Il sudtirolese che non giurò a Hitler

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Manifesto nazista in Sudtirolo,
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24 febbraio: Beato Josef Mayr-Nusser (1910-1945), sudtirolese antinazista

Nell'ottobre del 1939 il Brennero divenne il confine inquieto tra due regimi alleati che però a quel punto perseguivano entrambi una politica razziale. Le autorità fasciste e naziste misero i sudtirolesi di lingua tedesca di fronte a una scelta secca tra due opzioni: emigrare nel Reich che aveva appena annesso l'Austria, o restare in un'Italia fascista che già da anni aveva chiuso le scuole in lingua tedesca e perseguiva una politica di italianizzazione forzata. La maggior parte (più o meno 185mila su 267mila) scelse di emigrare, ma la situazione era molto incerta: i tedeschi non chiarivano in quali terre i sudtirolesi si sarebbero insediati. In compenso la propaganda filonazista faceva girare la voce che i Dableiber, ovvero i sudtirolesi che sceglievano di restare in Italia, sarebbero stati deportati in Sicilia o Africa Orientale. Josef Mayr-Nusser aveva 29 anni, proveniva come un po' tutti da una famiglia contadina (il padre era morto di colera combattendo nella Grande Guerra), da ragazzino avrebbe voluto studiare astronomia ma era il secondo fratello di cinque e la famiglia poteva permettersi soltanto l'istruzione del primogenito in seminario. Così Josef si era formato da autodidatta, studiando Tommaso d'Aquino e Thomas More; si era trovato un posto di impiegato a Bolzano, dividendo il tempo libero tra il volontariato per la società di Vincenzo de' Paoli e la militanza nell'Azione Cattolica, l'unica associazione giovanile non fascista tollerata dal regime. 

L'Azione manteneva un minimo di copertura per i sudtirolesi che rifiutavano l'assimilazione e organizzavano scuole clandestine (Katakombenschule) per insegnare tedesco ai bambini. Per Mayr-Nusser scegliere l'Italia nel 1939 significava rinnegare pubblicamente la propria cultura: ma aveva letto il Mein Kampf, e il nazismo gli appariva il male peggiore. Fu una scelta presa in relativa solitudine, mentre anche il vescovo di Bolzano e Bressanone prendeva la via della Germania. Mayr-Nusser invece aderì al gruppo antinazista clandestino che prendeva il nome dall'eroe della resistenza antinapoleonica, l'Andreas-Hofer-Bund. Nel 1942 sposò Hidegard Straub, da cui ebbe subito un bambino (il compositore Albert Mayr). Dopo l'otto settembre 1943, l'Alto Adige fu di fatto annesso al Terzo Reich: nel 1944 Mayr-Nusser fu arruolato forzatamente in un plotone di Waffen-SS e condotto in un campo di addestramento in Prussia dove però il 4 ottobre si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà a Hitler. Condannato a morte, Mayr-Nusser non fece nemmeno in tempo a raggiungere il campo di concentramento di Dachau: morì ammanettato nel carnaio dei vagoni, secondo il referto ufficiale di broncopolmonite. 

Dopo la guerra, Mayr-Nusser restava un martire difficile da ricordare: per molti sudtirolesi rimpatriati era comunque un Dableiber, un traditore. Il fatto che avesse detto di no a Hitler rendeva più evidente come tanti altri avessero detto di sì: vescovo incluso. A incaricarsi della sua memoria fu soprattutto l'Azione Cattolica, il che forse ha fatto sì che la dimensione religiosa del suo martirio occultasse quella politica e sociale. È stato beatificato nel 2016 da papa Francesco. 



25 febbraio: Santa Valpurga (710-779), badessa.

La notte di Santa Valpurga
Avrebbe mai pensato questa nobile monaca, mentre dal Wessex si spingeva nella Franconia, evangelizzando i sassoni e fondando monasteri (il più importante a Heidenheim), che il suo nome sarebbe diventato sinonimo di stregoneria? Destino profondamente ingiusto che Walpurga, o Walburga, nulla ha fatto per meritare. Non è nemmeno morta nella "notte di Santa Valpurga", quella che nel calendario si trova tra il 30 aprile e il primo maggio, come è successo per esempio ad Adolf Hitler. Valpurga risulta trapassata il 25 febbraio del 779, ma come spesso accadeva con i santi morti nei giorni della quaresima, i devoti preferivano celebrarne la memoria in altre date: nel caso di Valpurga la traslazione dei suoi resti nella cattedrale di Eichstätt, avvenuta il primo maggio dell'870. E siccome nel medioevo i giorni cominciavano al tramonto del sole, la festa di Santa Valpurga comincia proprio nel momento in cui i contadini dell'Europa centrale accendevano falò per festeggiare l'arrivo del mese di maggio, con canti e danze pagane che i cristiani avrebbero condannato come manifestazioni di satanismo. Da cui la leggenda romantica – rammentata da Goethe nel Faust – di una "notte di Santa Valpurga" fumosa e ribollente di streghe e demoni in frenetici sabba. Di tutto ciò la monaca Valpurga è assolutamente incolpevole, rappresentante com'è di un movimento di evangelizzazione inverso alla rotta dei Sassoni, dall'Inghilterra alla Germania. 
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A furia di esportarla, la democrazia è finita

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Sono giorni molto confusi: sarebbe saggio non scrivere niente. Ma nella confusione tante cose si rivelano: certo, rischio di svelarmi anch'io. Rispetto ad altri ho un vantaggio: non ho mai confuso gli Stati Uniti d'America con mio padre. Non ho mai dato per scontato che sarebbero venuti a salvarmi da qualsiasi guaio in cui mi sarei cacciato – ragion per cui non ho mai creduto molto in questa cosa di dichiarare guerre, o di combattere a oltranza quando altri me ne dichiaravano, e forse qualche volta ho ceduto territori che mi spettavano, ma l'alternativa era perderne ancora di più, e così me ne sono fatto una ragione. Crescere è anche questo, ma molta gente qui da noi non è mai cresciuta, e probabilmente adesso è tardi. È ingiusto immaginarli mentre si ingegnano di salire sul carro del vincitore, perché anche per quello serve un ingegno che loro non hanno mai applicato. La realtà è che non sanno saltare: i loro genitori o nonni su quel carro sono saliti nel 1944/45, e da allora la questione non si è più posta, la questione non esisteva, Washington era il fulcro morale del mondo. L'idea che abbia trascinato l'Ucraina in una proxy war non è accettabile; la possibilità che ora la molli al suo destino (cioè alla povera Unione Europea), accordandosi con quello che fino a ieri mattina era l'Impero del Male, non è assolutamente immaginabile, dev'essere un incubo. Proprio ora che i filistei si avvicinano, Dio non ci parla più. Persino i governanti sono sotto choc: convocano vertici non si sa nemmeno più di cosa, UE più Regno Unito ma senza gli staterelli troppo riottosi. C'è chi propone di continuare a combattere, ora sapete come dovevano sentirsi i giapponesi in certe isole. 

