chimera che è il voto trasversale: da qualche parte tra i banchi di M5S e centrodestra dovrebbe trovarsi qualche senatore al passo coi tempi che invece di approfittare della situazione per mandare il governo sotto, dovrebbe vergognarsi perché non abbiamo "una legge all'altezza di quella degli altri paesi". Qualcuno che di fronte al digiuno di Scalfarotto dovrebbe farsi un esame di coscienza. Probabilmente questi senatori non ci sono - non abbastanza - e probabilmente Scalfarotto lo sa meglio di me, ma tanto vale provarci. È una mossa ingenua? Può darsi, ma a questo punto se fossi in lui non me ne verrebbero altre.

Altrettanto ingenuo può sembrare il riferimento all'anomalia italiana - che poi anomalia non è: su questo argomento siamo più vicini ai russi e ai turchi che non ai francesi o agli irlandesi. Cambieremo? Ci evolveremo? È probabile, ma ora come ora siamo in spaventoso controtempo, nell'esatto momento in cui persino a sinistra si riscoprono le identità nazionali contro il moloch europeo. Pensare che l'Italia debba naturalmente seguire l'Irlanda è un'altra affettata ingenuità: là c'è stato un riconoscimento graduale dei diritti degli omosessuali - una gradualità che è ancora rifiutata da parte dell'associazionismo LGBT italiano (a costoro Scalfarotto ha poco da rimproverare: anche lui era molto più oltranzista prima di cominciare a scrivere disegni di legge). Ma soprattutto in Irlanda c'è stata una profonda crisi di credito dell'istituzione cattolica, anche a causa degli scandali enormi scoppiati negli ultimi 20 anni. Nel frattempo in Italia ci troviamo l'enciclica di papa Francesco a puntate sull'Unità - e stavolta non è nemmeno così colpa di Renzi, la fascinazione del centrosinistra per il Vaticano dura dai tempi di Veltroni se non da prima. In una situazione del genere, dopo aver promesso per anni una legge ai suoi, Scalfarotto che può fare? Per adesso digiuna. Ho molte riserve su di lui e soprattutto sul suo renzismo, ma se in politica credo che si debba sempre fare quel che si può con i mezzi a propria disposizione, mi pare che in questo caso Scalfarotto ci stia provando, e che si meriti il mio appoggio. Che purtroppo conta veramente pochissimo - ma anche in questo caso, è l'unica cosa che posso offrire.
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Cialtronaggini sulla Grecia

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- Di economia ne so poco, come tutti. Da qualche anno tengo un blog dove scrivo le prime cose che mi vengono in mente e che non ho ancora letto in giro. Spesso sono cose molto stupide e ciniche. Per esempio qualche anno fa scrissi: "La Grecia è fottuta: tanto vale usarla come avvertimento". Scherzavo; e però tre anni dopo la sensazione è che la Grecia si potrebbe persino salvare; che i soldi si potrebbero trovare, e le scadenze posticipare; e però a questo punto la Troika che figura ci farebbe? Ogni tanto devi far vedere che non scherzi - che le file ai bancomat non sono una favola che si racconta ai bambini per terrorizzarli. Ogni tanto qualcuno deve farsi male, per il bene degli altri che impareranno a non sgarrare. Qualche sventurato prima o poi deve provare davvero a uscire dall'euro, per dimostrare a tutti cosa succede. Comunque vada, sarà un esperimento interessante e fortemente educativo, e se il prezzo da pagare è il fallimento della Grecia - bah, sarebbe fallita comunque.

- Dicono: la Grecia è come il Tennessee. Sottointendono: in ogni Unione che accetti di essere tale ci sono zone ricche e zone depresse, che devono imparare a tollerarsi. In realtà il Tennessee non potrebbe far da solo nemmeno se ci provasse, schiacciato com'è tra Alabama e Kentucky. La Grecia invece è in prima linea. Lo è sempre stata. Stalin a Yalta ne aveva reclamato il 30%, anche se non lo riscosse. Ancora oggi, se chiedi agli americani, non hanno dubbi: la Grecia è nostra, dobbiamo accollarcela. Che Putin possa anche solo farci un pensiero è fuori discussione. Le nazioni in prima linea hanno una rendita di posizione: lo sanno bene gli italiani, i greci e sì, anche i westberlinesi. Vivere al di sopra delle nostre possibilità era una necessità strategica che gli americani non discutevano. I tedeschi, che pure hanno vissuto la contrapposizione tra edonismo occidentale e austerità comunista, sembra che non ne abbiano tratto nessuna lezione: continuano a confondere l'ideologia con la prassi, l'economia con la morale, e a trascinarci in organizzatissime catastrofi. Che sia Hegel o Lutero, c'è evidentemente un problema che non riescono a spiegare nemmeno a loro stessi, figurarsi a noi.