In mezzo a tutto questo, bisogna ammettere che Giorgia Meloni galleggia meglio di altri corpi, per tutta una serie di motivi, e il primo è che galleggiare è il suo mestiere. A differenza di tanti altri statisti e governanti, l'atlantismo per lei è solo un episodio: il giorno prima di abbracciarlo con tutta sé stessa stava ancora spacciando qualche palla delle content farm putiniane, come il piano Kalergi; e dopodomani potrebbe ricominciare imperterrita, qualsiasi cosa pur di stare a galla. Per tanti altri sarà più difficile, a certe ironie della sorte non si sopravvive: credevano che la guerra in Ucraina avrebbe portato a un regime change a Mosca, e invece è cambiato il regime a Washington. Immagino il dilemma: farsi trumpiani, o inventarsi all'improvviso un europeismo in cui non credevano neanche lunedì scorso? Quel che è certo è che non diranno mai scusate, ci siamo sbagliati, credevamo che gli USA fossero sinceramente interessati a riportare i confini dell'Ucraina al '92. Credevamo che gli ucraini avrebbero combattuto fino all'ultimo uomo per questi sacri confini, ma d'altro canto non credevamo che ce ne sarebbe stato bisogno perché credevamo che qualche mese di guerra di posizione avrebbe fatto saltare Putin, e inoltre credevamo che il sistema di potere russo consistesse essenzialmente in questo malvagio Putin; una volta saltato, la Russia si sarebbe trasformata in una democrazia liberale. Credevamo, credevamo. Scusate, con questa idea di esportare la democrazia facciamo gli stessi errori di calcolo da trent'anni, ma l'ipotesi che la calcolatrice sia un pezzo di plastica coi numeri finti non ci ha ancora sfiorato; confondiamo la geopolitica con la morale e abbiamo la morale di un bambino di otto anni; la maestra è uscita da un po' senza incaricare nessuno di scrivere buoni e cattivi alla lavagna e questo ci destabilizza. Siamo tutti troppo deboli e immaturi per confessare di essere deboli e immaturi, e così anche stavolta stringeremo i denti e faremo finta di andare avanti. Dio non ci parla più, ma fingeremo di ascoltarlo lo stesso.

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Quel Che Dio Vuole prega per noi

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19 febbraio: San Quodvultdeus (V secolo), vescovo e naufrago

Oggi è in effetti San Quodvultdeus, che probabilmente si pronunciava "Kwodwolteus", il che mi fa tornare a quel giorno di tanti anni fa in cui mi assalì questa intuizione, che se fossi riuscito a piazzare una rubrica del Santo del Giorno da qualche parte, tutti gli italiani su internet l'avrebbero letta almeno un giorno all'anno, per festeggiare il proprio onomastico; dopodiché l'avrebbero linkata ad amici e conoscenti che a loro volta sarebbero tornati qui il giorno del proprio onomastico, creando in breve tempo una ragnatela di interesse che mi avrebbe reso il blogger più letto di Italia, con tanto di parate in mio onore, monumenti in marmo(*), e i miei seguaci si sarebbero precipitati nelle biblioteche a raschiare via dai manoscritti la Legenda Maior di Iacopo di Varazze per scriverci sopra la mia. In attesa che questo piano giunga al suo sospirato compimento, eccomi qui a festeggiare Quodvultdeus, auguri a tutti i Quodvultdeus. Quod per gli amici. Ovviamente sapete già che il vostro nome in latino significa "Quel che Dio vuole" – esatto, cari Quelchediovuole, oggi è anche la vostra festa. In effetti potrebbe essere la risposta di una madre stremata dopo il parto a chi insiste a chiedergli come chiamare il bambino: o più probabilmente è uno di quei nomi che si appioppavano agli orfani, ai neonati abbandonati sulle scale delle chiese, come Diotallevi o Graziadio. 

Siccome poi San Qudvultdeus fu vescovo a Cartagine, non possiamo scartare la possibilità che un nome tanto strano derivasse dalla passione dei latini d'Africa per i giochi di parole: questa passione – attestata in più passi che stasera non riesco a ritrovare – forse derivava a sua volte dal loro bilinguismo, perché gli africani del V secolo posavano ancora il loro latino su un sostrato punico, ovvero fenicio, insomma semita, e quindi erano abituati sin dalla giovane età a bisticciare con lingue molto diverse; sono quelle situazioni in cui nascono scrittori come Joyce, che pur padroneggiando la lingua dei dominatori, non riescono mai a prenderla sul serio come si prende una lingua madre. Peraltro oggi, nell'area, un Quelchediovuole si tradurrebbe Insciallah. Sto volutamente divagando, perché alla fine Quodvultdeus non doveva essere un nome così frequente nemmeno nella Cartagine del V secolo. Anzi, siccome ne conosciamo soltanto due, siamo portati a ritenere che si tratti dello stesso personaggio. Uno fu perlappunto vescovo di Cartagine dal 435 al 454; l'altro, da diacono, aveva scritto una lettera ad Agostino di Ippona proponendogli di comporre un manuale contro le eresie e a cui Agostino aveva appunto dedicato il suo De Haeresibus. A uno dei due Quodvultdeus dovrebbero essere attribuiti alcuni discorsi tradizionalmente considerati di Agostino, nonché un altro trattatello, Contro cinque eresie, che non sembra riflettere il pensiero del vescovo di Ippona, visto che tollera l'Asclepio di Ermete (severamente condannato da Agostino stesso nella Città di Dio). 

Sia come sia, la carriera di vescovo di Quodvultdeus viene bruscamente interrotta dall'invasione-lampo dei Vandali di Genserico, che nel 439 arrivano a Cartagine e impongono sulla città la confessione di fede ariana. Per un eresiologo come Quodvultdeus l'arianesimo è ovviamente inaccettabile e quindi i Vandali se ne sbarazzano caricandolo con tutta la curia cartaginese su una flotta di vecchie navi senza remi o vele che dopo un'avventurosa traversata sarebbe approdata a Napoli. Evidentemente così voleva Dio. Qui Quodeccetera avrebbe ripreso la sua attività di eresiologo, attaccando i pelagiani e scrivendo il suo capolavoro, il Libro delle promesse e delle predizioni di Dio. Anche questo nel medioevo sarebbe stato attribuito a un altro autore, Prospero di Aquitania, forse perché "Quodvultdeus" ad alcuni copisti sembrava più un'imprecazione che un nome. Quodvultdeus sarebbe poi morto il 19 febbraio del 454 e sepolto nelle catacombe di San Gennaro di Capodimonte, dove c'è un bel mosaico che ritrae un vescovo dalla pelle olivastra, l'espressione fiera e lo sguardo penetrante. Solo dopo la sua morte Genserico avrebbe concesso ai cristiani di Cartagine di consacrare un nuovo vescovo, che sarebbe diventato santo pure lui e si chiamava... Deogratias, ne approfitto per salutare tutti i Deogratias, e do appuntamento per il 5 gennaio, San Deogratias. Invitate anche i Graziadio. 