- Juncker voleva la Grecia nella CEE per via di Platone - ok, ma anche Platone non è gratis, avrà un suo prezzo. In realtà la grande eredità culturale di quella manciata di polis schiaviste e segregazioniste e imperialiste è quanto mai fuorviante. Se ci concentrassimo sulla storia più recente, magari scopriremmo che l'abitudine a vivere al di sopra della propria produttività non è un accidente della storia, ma una conseguenza della geografia. La Grecia moderna nasce per diretto interessamento delle potenze europee - il banco di prova del colonialismo ottocentesco. Appena scacciati gli ottomani, diventa immediatamente proprietà di un signorino bavarese con velleità culturali - da lì l'azzurro della sua bandiera, e non dal cielo sull'Aeropago. I tedeschi pagano e i greci si ribellano, è un ciclo che va avanti da quasi 200 anni. Il rischio di azzuffarsi coi turchi o di trescare coi russi è altrettanto cronico.

- Noi poi è escluso che possiamo farci una bella figura - o anche solo una figura dignitosa. O tifiamo per il rivoluzionario Tsipras, fingendo di non vedere che sta solo negoziando, o ci sediamo dalla parte dei creditori, e subito ci tradisce l'atteggiamento da kapò. I nostri governanti sono genuinamente convinti che l'Europa del nord non sia soltanto il modello vincente, ma quello esportabile: se il Tennessee non diventa Illinois, è soltanto a causa dei lacci e dei lacciuoli, della pigrizia dei sindacati ecc. Ichino ce lo dice da anni: tra noi e la Danimarca, c'è solo una questione di volontà. Se le imprese italiane ci credono, possono diventare danesi in mezza giornata (bisognerà licenziare qualche dipendente non danesizzabile, ma è il prezzo da pagare). A scuola invece va molto forte la Finlandia. Ci dicono che dobbiamo fare come in Finlandia - un Paese enorme con 5 milioni di abitanti di cui solo il 2,5% stranieri. Se obietti che in Italia, un Paese assai più densamente popolato, con un PIL pro capite sensibilmente più basso, vivono più cittadini stranieri che finlandesi in Finlandia, ti accusano di disfattismo. Non c'entra il PIL, non c'entrano gli immigrati di prima generazione da alfabetizzare e integrare: la Finlandia è qui tra noi se la vogliamo, con le renne e le slitte e Babbo Natale. Basta crederci, e smettere di scioperare che è una cosa veramente poco nordeuropea.
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La morte ti cerca su Skype

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Unfriended (Levan Gabriadze, 2014)

O ma t ricordi Laura???
Quella stronza ke poi a un certo punto qualcuno ha messo su youtube il video in cui fattissima si era cagata addosso?? 
E che lei dopo dalla vergogna si è sparata (ke COGLIONA)? 
Ti ricordi quanto abbiamo pianto al funerale, e quando ci intervistavano dicevamo che era nostra amica e mai avremmo potuto immaginare e insomma eravamo sconvolti? 
Ma il video invece ti ricordi ki lo aveva fatto? 
Eri stata tu? 
Ero stato io? 
No io forse lo avevo solo postato. 
Boh. 

Unfriended è un piccolo film con un'idea fortissima - trasferire sul grande schermo il desktop di un computer portatile, e raccontare tutta la vicenda da una finestra all'altra, in apparente presa diretta. I personaggi dialogano su skype, la colonna sonora è una playlist su itunes, gli indizi si cercano su google, il passato galleggia su youtube e facebook - lo spettatore condivide il punto di vista della protagonista e a un certo punto la frustrazione di non riuscire a controllare il cursore col mouse (visto su un portatile dev'essere tremendo, anche al cinema viene costantemente la tentazione di aprire la posta o twitter o qualche altra minchiata).

Il tema ovviamente è il bullismo 2.0 - Gabriadze, regista di origine georgiana, sembra abbastanza persuaso che l'inferno siano gli altri, cioè internet. Classe '69, in un'intervista ha candidamente affermato che il nonnismo subito ai tempi del servizio militare nell'Armata Rossa non è nulla rispetto a quello che può capitare oggi ai ragazzini sui social network. Unfriended descrive questo mondo col candido cinismo che si può permettere un regista horror: i cinque personaggi, tutti variamente antipatici, saranno messi l'uno contro l'altro dal fantasma della loro vittima. Sì, il modo di raccontarla è finalmente un po' diverso, ma la storia è la più banale del mondo (continua su +eventi!) Gabriadze, che comunque ha avuto un colpo di genio, ha anche il pregio di non tirarsela affettare ambizioni autoriali: Unfriended non finge nemmeno per un istante di essere qualcosa di più profondo del solito film per 16enni sul divano che limonano o almeno ci provano (l'apparentemente inutile conversazione iniziale, in cui la protagonista promette al suo ganzo un rapporto finalmente completo per il Ballo di Fine Anno, è il momento in cui il film sembra davvero specchiarsi nel suo pubblico di riferimento).

Chi 16enne non è può lamentarsi dello spreco: le idee originali sono così rare oggigiorno. D'altro canto Gabriadze con un misero milione di dollari di budget ne ha già portati a casa 45: che gli vuoi dire? Magari i sequel avranno un approccio meno scontato. Il film è l'ennesimo colpaccio di Jason Blum, produttore specializzato nei film a bassissimo costo e altissimo rendimento: non sono mai capolavori (tranne il caso un po' particolare di Whiplash), ma sono sempre idee originali. Merce sempre più preziosa, anche a Hollywood.

Unfriended è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:40, 22:40); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15); al Cinecittà di Savigliano (22:30).
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La democrazia senza demos

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Ciao a tutti, mi chiamo Leonardo e ritengo che i premi di maggioranza siano una pericolosa perturbazione della democrazia. Per illustrare questa mia opinione oggi non saprei trovare nulla di meglio di questo tweet del ministro delle finanze greco.


(Fino a ieri la migliore illustrazione era questa, presa dalla voce italiana di wikipedia):


Ma torniamo a Varoufakis. Il ministro di un governo democraticamente eletto, nell'ora delle decisioni impopolari, si ricorda che in fondo non è stato eletto così democraticamente, suvvia, appena il 36%, forse è meglio chiedere cosa ne pensa la maggioranza dei greci. La maggioranza vera, non quella finta che si usa di solito per le cose di ordinaria amministrazione, come decidere chi va ai vertici internazionali e beh, sì, chi governa.

Il meraviglioso sistema dei premi di maggioranza, sistema che condividiamo con nazioni di antica e provata tradizione democratica come la Grecia e San Marino, elaborato in quel periodo glorioso che furono gli anni Venti in Italia; il sistema che ci consentirà di andare a dormire senza nessuna ansietà la sera delle elezioni legislative, conoscendo già il nome dell'illuminato leader che avrà la fiducia della maggioranza del parlamento senza per forza avere quella della maggioranza degli italiani... sembra escogitato da un animo infantile arcisicuro che non ci sia un problema tanto grande da cui non ci si possa liberare con un trucco. Basta trovare il trucco giusto, nei film di solito succede, e i problemi si risolvono di colpo e tutti poi vivono felici e contenti, the end.

C'è in molte persone probabilmente un'attesa del genere. Si farà un'elezione e quella sera vincerà Tsipras - o Renzi - e il film finirà lì. Il fatto che là fuori ci sia tanta gente, veramente tanta gente che continuerà ad avere dei problemi anche il giorno dopo, non li impensierisce più di tanto. Nei fatti, Tsipras è andato al governo portando le idee non-compromissorie di un terzo degli elettori greci; non si è sentito di tradire la sua non-maggioranza, e nel momento più critico non si è più sentito un mandato popolare sotto i piedi. Nei fatti, Renzi sta governando con una maggioranza artificiale (soprattutto alla Camera), ottenuta con un sistema elettorale contro cui si è espressa la Corte Costituzionale. A questa maggioranza artificiale Renzi non sta imponendo soltanto - com'era necessario - una nuova legge elettorale, ma anche riforme strutturali (Jobs Act, Buona Scuola) che nessuno aveva proposto agli elettori, quei pochi che nel 2013 votarono per il Pd di Bersani e non per il suo. A chi glielo fa presente i renziani obiettano che però il PD ha fatto il 41% alle europee. A chi replica che nelle tornate elettorali successive non è andato altrettanto bene, i renziani rispondono lalalala non ti sento. Ora, per quanto ridicolo l'italicum non è demenziale come il sistema elettorale greco, e può anche darsi che alle prossime elezioni legislative Renzi riesca a spuntarla e incoronarsi re del 41%. E se siete di quelli che pensano che il film finirà in quel momento, non c'è altro da aggiungere. I titoli di coda saranno bellissimi.

Io sono tra quelli noiosi che si sveglieranno anche il giorno dopo, e mi domando: cosa succederà? È da quattro anni che la maggioranza degli italiani non si riconosce nel governo espresso dal parlamento. Aggiungiamo altri cinque o sei anni. Sul serio pensate che non succederà niente? Che il 60% degli italiani se ne resterà zitto e buono? Che nessun demagogo ne approfitterà? Che nessun gruppo mediatico gli negherà l'appoggio?

Magari la democrazia - questa cosa nata effettivamente in Grecia, e proseguita a San Marino - è meno seria di quel che sembra. Forse è davvero un gioco. Ma sul serio pensate di poterlo giocare a lungo senza avere dalla vostra il consenso popolare? Quello vero, non quello di rappresentanza che si ottiene con un trucco, pardon, con un premio.
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In che legge elettorale ti sei cacciato, Matteo Renzi