(*) Per favore usate il marmo di Carrara, il botticino proprio non lo sopporto.
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La Trappola Trans

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Riassunto della puntata precedente: il Sanremo di Carlo Conti è, come si poteva prevedere, un passo indietro sia da un punto di vista artistico, sia del costume. È un festival che non può negare che esistano delle questioni aperte, dei conflitti in corso: ma invece di affrontarli li mette in scena in una versione edulcorata o farsesca: un Tale e Quale Show in cui al posto del cantante che l'anno scorso proponeva di fermare un genocidio ce n'è un paio che cantano, per l'ennesima volta, Imagine come se fosse mai servita a qualcosa; al posto del Benigni faro della sinistra antiberlusconiana c'è un Benigni anziano costretto ad autoprofanarsi ritornando all'Inno del Corpo Sciolto; e al posto del movimento Lgbt c'è Malgioglio. In particolare la grande assente sarebbe la queerness. Ora, il dibattito sulla queerness è stato fatto infinite volte e giunge sempre a un punto di stallo: c'è chi considera il queer come liberatorio sempre e comunque, e c'è chi è portato a immaginare che anche il queer, come qualsiasi altro atteggiamento umano, possa raggiungere un limite X oltre il quale risulti controproducente alla causa che dovrebbe difendere. Io perlomeno tendo a pensarla così, ma non perché mi ritenga un "moderato" nemico di qualche "massimalista": semplicemente credo che ogni contenuto possa essere distorto fino a trasformarsi nella parodia di sé stesso. 

Ad esempio due anni fa, dopo l'ultima esibizione di Rosa Chemical, il dubbio mi è venuto: ma non è che l'hanno fatto apposta? Chiara Ferragni, tra l'altro, era appena salita nell'empireo delle maestre di vita. Una scenetta che all'inizio mi era sembrata semplicemente estemporanea e di cattivo gusto è stata ripresa dalla stampa di destra con un'attenzione morbosa, perché? In un qualche modo sembrava dare forma allo stereotipo del travestito pericoloso che approccia eterosessuali e li converte alla fluidità – uno stereotipo che, ribadisco, non ha riscontri nella cronaca o nel mondo reale, ma che evidentemente fa parte dell'immaginario di tanti italiani, ed è un immaginario omofobo nel vero senso del termine "fobia", che prima di odio è paura. Se il movimento Lgbt ne ha tratto qualche vantaggio, io non l'ho visto. Davvero Rosa Chemical sembrava se lo fossero inventato i Feltri e i Sallusti a tavolino, con tutti i tatuaggi e gli ammiccamenti giusti per spaventare la maggioranza silenziosa. Nei mesi successivi è partita un'operazione di ridimensionamento della famiglia Ferragni che forse era inevitabile – avevano raggiunto troppo presto la quota Benigni, ormai erano i fari dell'opposizione al governo, ma si trattava di celebrità fragili, ancora affidate ad aziende a conduzione famigliare e tanta attenzione su di loro ha reso più evidenti le loro magagne. Questo però è già un altro discorso. Il discorso che volevo fare, me ne rendo conto mentre me lo scrivo, è il solito dai tempi di Genova: come fa un movimento a difendersi dagli agenti provocatori, da chi ne assume i comportamenti più estremi per suscitare un facile scandalo e suscitare una reazione violenta? Nel caso della queerness, la situazione si fa ancora più spinosa perché distinguere un queer dalla parodia di un queer è un'impresa davvero difficile – se non è Malgioglio. 

Qualche giorno fa, sull'organo dell'ipocrisia fintoprogressista, Paola Concia è stata così gentile da spiegarci che il movimento Lgbt italiano è stato rovinato dal "massimalismo". Copio e incollo: 

Abbiamo iniziato a copiare le rivendicazioni di oltre oceano, leggendo con ammirazione che i sessi erano più di due, che si dovevano avere bagni di genere neutro, che la fluidità di genere doveva diventare legge di stato, che le donne biologiche dovevano essere definite come persone che mestruano per non offendere nessuno, che esisteva un diritto alla filiazione da parte delle coppie omosessuali maschili e così via. Giorno dopo giorno, si è fatta strada l’idea tra noi che non bastava chiedere leggi contro le discriminazioni e per il matrimonio egualitario oppure una modifica della legge sulle adozioni e sulla legge 164/82 sulle persone transessuali - battaglie su cui avremmo potuto trovare al nostro fianco milioni di cittadini - ma che bisognava andare oltre. Gestazione per altri, schwa, asterischi e fluidità sono diventate le nostre parole d’ordine e i nostri campi di battaglia. Parcellizzare i diritti è diventato il nostro mantra, quando la garanzia dei diritti universali è sempre stata la nostra bussola.

Ora, a mio avviso questo discorso è interessante perché non una sola cosa di quelle descritte dalla Concia è dimostrabile – si tratta in effetti di talking points, parole d'ordine che quasi sempre sono state escogitate o messe in rilievo dalla stampa di destra. "Leggendo con ammirazione che i sessi erano più di due": se ne può parlare – se ne parla da decenni – ma c'è stata una concreta iniziativa legislativa in tal senso? "Si dovevano avere bagni di genere neutro": li avevamo all'università negli anni '90, più che altro per le limitazioni architettoniche, succede anche in molti bar; qualcuna/o è morta/o per questo? "Le donne biologiche dovevano essere definite come persone che mestruano": sul serio? È stato l'argomento di una rivendicazione seria di un movimento strutturato, o una boutade che ha fatto un po' discutere? "Diritto alla filiazione da parte delle coppie omosessuali maschili": questa è più seria, ed è triste vederla infilata in un mazzo di sciocchezze. Davvero, mancano soltanto i lego transgender di Mattia Feltri, è veramente strano che non li abbia tirati fuori, forse non ha fatto in tempo. "Gestazione per altri, schwa, asterischi e fluidità sono diventate le nostre parole d’ordine e i nostri campi di battaglia": ancora lo schwa, sul serio? L'ultima volta che ho controllato, erano stati pubblicati quattro libri contro lo schwa e ancora neanche un libro intero a favore – anche perché chi se lo leggerebbe un libro intero sullo schwa, santo Dio. Lo schwa, con buona pace di chi prova davvero a usarlo, è un feticcio della destra, non del femminismo. Fin qui è servito molto più a spaventare che a includere, il che è abbastanza buffo perché a differenza di Rosa Chemical non viene nemmeno a twerkarti sulle ginocchia; è una letterina abbastanza innocua che puoi benissimo evitare di leggere, se ti fa davvero così schifo. 

Quel che si capisce è che Paola Concia a un certo punto si è sentita scavalcata da un attivismo che chiedeva cose diverse da quelle che chiedeva lei, e ha deciso che queste cose non erano giuste e che quell'attivismo nuoceva alla sua causa. Il che è comprensibile e legittimo. Quel che non è legittimo è sostituire le istanze che non approvi con una parodia. Probabilmente capita a tutti di farlo, ebbene, a volte la chiamiamo 'satira' ed è accettabile. Se invece stai scrivendo un manifesto del movimento lgbt riformista no, siamo più dalle parti della bassa propaganda che si crede intelligente, e infatti siamo sul Foglio. "Massimalismo" è un termine che da decenni individua la cattiva fede di chi lo usa; mi verrebbe da far presente che la Concia potrebbe prendere le distanze dal "massimalismo" di chi ha deciso che la questione palestinese si risolve spianando la Palestina, ma cadrei nella stessa trappola.  Mentre invece è da un'altra trappola che volevo mettere in guardia, anche se non sono sicuro che esista. Ma nel dubbio – e nel buio – uno non fa male a dire a chi ha vicino: ehi, occhio, forse ci sono delle trappole.

Ehi, state attentə. Può darsi che anche in passato alcune vostre forme di lotta o di espressione abbiano goduto di un'esposizione particolare non perché funzionavano, ma perché i vostrə avversarə le consideravano talmente eccessive da trasformarsi in autoparodie. A torto o a ragione, non importa: ma può darsi che di alcuni argomenti si sia parlato di più perché a loro interessava che ne parlaste. Può anche darsi che ve ne siate resə conto ma abbiate comunque pensato di cavalcare il drago; forse vi illudevate di domarlo, o semplicemente vi stavate divertendo, e tanta attenzione lusingava quell'amor proprio senza il quale nessuno lotterebbe per nessuna causa. Non vi giudico, non credo avrei fatto meglio di voi. L'unica cosa che posso dire è: attentə, forse ci sono delle trappole. 

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Volete farci rimpiangere Amadeus, ma dobbiamo resistere

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Io capisco che a questo punto la tentazione di rimpiangere il Sanremo di Amadeus sia molto forte. Vorrei comunque invitarvi a resistere, a rifletterci un attimo sopra. Due anni fa, quando si paventava che la destra al governo volesse prendersi la Kermesse con la forza, un coglione scriveva: "Può darsi che Sanremo stia diventando quel che per gli americani è Hollywood: cioè in un certo senso un grosso equivoco, la ridotta di un progressismo ormai più immaginario che reale". " Sanremo come riserva di un progressismo in via d'estinzione/assimilazione, dove anche istanze interessanti come l'antiproibizionismo o l'emancipazione sessuale vengono difese da fenomeni da baraccone che alla lunga si rivelano controproducenti". Rosa Chemical aveva appena molestato Fedez in diretta: un episodio più ridicolo di altri (se ve lo siete dimenticati, vi invidio) ma che col tempo ha assunto un peso simbolico, non sono sicuro che si possa dire peso simbolico ma stasera passatemela. 

Amadeus e Conti hanno tanto in comune, come sa bene chi li ha confusi per anni inciampando nel preserale di Rai1. Stessa età, stesso apprendistato nelle radio private italiane proprio nel momento in cui cominciavano a diventare network commerciali, col conseguente tragico abbassamento dell'offerta culturale. Stessa stella polare: dare alla gente quello che la gente vuole. Dei due, Amadeus è il settentrionale: più aperto alle novità, e convinto (con maldissimulata arroganza) di poter fondare la sua legittimità su parametri oggettivi, economici. Che questi parametri fossero sistematicamente falsificati, per lui faceva parte del gioco. C'era una clausola non scritta per cui il Sanremo di Amadeus doveva andare bene, benissimo, sempre meglio, tutti lo stavano guardando e questo faceva di Amadeus il miglior conduttore e direttore artistico di questo Sanremo che il mondo ci invidiava. Perché i numeri dicessero davvero qualcosa del genere, Amadeus doveva portare la diretta fino alle tre del mattino, né la cosa gli veniva più di tanto contestata perché alla fine la Rai è da vent'anni che fa i numeri così – andate a vedere a che ora del mattino finisce Ballando con le stelle, uno show il cui target di riferimento sonnecchia già alle dieci e mezza. Un trucco noto a tutti i professionisti del settore e praticato in piena luce, con la complicità dei network concorrenti, l'omertà dei giornalisti e immagino la rassegnazione degli inserzionisti, che pagavano cifre importanti per andare in onda a mezzanotte o all'una davanti a spettatori tramortiti. Nel frattempo il palinsesto è diventato il cimitero delle idee, che anche quando sono originali vengono stiracchiate per ore e ore (Geppi Cucciari ne sa qualcosa). Non credo sia una coincidenza che, scaduti i cinque anni del contratto, l'Auditel abbia improvvisamente rivisto i criteri – probabilmente la coperta era stara tirata così forte e così a lungo che gli strappi erano inemendabili. Ed è arrivato Carlo Conti. È arrivato lasciando subito capire che il senso dell'operazione era tirare il Remo in barca: i dirigenti Rai mettevano le mani avanti già alla conferenza stampa di martedì: ogni confronto statistico con le edizioni di Amadeus sarebbe fuorviante perché, perché, le piattaforme, ecc. ecc. (poi i confronti li hanno fatti lo stesso, perché da qualche parte sono riusciti a distillare uno zerovirgola in più), ma non era più così importante perché non è sui numeri che Conti costruisce il suo consenso. 