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Quando nel 2014 il nuovo segretario del PD invitò Berlusconi al Nazareno, entrambi erano convinti di poter avere dalla loro parte, al massimo, un terzo degli elettori: due compartimenti stagni che non avrebbero mai potuto sommarsi. La prima bozza della nuova legge elettorale descrive perfettamente questa situazione: un'altissima soglia di sbarramento (8%) sarebbe scattata soltanto per i partiti che avessero rifiutato di coalizzarsi coi più grossi; quanto a questi, avrebbe vinto tutto chi avesse sorpassato la ridicola soglia del 35 (quasi subito ritoccata al 37). Nel malaugurato caso che nessuno dei contendenti riuscisse a sorpassarla, si sarebbe proceduto all'estrazione, pardon, al ballottaggio: che proprio a causa delle tripartizione dell'elettorato (un fatto radicalmente nuovo, al quale forse né Berlusconi né Renzi si erano ancora rassegnati) rischiava di diventare davvero una lotteria. Una legge ridicola, che rischiava di regalare qualche chance a chi non le voleva nemmeno, ovvero Beppe Grillo. Bastava un po' di buon senso per rendersene conto, e in tanti lo scrivemmo - mentre dirigenti di PD e insigni costituzionalisti erano già pronti a spellarsi le mani.

Quattro mesi dopo - Renzi nel frattempo era salito a Palazzo Chigi - le europee ci regalarono un quadro radicalmente diverso. Il PD aveva sfondato la soglia psicologica del 40%: tutto sembrava a quel punto possibile. Chi in quell'occasione faceva notare che si trattavano comunque di 11 milioni di voti (tanti, ma meno di quelli presi da Veltroni nel 2008) venne trattato da uccello del malaugurio. Renzi avrebbe salvato l'Italia. Restava da convincere gli italiani. Quanti? La soglia del 37 fu ritoccata al 40: in cambio il precipitante Berlusconi concedeva a Renzi il premio di lista. Non sarebbe stato più necessario allearsi coi partitini che, peraltro, stavano già scomparendo - Lega a parte. Renzi doveva semplicemente mantenere la presa salda su quegli 11 milioni di elettori che avevano già scelto lui. Non sembrava così difficile. Bastava non disgustarli. Poi ci fu il Jobs Act. Poi la Buona Scuola.

La settimana scorsa Ilvo Diamanti lo dava al 32% - c'è da dire che i sondaggi in Italia sbagliano sempre. Non sarebbe nemmeno questa grossa tragedia, se l'ultimo turno di amministrative non avesse dimostrato quello che il buon senso ci suggeriva già da un anno, ovvero che i ballottaggi sono un grosso rischio per il PD. Renzi rischia di passare alla storia per aver scritto la legge elettorale che consegnò l'Italia ai suoi avversari.

Come è stato possibile un capolavoro del genere? Difficile dirlo, anche se circondarsi di collaboratori mediocri, e "mettere la faccia" su qualsiasi cosa loro suggerissero, potrebbe avere aiutato. Abbiamo voluto dei leader giovani, tocca tenerseli permalosi? Ci sono stati mesi di occasioni per buttare a mare l'Italicum e ripartire con una legge decente, ma significava "perdere la faccia" e Renzi è genuinamente convinto di averne ancora una e una sola. Adesso però qualcosa sembra essere cambiato. Il professor D'Alimonte, che tanto si è speso in questi anni per sistemare il Partito Democratico, e ancora girando e rigirando sulla carcassa sembra insoddisfatto del risultato, come il saggio e prudente avvoltoio, il professor D'Alimonte dicevo, ci fa sapere che Berlusconi preferirebbe tornare al premio di coalizione, e che l'idea non spiace nemmeno a molti esponenti del Pd. "Anche Verdini sarebbe contento, presumibilmente": siam ridotti a preoccuparci di ciò che farebbe contento Denis Verdini. Su Repubblica Stefano Folli prende la palla al balzo e ci spiega che a Palazzo Chigi c'è "inquietudine", e che l'Italicum "è già in archivio", è il "vestito sbagliato per l'Italia di oggi". A me sembrava già sbagliatissimo nel 2013, ma forse l'antirenzismo mi ottundeva le facoltà. Tuttora non sono ben sicuro di quel che vedo e sento, ho il sospetto che tra Folli e D'Alimonte non vi sia che una chiacchiera estiva, di quelle che scoppiano appena entrano in contatto con qualcosa di appena appena reale. Sul serio Renzi potrebbe a questo punto decidere di rimettere mano all'Italicum, senza tema di perdere la sua prediletta faccia? E come la spiegherebbe agli italiani: scusatemi, la legge che tutto il mondo ci invidia non va più bene perché rischia di farmi perdere le elezioni?

Mi sembra di avere le allucinazioni, vedo editorialisti nudi difendere la necessità di un politico di tagliarsi le leggi elettorali su misura. Voi li vedete vestiti? Perché magari è un problema mio, anzi senz'altro. A questo punto Renzi ha bisogno di 12 milioni di voti per chiudere la partita prima di andare al sorteggio, pardon, al ballottaggio. In questo stesso punto Renzi forse ha capito che 12 milioni di italiani non li ha mai conquistati, e mai li conquisterà, e quindi? Se passa dal premio di lista a quello di coalizione, chi pensa di imbarcare? Il prudente D'Alimonte sembra consigliare Verdini: è sempre tanto saggio e prudente D'Alimonte, chissà quante centinaia di voti ci porterà in dote il popolarissimo Denis Verdini (forse anche decine di centinaia di voti). E poi? Magari c'è ancora qualche radicale sulla piazza, perché no, certo non è gente che viene gratis, ma altrimenti di chi staremmo parlando? Di Vendola? Non è un tantinello tardi? Va a finire che aveva capito tutto Civati a chiamarsi fuori - e infatti guarda, sta uscendo anche Fassina - se dopo aver tenuto il fronte del bipartitismo, Renzi cede di schianto alla prima tornata elettorale che gli va male, chiunque si ritrovi fuori dal partito avrà un potere contrattuale superiore ai peones che si sono fatti andar bene Renzi fin qui. Cioè se fa una mossa del genere, secondo me, Renzi si rovina da solo. D'altro canto che ne so io.
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Il giornalista che si sparò due volte

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La regola del gioco (Kill the Messenger, Michael Cuesta, 2014)

Nel 1996 sul sito web del californiano San Jose Mercury News apparve per qualche giorno un'elaborazione grafica che sconvolse l'opinione pubblica americana: una specie di distintivo della CIA su cui si specchiava un fumatore di crack. Corredava il titolo di un reportage che sarebbe diventato un libro e un caso nazionale: "Dark Alliance. The Story Behind the Crack Explosion". La storia era già uscita in tre puntate sul cartaceo, ma internet - forse per la prima volta - avrebbe fatto la differenza. L'immagine elaborata dalla redazione esplicitava qualcosa che il reporter Gary Webb non aveva voluto scrivere: dietro lo spaventoso boom del consumo di crack, che aveva devastato i quartieri più poveri di Los Angeles, c'era la CIA!? Una parte della comunità afroamericana, reduce dai disordini del '92, non faticò a convincersene. Alla pagina web del Mercury cominciarono a puntare altri siti non professionali - la parola blog ancora non esisteva - liberi di fantasticare qualsiasi ipotesi di complotto: la CIA aveva inventato il crack per distruggere la gioventù afroamericana, la CIA aveva domato la rabbia dei neri coprendo South Central con quintali di polvere bianca...

Webb in realtà aveva portato alla luce qualcosa di più circoscritto, ancorché esplosivo: seguendo il processo di un mitico trafficante di LA, Ricky Ross (detto Freeway, "autostrada" per le quantità di crack che riusciva a trasportare quotidianamente), aveva scoperto che il suo fornitore nicaraguense, Danilo Blandon, era un informatore dell'agenzia antidroga federale. Blandon trattava con Ricky Ross partite di cocaina così ingenti che trasformarle in crack era diventata una necessità logistica; coi proventi finanziava la guerriglia dei Contras, che si opponevano al governo sandinista del Nicaragua, combattendo una guerra che il presidente Reagan non voleva perdere ma che il Congresso non gli consentiva di finanziare. Tutto questo sotto gli occhi della CIA, che però - come Webb puntualizzò ogni volta che ne ebbe l'occasione - non era attivamente coinvolta nello spaccio (continua sul nuovo bellissimo e velocissimo sito di +eventi!)

Webb era un buon giornalista, già vincitore di un Pulitzer, ma le sue fonti erano perlopiù trafficanti e spacciatori, in Nicaragua e in California. Il Mercury gli diede la possibilità di firmare una storia che i grandi quotidiani USA non volevano o potevano stampare: una volta pubblicata, si dedicarono con un certo zelo a demolirla. Il Los Angeles Times formò un team di più di venti persone, che ripercorsero la pista di Webb e trovarono qualche errore fattuale - del resto in venti è più facile. Il Washington Post, il quotidiano che tutti associamo al Watergate, all'eroica lotta di due cronisti contro un presidente, nell'occasione praticò nei confronti di Webb quello che da noi si chiama metodo Boffo, potendo contare su anonime fonti governative - alla CIA non dovevano essere così contenti di passare per trafficanti.

Ma a rovinare Webb fu il suo stesso quotidiano, che dopo aver venduto il suo reportage nel modo più sensazionalistico possibile, lo scaricò, dissociandosi dagli articoli già pubblicati e rifiutando di stampare gli altri già pronti. Webb non avrebbe mai più trovato un giornale disposto a lavorare con lui. Divorziò, continuò ad approfondire la sua pista, trasformò Dark Alliance in un libro pieno di storie e di dati, e 11 anni fa si sparò alla testa. Due volte. Pare che sia possibile, non è l'unico caso (naturalmente c'è chi sospetta la CIA, ma l'ex moglie è convinta che Webb si sia suicidato). Benché molte delle scoperte di Webb siano state confermate, Dark Alliance è ancora materiale controverso negli USA. I quotidiani che lo screditarono non hanno cambiato la loro versione: Webb riponeva un'eccessiva fiducia nelle versioni dei trafficanti che incontrava, gente disposta ad accusare i gringos della CIA di qualsiasi misfatto. La vita tragica di Webb ha ispirato un libro, Kill the Messenger, che l'anno scorso è diventato un film: un'ottima occasione per Jeremy Renner (che oltre a interpretarlo lo produce). Se il suo umanissimo Gary non diventa una figura memorabile non è certo responsabilità sua.