Carlo Conti viene da quell'isola culturale che è la Toscana, dove ogni novità dall'estero giunge attutita e annacquata; la sua capacità di fornire alla gente "quel che la gente vuole" non si basa su numeri veri o gonfiati, ma sull'intuito, su una connessione profonda con la media gaussiana del Paese – che magari è altrettanto illusoria dei numeri di Amadeus, ma gli consente di regnare sul caos con più serenità, laddove il collega del nord tradiva a ogni passo falso il nervosismo. Conti ha una sensibilità musicale più retriva, incline a quel cattivo gusto melodrammatico che quando arriva a Sanremo purtroppo fa il pieno: cantanti ciechi, bambini sapienti, il Volo... e mamme malate, è stato l'anno delle mamme malate. Non sono venuto a difenderlo. È un cattivo gusto che non nasce evidentemente dal nulla; ha radici profonde, più centromeridionali  e purtroppo non ci sono più in giro artisti in grado di farci qualcosa di interessante, anche solo di provarci (Modugno, Lucio Dalla). Dico "purtroppo" ma le radio commerciali hanno terribili responsabilità. e Conti viene da lì. 

Conti lavora di bilancino, che dopo decenni di Rai1 riesce a muovere con la destrezza del prestigiatore. I conflitti, lo ha capito da Pippo Baudo, non si nascondono sotto il tappeto (a rischio di inciamparci), ma si mimano in scena, in una versione talmente edulcorata da poter passare liscia anche le rare volte che gli spettatori sono svegli. L'anno scorso hanno litigato per la Palestina? Carlo Conti ci sbatte sopra un video del papa (all'insaputa di quest'ultimo!) chiama due artiste israeliane a cantare Imagine – e pazienza se in inglese la canzone dice che il mondo sarebbe più pacifico senza religioni; ognuno la canta e la capisce nella lingua sua. Nel frattempo il loro governo, perseguendo una politica di segregazione su base religiosa, continua a bombardare Libano e Cisgiordania alla faccia di un Cessate il Fuoco ma ehi, non si può dire che Carlo Conti non si sia posto il problema. Laddove Amadeus, l'anno scorso, dava alle maestranze l'impressione di non riuscire a gestirlo; Ghali e D'Amico fecero impazzire giornalisti e politici dicendo semplicemente "stop genocidio": quest'anno non lo ha detto ancora nessuno. C'è da ospitare Benigni che deve lanciare il suo ritorno in Rai? Conti lo ospita molto volentieri, ma pretende da lui non soltanto il solito ecumenismo (viva il Presidente della Repubblica), ma anche l'Inno del corpo sciolto, la rivincita dello Strapaese sul vecchio attore che ancora si illude di essere un maître à penser – no, sorride Conti (ed è la cosa più diabolica che ha fatto in tre serate): tu se vieni qui devi ricordare a tutti che eri un guitto, e un guitto ritornerai. ("Dovunque sei, lì sei in Toscana").

E poi c'è la Minaccia Gender: Amadeus era stato molto criticato, dalla stampa di destra, per l'episodio di Rosa Chemical che sembrava costruito a tavolino per fornire proprio alla destra un casus belli; l'archetipo del travestito pericoloso che molesta eterosessuali a tradimento. Un archetipo che non ha riscontri nella cronaca o nel mondo reale, ma che evidentemente fa parte dell'immaginario di tanti italiani. Conti lo sa e il suo bilancino non ha un sussulto: in questi casi si chiama Malgioglio. Malgioglio è il travestito rassicurante – lo è talmente che passa più tempo in tv dello stesso Carlo Conti, e quando passa fa il picco. La copia edulcorata della copia edulcorata della copia edulcorata della copia edulcorata di un travestito che nessuno si ricorda più chi fosse talmente la copia è stata edulcorata, forse Paolo Poli ma non vorrei offenderne la memoria. Se devo essere sincero non lo sopporto – più per saturazione che per omofobia, ma evidentemente il Paese Reale lo trova ancora buffo e bisogna ammettere che per uno della sua età (l'età della maggior parte del pubblico) ha i tempi comici. Giulia Blasi rimpiange Drusilla Foer e posso capire, ma ho qualche dubbio che si tratti di una differenza sostanziale, ovvero: la Foer aveva testi migliori, ma passava soltanto una sera su cinque e metà dei suoi testi li interpretava davanti a un pubblico sonnecchiante. Malgioglio in Rai c'è almeno una sera alla settimana: la quota Lgbt, in Rai, è rappresentata da Malgioglio. È senza dubbio un problema, ma Conti ha la sola colpa di mettervelo sotto il naso, laddove forse con Amadeus qualcuno si illudeva davvero che la galassia Lgbt avesse trovato un portale per connettersi con il Paese Reale in prima serata. Forse un po' ogni tanto davvero il portale si è aperto, a sprazzi, anche grazie a un artista (Mahmood) che in questi anni è veramente cresciuto e qualcosa di nuovo lo ha portato. E infatti Conti lo è andato a riprendere anche se quest'anno non era in gara, perché il bilancino funziona così. Significa che lo ha normalizzato? Tutto si normalizza, dopo un po' (Continua!)

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Le sante venute dal mare

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13 febbraio: Sante Fosca e Maura, martiri africane o romagnole (III secolo)

La leggenda di Fosca e Maura non è molto antica: probabilmente è stata messa assieme già nel Basso Medioevo da un compilatore di leggende di santi con poca fantasia. (Senti chi parla, mi sta dicendo dalla biblioteca universale). Fosca è un'adolescente come Lucia o Agata; Maura è la sua nutrice, come Felicita era la domestica di Perpetua. Vengono denunciate al prefetto Quinziano, perché il compilatore non ha neanche pensato di cambiare il nome del prefetto, che è lo stesso che tortura Agata a Catania, mentre Fosca e Maura vivrebbero a Ravenna. Dopo i soliti supplizi vengono decapitate il 13 febbraio. I resti dovrebbero essere gettati nel mare Adriatico, ma in un qualche modo vengono recuperati da una ciurma di marinai che li seppelliscono in una grotta nei dintorni di Sagratha, in Tripolitania. Dopo l'invasione araba un certo Vitale, cristiano, le avrebbe riportate da questa parte nel mare, nell'isola di Torcello che intorno all'anno Mille era uno dei centri più importanti della laguna veneta.

Il tratto più originale della leggenda è l'ambientazione: non vi sono altre storie di martiri a Ravenna, a parte quella del protovescovo Apollinare. Questo ci lascia ipotizzare che l'ambientazione sia venuta prima della leggenda, e anzi l'abbia causata. La chiesetta di Santa Fosca fa parte del complesso architettonico della Cattedrale di Maria Assunta nell'isola di Torcello (oggi una piccola parrocchia, ma fu sede vescovile). Lo stile veneto-bizantino della chiesetta ricorda in effetti quello della basilica di San Vitale di Ravenna. Era lo stile diffuso delle chiese dell'Esarcato bizantino; man mano che i legami con l'oriente si fanno sempre più labili, lo stesso stile comincia a essere percepito come qualcosa di esotico. Oltre a confermare un legame con Ravenna, la leggenda cerca di dar conto dell'origine delle reliquie, arrivate dopo il Mille, quando la chiesetta esisteva già. Che la provenienza fosse africana lo spiegavano già i nomi, che indicano la carnagione scura in veneziano ("Fosca") e in latino ("Maura"). E allo stesso tempo l'anonimo compilatore non riusciva a immaginarsi una storia di santi ambientata in luoghi ormai da secoli esclusi dalla cristianità: meglio Ravenna, anche se poi bisognava trovare una spiegazione per il fatto che le ossa provenissero dal mare.