La storia era complicata e Peter Landesman, già sceneggiatore di Parkland, decide di risolvere ogni ambiguità nel modo più semplice: adottando acriticamente il punto di vista del giornalista. L'ansia di semplificare non rende nemmeno un buon servizio: Webb visitò il Nicaragua più volte per approfondire, ma nel film sembra esserci andato una volta sola, fidandosi delle prime fonti che ha incontrato. L'inchiesta vera e propria è sbrigata in una ventina di minuti, dopodiché il film decide di scegliere la via meno complicata, concentrandosi su ciò che accade a Webb e alla sua famiglia. La moglie intiepidisce, il primogenito scopre vecchi altarini e fa una scenata, lo spettatore sbadiglia. Ogni tanto la CIA tira qualche brutto scherzo, ma la tensione cala subito. A un certo punto irrompe Ray Liotta, un po' a gratis: racconta la sua storia di ex combattente per la libertà e narcotrafficante e scompare, non se ne parla più. Non è neanche la prima volta che gli capita - ormai Liotta sta diventando un McGuffin vivente, i registi lo usano per alzare la tensione. Il film poi abbandona il protagonista molto prima del suicidio, attenuandone lo spessore tragico: un'altra scelta più facile che efficace. Uno degli spunti interessanti viene buttato lì nei titoli di coda: qualche anno dopo le dimissioni di Webb, molti documenti che dimostravano le sue tesi vennero de-secretati, ma l'opinione pubblica era distratta dalle avventure del pene di Bill Clinton.

Con tutti questi limiti (a cui aggiungo una Mary Elizabeth Winstead caporedattrice carinissima ma un po' fuori parte), Kill the Messenger è un film da vedere, se non altro perché è una storia di cui da noi si è parlato poco. Si racconta il giornalismo americano da un'angolazione meno celebrativa del solito, in un momento storico in cui tornano d'attualità i disordini razziali e le macchine del fango - impossibile non pensare a quel Tom Harper che sulle colonne del Sunday Times qualche settimana fa cercava di trasformare Edward Snowden in una spia russa, attingendo (per sua ammissione) soltanto a fonti del governo britannico. Il giornalismo è anche questo. Certo, Sorkin ce l'avrebbe raccontato meglio. Ma non è che può sempre raccontarci tutto lui. La regola del gioco è al Cityplex di Alba (20:00, 22:15); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:35); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15)
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Il gender non esiste; la scuola privata non dovrebbe

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Col tempo, se sei un uomo e l'umanità un po' t'interessa, cominci ad apprezzare le bugie per la quantità di cose vere che ci dicono su chi le racconta, e soprattutto su chi se le beve. Il mito del Gender, per fare un esempio, non c'è dubbio che sia un'invenzione, in gran parte magari costruita a tavolino - e forse non sarebbe complicato nemmeno risalire al tavolino in questione. Ma la forza dei miti non sta in chi li inventa, bensì in chi decide di accoglierli: nelle migliaia (milioni?) di persone a cui puoi evidentemente raccontare che in un asilo pubblico si faccia lezione di masturbazione, senza che nessuno faccia un plissé. Come i genitori che a Rignano Flaminio (perdonatemi, mi tornano in mente sempre le stesse cose), nel 2006 si sentirono raccontare che le maestre della scuola d'infanzia aderivano a una setta pedofila e durante il giorno portavano i loro figli col pulmino in un castello dove venivano seviziati - e trovarono l'idea assolutamente plausibile. Cosa c'è nella testa di queste persone, che non ritengo meno capiente e complessa della mia?

Un'enorme diffidenza per l'istituzione scolastica, senz'altro. Ma non è che una faccia della medaglia. Proviamo a voltarla. Dall'altra parte c'è una mostruosa fede nella scuola, nel suo potere di plasmare il fanciullo e il giovinetto, addirittura di farne un maschio o una femmina o altro. Se tu pensi che la scuola possa fare di tuo figlio un gay, la prima cosa che mi viene in mente è che sei pazzo - ma la metto da parte. La seconda cosa è che tu hai già paura che tuo figlio lo sia, e vabbe'. La terza è che stai riconoscendo a me insegnante un potere enorme. Posso creare omosessuali dal niente. Basta decidere che alla terza ora, invece del solito trattato di Campoformio, ci mettiamo a discutere di "amicizia e amore con il partner dello stesso sesso", ed ecco all'improvviso allignare la torbida perversione iridescente là dove fino a un momento prima c'era solo un po' di curiosità per le imprese di Bonaparte - e nessuna pulsione, naturalmente, i ragazzi non avrebbero pulsioni finché non premiamo noi i pulsanti. È chiaro che se davvero fossimo così potenti, saremmo già riusciti a farci pagare un po' di più, in fin dei conti abbiamo in ostaggio tutti i pre-puberi d'Italia cinque ore al giorno. Ecco, il punto è che ci credono. Migliaia, forse milioni di italiani ritengono che noi abbiamo in ostaggio i loro figli, e che possiamo in qualsiasi momento premere un pulsante e omosessualizzarli, transessualizzarli, trasformarli in consumatori seriali di contraccettivi e pillole abortive. Noi.