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Il pellegrino ignoto

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12 febbraio: San Ludano (♱ 1202), straniero in terra straniera.

A furia di leggere storie di santi si impara a far la tara alle leggende, per cui la situazione me la immagino più o meno così: c'è un cadavere posato sotto un albero, sul sentiero che corre lungo il fiume e porta verso la città (Strasburgo). Il primo a trovarlo magari è un cacciatore di frodo che non ha troppa voglia di spiegare perché passava di lì, così magari informa in confessione un prete del villaggio di Nordhouse. Chi va a controllare, verifica che il tizio è stecchito da un po', probabilmente morto di ipotermia durante una notte troppo rigida.

Che sia uno straniero è evidente. Nel suo fagotto c'è qualche oggetto personale che lascia intendere che si tratti di un pellegrino di ritorno dai luoghi santi, oltre a un cartiglio che con qualche fatica il prete riesce a decifrare, una specie di documento che lo permette di identificare come "Ludano figlio del nobile Iteboldo, capo degli Scoti": caso risolto. Sempre che il prete non si sia inventato tutto lì per lì non volendo confessare che il cartiglio è incomprensibile: gli Scoti in effetti nessuno sa bene dove stiano, certo troppo lontani per invitarli a un funerale che anzi bisogna sbrigare in fretta. 

Siamo in una cittadina alsaziana all'inizio del tredicesimo secolo e il cadavere di un pellegrino è un avvenimento, ma anche qualcosa che viene percepito come profondamente ingiusto: morire lontani dai propri cari che mai sapranno che hai ottenuto una grazia per loro, in mezzo a gente che non saprebbe pronunciare il tuo nome e potrebbe non ricordarsi di te nelle preghiere. D'altro canto un pellegrinaggio ha un senso proprio perché è un viaggio lungo e periglioso: Ludano probabilmente stava tornando da Roma, dove forse aveva ottenuto un'indulgenza per sé. Il parroco decide di seppellirlo in chiesa: in fondo molti peccati nel tragitto a piedi da Roma non poteva averli fatti. Rimasto senza una famiglia, Ludano viene adottato da tutta la comunità e col tempo comincia a essere considerato un santo, una specie di pellegrino ignoto. 

La sua storia, tanto semplice, subisce il trattamento di altre leggende di santi che per mantenere l'attenzione dovevano contenere un minimo di prodigi: così alla morte di Ludano si racconta che le campane di Nordhouse e dintorni avrebbero iniziato autonomamente a scampanellare e non avrebbero smesso finché Ludano non fosse stato sepolto. Anche il procedimento con cui viene scelta la chiesa in cui seppellirlo (a Nordhouse ce n'erano due)  è un luogo comune delle leggende di santi: i resti vengono messi su un carretto attaccato a un cavallo non domato, che si avvia rapidamente verso la chiesa di San Giorgio e si ferma lì. 

Ma soprattutto bisogna confortare i fedeli sulla santità di Ludano, che è pur morto senza ricevere i sacramenti: perciò viene raccontato che nell'ultima sua notte Ludano, dopo aver compreso che stava per morire, avrebbe pregato il Signore di ricevere un'ultima volta l'eucarestia: la preghiera sarebbe stata esaudita tramite l'invio di un angelo. Tutto questo sarebbe accaduto in assenza di testimoni, ma l'anonimo autore della storia non si preoccupa troppo del dettaglio: l'importante è confermare che Ludano è morto santamente ed è degno del culto che gli viene tributato. Fondamentale è anche il dettaglio del profumo: i cadaveri dei santi non puzzano, bensì emettono una fragranza che chiarisce il legittimo dubbio di chi li trova e deve decidere se seppellirli in terra consacrata. 

Può darsi che Ludano non si chiamasse Ludano, che non fosse il figlio di Iteboldo e non venisse da Roma. Ma riposa a Nordhouse, e ci ricorda che in mancanza di prove ogni migrante è un santo. Se solo ce ne ricordassimo, ogni tanto, prima di trovarli cadaveri. 
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Trump, l'idiota in marcia?

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Come vi sentite un mese dopo un mese di Trump 2 la vendetta? A questo punto della storia immaginavo che i commentatori moderati stessero cominciando ad assorbire lo choc e a ingegnarsi per trovare un metodo in tanta pazzia – in fondo anche quella del madman è una tattica di combattimento, no? Se ti mostri completamente inattendibile e inaffidabile, l'avversario sarà in difficoltà perché tutti gli schemi con cui è abituato a combattere non sono più applicabili. A volte ha funzionato – anche se fin qua si trattava, senza eccezione, di leader autoritari e probabilmente psicopatici... però a volte ha funzionato, quindi perché no? In fondo cosa ha fatto Netanyahu dal sette ottobre in poi, se non il matto? e quel Milei con la motosega, anche lui non piace così tanto ai moderati?

Qualche sforzo in tal senso in effetti c'è stato, perché in fondo ci sono motivi seri per occupare la Groenlandia – e anche il Canada alla fine cos'è, se non una curiosità storica. Quanto alla rivierizzazione di Gaza, beh, almeno Trump ha il privilegio di abolire l'ipocrisia: Gaza non è più abitabile, e gli israeliani non hanno le risorse per renderla tale. A essere più precisi non avevano nemmeno le risorse per distruggerla come l'hanno distrutta: tali risorse sono state generosamente fornite dagli americani, per cui a valle di tutta la retorica sionista e biblica, se lì ci sono delle spiagge interessanti (e dei giacimenti interessanti), prima o poi gli americani li reclameranno. A Netanyahu evidentemente la cosa non piace; del resto a nessuno statista piace quando gli americani gli ricordano che è semplicemente un maggiordomo – e non importa quante donne e bambini abbia sepolto negli scantinati, e quanto si sia divertito a macellare gli innocenti: sempre un maggiordomo resta. Da canto loro, gli americani hanno sempre quell'annoso problema con la sindrome di onnipotenza, che li ha condotti a guerre senza fine e senza senso: Trump, meno apparentemente bellicoso di molti altri presidenti, ne sembra comunque la massima incarnazione. Probabilmente l'uomo è davvero convinto che due milioni di persone si possano deportare facilmente in un posto migliore. Altri uomini prima di lui erano altrettanto convinti di cose del genere. Purtroppo ora i loro nomi si trovano in pagine di Storia dedicate ai genocidi, ma davvero, la buona fede c'era e non dubito che anche Trump ne abbia.  