Che a pena riusciamo a insegnare l'italiano.
Questa per dire dirige un istituto comprensivo - scuole medie,
elementari, d'infanzia - chi le impedirà di selezionare insegnanti anti-gender?
Certo non Renzi.

A questo punto basta rovesciare il mito per trovarne la ratio: chi crede (o vuol credere) che all'asilo si insegna masturbazione precoce, crede o vuol credere altresì che all'asilo queste cose si potrebbero reprimere. Si dovrebbero reprimere. Non all'asilo pubblico, naturalmente: occorrerà procurarsene uno con personale opportunamente specializzato. Chi paventa moduli educativi sulla "scoperta del proprio corpo e dei propri genitali" da quattro a sei anni, considererà necessario che una scuola come si deve crei una barriera tra il seienne e il suo corpo, e soprattutto i suoi genitali. Chi trova scandalo in una lezione sul "diritto all'aborto" riterrà opportuno che una scuola insegni ai figli il contrario, cioè che l'aborto non è un diritto: e così via. Ecco: chi chiede sgravi fiscali o buoni scuola allo Stato invocando la "libertà di educazione", la "libertà di scelta educativa delle famiglie", a volte ha in mente questo. Magari non tutti. Ma alcuni sì. Vorrebbero un asilo che mettesse delle barriere tra i loro candidi bambini e i loro incontrollabili genitali; preferirebbero una scuola che creasse veri Maschi e vere Femmine, ancor prima che buoni cittadini - cittadini di che, poi? Prima viene la famiglia, e la famiglia sa cos'è bene per i propri bambini. Lo sa per definizione.

Qui devo confessare una cosa. Mi è capitato spesso di affermare polemicamente che la scuola privata mi va bene, purché sia privata davvero, vale a dire pagata da chi ci vuole mandare i propri bambini. Si tratta di una manovra retorica che è un classico di questo blog: usare il liberismo contro i liberali, il cattolicesimo contro i cattolici, il marxismo contro i marxisti ecc. Funziona sempre, ma resta una mossa insincera. Cioè alla fine non è vero che le scuole private mi vanno bene. Prendi l'imam che ha parlato al Family Day, beccandosi gli applausi dei buoni cattolici. Io non voglio che lui, con la scusa della "libertà di scelta" iscriva le sue eventuali figlie a una madrasa. Preferirei che le iscrivesse a una buona scuola pubblica, dove sentiranno magari parlare di contraccettivi e aborto, ma anche di Mirandolina e Gertrude. La stessa cosa vale per i genitori cattolici che l'hanno applaudito. Perché ci tengono tanto che i loro figli/figlie vadano a una scuola privata? Per l'ampio parcheggio, o perché il preside può licenziare un insegnante se anche solo sospetta che sia omosessuale? eccetera. Non credo che né la scuola né la famiglia possano trasformare un eterosessuale in un gay o viceversa - ma credo che possano causare un bel po' di sofferenza, e rovinare un bel po' di vite se ci provano. Una scuola che ci provasse, finanziata anche interamente da un gruppo di famiglie che ci credesse, per me andrebbe chiusa d'ufficio. Anzi aperta, nel senso in cui Lutero e Robespierre aprivano i conventi. Fuori tutti - non è che fuori sia il paradiso, anzi. C'è una società mediamente violente e omofoba, ma è l'unica che abbiamo, e sta a tutti migliorarla. Chi cerca di difendersi alzando una siepe intorno al proprio giardino (e magari chiedendoti pure un obolo per innaffiarla) non ci è di aiuto. E poi chi lo sa cosa succede davvero oltre quelle siepi, in quei giardini.
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Mai abbastanza denti

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Jurassic World (Colin Trevorrow, 2015)

In principio furono due fauci: così si chiamava in originale lo Squalo di Spielberg, Jaws. Spuntarono fuori da una spiaggia di Long Island 40 anni fa e cambiarono per sempre la storia del cinema USA. L'estate era un brutto periodo per le sale, anche laggiù - ma i tempi stavano cambiando, ormai in tutte le città aprivano mall climatizzati. Ai ragazzi che non potevano permettersi di passare i pomeriggi in spiaggia, Spielberg avrebbe offerto il brivido di una consolazione fredda e dolciastra (e tolto ogni voglia di tuffarsi per mesi o anni). Jaws fu distribuito il 20 giugno in più di quattrocento sale: a quei tempi era la strategia che si usava per minimizzare i danni delle cattive recensioni, e non è escluso che anche l'Universal avesse molti dubbi sul prodotto - lo squalo finto era così poco credibile che il giovane regista aveva deciso di esibirlo il meno possibile, compensando con la suspense la povertà degli effetti speciali. Fu un successo micidiale, che nel giro di qualche mese si mangiò al botteghino tutti i record precedenti - L'esorcistaIl padrino, la Stangata, finirono tutti nelle fauci del predatore. Era nata una razza di film (i blockbuster estivi, e i blockbuster in generale), che nel giro di qualche anno si sarebbero mangiati la Nuova Hollywood. Mostri dal budget pesantissimo, eppure in grado di adattarsi a qualsiasi ambiente: avrebbero espugnato ogni botteghino al mondo, e covato uova di mostri ancora più grossi, perché gli spettatori comunque dopo un po' si annoiano. Vogliono più sangue. Più denti. E qualcuno prima o poi glieli dà.