Così, un mese dopo il Secondo Avvento di Trump, non ho resistito e sono andato a rileggermi Gli idioti in marcia. Non ne vado fiero. Ma magari è successo anche a voi. O più probabilmente non conoscete Gli idioti in marcia – che viceversa in certe sottoculture è un testo famosissimo, oltre che un modo di dire. Per fortuna si tratta di una lacuna che si può colmare in venti minuti; Gli idioti in marcia (The Marching Morons) è infatti un raccontino di fantascienza di Cyril M. Kornbluth. Se proprio non volete leggerlo on line, potete trovarlo nel tredicesimo volume della splendida raccolta I grandi racconti della fantascienza, che per me ormai è un testo sacro: nello stesso volume ci sono cose anche più belle e rilevanti, come Null-P, che spiegava il berlusconismo nel 1951; Sentinella di Clarke (Kubrik ci fece un filmetto), Un secchio d'aria di Leiber, insomma se dovete leggere un solo libro di fantascienza nella vostra vita, forse è quello giusto. Tutta l'antologia è curata da Isaac Asimov, il quale nella breve introduzione al racconto ci avvisava già negli anni '80 che "marching morons" in inglese stava diventando un termine colloquiale, molto spesso usato per commentare le notizie di cronaca. In effetti "idioti in marcia" si può applicare quasi a tutto quello che si legge negli ultimi giorni: aa Meloni spia i giornalisti ma si dimentica di pagare l'app di spionaggio? Marching morons. Si fa beccare mentre promette letame su uno scrittore famoso internazionalmente per la lotta alla camorra? Marching morons. Gli industriali italiani si fanno abbindolare da un tizio che si presenta come il ministro Crosetto e gli propone di trasferire fondi su un conto all'estero – per motivi umanitari, per carità? Marching morons. Ma insomma chi sono questi marching morons?

Nel lontano 1951 Kornbluth aveva già notato che le persone intelligenti tendono a riprodursi meno dei "morons". Da giovane nerd frustrato, la cosa lo convinceva di vivere in un mondo di idioti; da bravo scrittore di fantascienza riteneva giusto scrivere un romanzo per esplorare un'ipotesi: questa tendenza, nel lungo termine non renderà l'intelligenza un gene recessivo? Chi non ha ancora letto il racconto potrebbe comunque aver familiarizzato col problema grazie al film Idiocracy, che ne riprendeva l'assunto. Gli autori del film però non potevano seguire Kornbluth fino in fondo, perché l'autore non si limitava a immaginare un mondo futuro popolato di idioti, ma proponeva anche una soluzione – decisamente genocidaria. Parliamo del resto di un ventottenne newyorkese di origine askenazita che si era conquistato una medaglia di bronzo sulle Ardenne. I genocidi per lui non erano pagine di Storia studiate a scuola, ma episodi a cui aveva assistito e nei quali si sentiva coinvolto. In effetti l'altro suo racconto memorabile, Two Dooms, nasce dall'esigenza esistenziale di giustificare il progetto Manhattan: per spiegare ai suoi lettori e a sé stesso che gli americani dovevano sviluppare la Bomba, Kornbluth si immagina cosa sarebbe successo se i nazisti, in un rush finale, fossero riusciti a svilupparla prima di loro. È forse la prima ucronia del genere, dieci anni prima della Svastica sul sole e non è affatto indenne da una serie di pregiudizi di stampo coloniale che oggi troviamo più difficile distinguere dal razzismo dei nazisti che Kornbluth aveva combattuto non solo a parole. Ma anche The Marching Morons, a guardarlo da una certa distanza, rivela una concezione eugenetica che era la stessa da cui partivano i nazisti. I genetisti tedeschi temevano che i matrimoni misti disperdessero la "razza ariana"; Kornbluth era convinto che l'"intelligenza" fosse un analogo fattore genetico a rischio dispersione. Sia i nazisti sia Kornbluth non arrivano al genocidio immediatamente, ma a un certo punto è la logica dei loro ragionamenti a tirarsi da sola le conclusioni e condurli lì, dove stanno arrivando Netanyahu e Trump; non c'è niente da fare, se concedi che determinate persone abbiano un fattore genetico più prezioso, dovrai isolarli e trovare per loro un Lebensraum dove possano crescere e moltiplicarsi indisturbati; chi è di intralcio a questa operazione dovrà essere messo da parte, possibilmente in modo indolore, anzi sarebbe fantastico se potessero andarsene volentieri, in un luogo dove fossero felici (per quanto possano essere felici gli individui inferiori; pensiamo a certi acquari con la conchiglia e il castelletto).

(Continua)

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L'Intelligenza artificiale a scuola (ci rimetterà la penna in mano)

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Mi dispiace non poter condividere l'entusiasmo con cui lunedì scorso il ministro Valditara ha salutato i partecipanti al primo “Summit nazionale sull'intelligenza artificiale” a Milano. Secondo il ministro l'AI ha enormi potenzialità didattiche che stiamo solo iniziando a esplorare: potremo personalizzare l'insegnamento, venire incontro a chi ha disabilità o esigenze particolari, e addirittura l'AI ci aiuterà a sconfiggere il cyberbullismo. Non posso dirmi altrettanto ottimista perché rammento quello analogo provato dai suoi predecessori, quando la parola d'ordine non era ancora “AI”, ma “metaverso”, “web 2.0”, o “social network”, o altre buzzword che nel frattempo mi sono dimenticato. Anche loro dovevano rivoluzionare la didattica, e qualche cosa in effetti l'hanno cambiata, ma sempre un po' meno di quanto veniva promesso da chi vendeva software e hardware.

Nel suo saluto finale Valditara ha riconosciuto che le scuole italiane stanno investendo molto nella tecnologia: saremmo secondi soltanto alla Corea del Sud. Del resto non c'è alternativa: se le scuole vogliono i finanziamenti del PNRR devono promettere di spenderli in tecnologia. Fondi per aumentare l'organico più di tanto non ci sono, ma per i tablet sì: non resta quindi che mettere un tablet sul banco e sperare che si trasformi in un istitutore in grado di personalizzare la didattica, grazie a questa cosa che ora chiamiamo tutti AI anche se alla fine non abbiamo capito come funziona. Quel che è chiaro è che non mantiene ancora quel che promette. Chatgpt e Deepseek sono abili conversatori ma continuano a prendere cantonate; dispongono di una invidiabile cultura generale, ma usarli come motori di ricerca è pericoloso, perché ogni tanto continuano a inventarsi fatti e scambiare date. Per quanto li si chiami familiarmente “intelligenze artificiali”, si tratta di LLM, “large language models” modelli generativi di linguaggio. La prima “L” della sigla, “large”, mette in chiaro che l'“intelligenza” dipende dall'enorme quantità di dati con cui sono stati addestrati. 

In effetti, mentre il ministro a Milano magnifica le possibilità di queste nuove tecnologie, noi insegnanti ci troviamo di fronte al dilemma opposto: come convincere i ragazzi a scriversi i compiti a casa da soli senza ricorrere ai modelli generativi? Come riconoscere un testo svogliato, con qualche errore fattuale, ma composto da un essere umano, con quello che già oggi può fare un'AI? Perché se a tutt'oggi non sono ancora in grado di scrivere romanzi o tesi originali, quello che i modelli generativi sono assolutamente in grado di fare è proprio imitare lo stile impersonale e vacuo dello studente volenteroso e ottuso, che magari non ha capito la lezione ma vuole comunque ripeterla all'insegnante riproducendone il più possibile lo stile. 

Non si tratta di una coincidenza: i LLM sono esattamente studenti diligenti e ottusi, che hanno letto tantissimi libri e sono in grado di imitarli anche senza averli capiti. È abbastanza ironico che ad accoglierli a braccia aperte nella scuola italiana sia lo stesso ministro che pochi giorni fa rivendicava il valore didattico della grammatica. Le AI in un certo senso sono la dimostrazione che la grammatica ha mancato il suo scopo originale. Gli antichi maestri di scuola che la elaborarono pensavano di poter trovare i fondamenti di una lingua universale, che ogni allievo avrebbe potuto riconoscere in qualsiasi altro linguaggio si sarebbe trovato davanti. I traduttori universali, questo sogno che l'uomo insegue da millenni, oggi esistono: sono AI e per imparare centinaia di lingue umane non hanno consultato nessun manuale di grammatica. Quel che hanno fatto è leggere e processare tutti i testi reperibili in rete (violando allegramente ogni copyright), e applicare algoritmi basati sulla ricorrenza statistica delle parole e delle frasi. Chi è convinto che agli umani la grammatica serva a qualcosa, oggi ha un argomento in meno: ed è un altro motivo per cui non posso condividere l'entusiasmo del ministro per un'“intelligenza” che commette meno errori di me senza aver mai studiato le regole che devo insegnare tutti i giorni. 

A consolarsi, paradossalmente, potrebbero essere i cultori della calligrafia e del tema scritto a mano in classe, perché in un mondo dove ogni dispositivo elettronico è collegato a un LLM, l'unico modo per evitare che la cosiddetta Intelligenza faccia i compiti dei nostri ragazzi sarà spegnere tutto per due ore, e rimettere loro la penna in mano. Giusto per sviluppare un minimo di intelligenza personale, prima di affidarsi completamente a quelle artificiali.

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La Regola e l'Eccezione

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10 febbraio: Santa Scolastica da Norcia (480-547), eccezione alla Regola

 miniatura di Jean de Stavelot (XV secolo).
Scolastica è la sorella di Benedetto, il fondatore del monachesimo occidentale: ma Benedetto è un solitario, un eremita che solo a malincuore si rassegna a diventare cenobita e condividere la sua solitudine con altri monaci. Scolastica, molto legata a lui, non può che seguirlo a distanza: quando Benedetto fonda Montecassino, lei si stabilisce alle pendici del monte, a Piumarola, dove apre un cenobio femminile che sarà il primo a seguire la Regola di San Benedetto. I due fratelli si incontrano una volta all'anno, in una casupola a metà strada. Gregorio Magno, lontano parente dei due, racconta nei Dialoghi dell'incontro avvenuto il 6 febbraio del 547: sono entrambi sessantenni e Scolastica sa che è l'ultima volta che vedrà il fratello. Gli chiede di restare a discutere e pregare per la notte, ma Benedetto è inflessibile come la sua Regola: i monaci la notte devono stare in monastero, cosa penserebbe poi la gente. Scolastica s'impunta, prega e piange finché non scoppia un temporale. "Esci pure, se puoi; lasciami, e ritorna al monastero. Tu non mi hai voluto ascoltare; ho pregato il mio Signore, e lui mi ha esaudita". Benedetto cede. Tre giorni dopo, tornato a Montecassino, Benedetto vede una colomba salire verso il cielo e capisce che si tratta dell'anima di Scolastica: la seppellisce nella tomba in cui lui stesso sarà deposto qualche settimana dopo. 

Se Benedetto è la Regola, Scolastica è l'Eccezione: l'idea tanto cattolica che ogni limite abbia una sua pazienza; che lo stesso Dio che ci dà le regole possa, quando vale la pena e glielo si chiede con insistenza, chiudere l'Occhio. Insieme, Gregorio Magno ci fa capire, costituiscono la perfezione della vita monastica. Eppure anche da morta Scolastica avrebbe rischiato di essere divisa dal fratello: dopo la distruzione di Montecassino a opera dei Longobardi, la tomba diventa l'obiettivo dei cacciatori di reliquie. In particolare nel 660 si ritrovano presso le rovine due spedizioni: una proviene dall'abbazia benedettina di Fleury, l'altra dalla città di Le Mans. Decidono di aver identificato la tomba e di spartirsi il bottino: a Fleury sarebbe andato Benedetto, a Le Mans la sorella. Ma come riconoscere le ossa, ormai mescolate tra loro? Viene applicato un sistema così interessante, quasi sperimentale, che dispiace un po' che si tratti di un'evidente leggenda: prima si separano le ossa grosse da quelle sottili, e poi accostano i due mucchietti a due ragazzi appena morti, un maschio e una femmina. Il maschio risorge soltanto quando viene accostato alle ossa grosse; la femmina solo vicino alle ossa sottili. I resti così identificati di Scolastica vengono così portati a Le Mans, dove nove secoli dopo si salvano miracolosamente anche dal saccheggio degli ugonotti – ma non dai tumulti contadini durante la rivoluzione francese. A dispetto di questa tradizione, nella tomba conservata a Montecassino durante la ricognizione del 1950 sono state trovate diverse ossa e il confronto con una tibia di Scolastica – conservata in un reliquiario – ha consentito ai periti medici di distinguere tra quelle appartenenti a Benedetto e quelle della sorella, di cui è stata attestata l'età al decesso (tra i sessanta e i settant'anni) e la statura: un metro e 59.

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