Quarant'anni dopo, lo squalo che terrorizzava le spiagge di Amity Island non è che un bocconcino per il nuovo Mosasauro. Jurassic World è quel classico film ipocrita che solletica il pubblico e un attimo dopo gli fa la morale: è colpa vostra se siamo costretti a darvi mostri sempre più grossi, facendo strame delle più recenti teorie paleontologiche (Niente piumaggi, anche se nel Giurassico vero c'erano: ma non c'erano nel Jurassic Park di Spielberg e Crichton, e quindi niente da fare). O pubblico viziato, che cerchi il conforto dei vecchi brand ma ti aspetti anche novità a tutti i costi, perché non resti bambino per sempre? Perché non ti accontenti di due diorama e una cavalcata su un baby stegosauro? Sei irrequieto come il complesso militare-industriale. Tu vuoi più denti perché ti annoi, loro vorrebbero qualcosa di più performante di un drone. E se ancora non lo vogliono, domani lo vorranno, e prima o poi qualcuno glielo darà. Forse lo spunto più interessante del nuovo congegno dentato di Casa Spielberg è la naturalezza con cui mostra un parco di divertimenti svelarsi in un esperimento militare. La gente vuole sempre più Sicurezza, ma anche più Divertimento - è chiaro che ogni tanto qualcosa va storto. 

Riguardo ai personaggi, sarebbe ingiusto aspettarsi più tridimensionalità di quella consentita dagli occhialini - più o meno come pretendere profondità dalle ganasce del vecchio Squalo. C'è da registrare il passaggio del caro vecchio T. Rex dalla parte dei buoni (continua su +eventi!) proprio come accadeva a Godzilla a un certo punto della sua saga, non più il nuovo mostro da combattere, ma quello vecchio che ci difende dai nuovi mostri inaffidabili. Perché la gente è insaziabile ma è anche sentimentale, dopo averti visto per due o tre film non le importa quanti esseri umani hai schiacciato o divorato: si affeziona. Meno interessanti gli esseri umani, ridotti a figurine un po' più stilizzate del solito: più che esprimere un carattere, lo evocano, sono citazioni ambulanti. C'è un Bambino Saputello e Boccoloso che sintetizza in pochi tratti tutta la poetica della Amblin (se non ne è la caricatura); un Fratello Maggiore In Preda Agli Ormoni che quando non guarda le ragazze si ficca nei guai; l'Algida Donna in Carriera che ha capito che il pubblico vuole cose più grosse, il Magnate Visionario che le commissiona allo Scienziato Irresponsabile che non si pone troppi problemi, il Sergente Ottuso che spera di farci la guerra. Tutte sfaccettature dell'uomo bianco contemporaneo e pasticcione, tutti a turno fanno qualcosa di tragicamente stupido. Chi ci salverà dalla fatale spirale Marketing-Scienza-Guerra? Il Cowboy, l'unica figurina positiva di tutto il film. L'uomo che sa domare i velociraptor, ma non vuole plagiarli. Chris Pratt fa quel che può per entrare nei suoi panni, ma è un po' troppo giovane e palestrato per assumere con naturalezza quell'autorità morale che avremmo conferito a un John Wayne - insomma alla fine risulta meno credibile del tirannosauro.

Altri hanno già sottolineato la curiosa misoginia del film, che sembra suggerire che una donna in carriera senza figli sia contronatura più o meno quanto un animale geneticamente modificato; resta da annotare un ultimo dettaglio, abbastanza imbarazzante: per quanto sia un film derivativo, ipocrita, maschilista e prevedibile, Jurassic World è anche maledettamente divertente. Non c'è niente da fare, i denti funzionano sempre. Lo trovate al Citiplex di Alba alle 21:00 (2d); al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:10, 21:30, 22:45 (2d), alle 20 e alle 22:35 (3d); al Vittoria di Bra alle 21 (3d); al Fiamma di Cuneo alle 21 (2d); al Multilanghe di Dogliani alle 21 (2d); ai Portici di Fossano alle 21: 15 (2d); all'Italia di Saluzzo alle 20 e alle 22:15 (2d); al Cinecittà di Savigliano alle 21:30 (2d)
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