Alla ricerca dei relitti delle navi negriere per non dimenticare le proprie radici: la sfida di 500 sub afroamericani

Un'associazione di subacquei afro americani si immerge per trovare i relitti dei velieri che trasportarono i loro antenati nelle Americhe

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“Quando sei un afroamericano e ti immergi sul relitto di una nave di negrieri lo fai con uno spirito completamente diverso dagli altri subacquei. Non puoi non renderti conto pienamente di due cose: la prima è che forse qualche tuo antenato è stato imprigionato su quella nave, la seconda è che hai una storia diversa da quella degli altri americani. Una storia che non è cominciata nei mercati degli schiavi sulla costa degli Stati Uniti ma molto, molto prima, nel continente africano”. Così racconta i suoi sentimenti l’archeosub ed istruttore Albert José Jones, uno dei fondatori della National Association of Black Scuba Divers, un’associazione americana di subacquei di origine africana.
Jones è anche membro del consiglio di amministrazione della Dwa, acronimo di Diving With a Purpose, traducibile con “immergersi con uno scopo”, un’organizzazione internazionale che si occupa di fornire ai subacquei la formazione necessaria a supportare progetti di ricerca e di conservazione del nostro patrimonio sommerso.
Proprio su proposta dei subacquei afroamericani, la Dwa ha recentemente varato un programma di ricerca dei relitti delle navi negriere che per più di tre secoli hanno fatto la spola tra le coste africane e quelle americane per trasportare una “merce speciale”: gli schiavi. La prima nave negriera batteva bandiera spagnola e salpò nei primi anni del 1500 per portare in Centro America quella forza lavoro che nel Nuovo Continente, tra un massacro e l’altro, cominciava a scarseggiare. L’ultima nave schiavista lasciò la costa africana nel 1866 diretta a Cuba.
In questo periodo temporale, secondo la maggior parte degli storici, 12,5 milioni di africani furono tradotti a forza nel Nuovo Continente. Ci volevano perlomeno 36 mila viaggi. Un migliaio di navi però non riuscì ad arrivare alla meta ed affondò nella traversata trascinando sul fondo l’intero carico di “merce umana” ancora incatenata, mentre i negrieri cercavano scampo sulle scialuppe di salvataggio.
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La giornalista e blogger Tara Roberts
Per raccontare la storia di questi naufragi, la Dwa ha addestrato una equipe di circa 500 subacquei ed archeologi, per lo più afro americani, alla ricerca di questi relitti. Una ricerca emozionante ma anche difficoltosa perché le navi negriere erano in legno, materiale facilmente deperibile in acqua, ed i subacquei sono obbligati ad usare attrezzature sofisticate come magnetometri e sonar a scansione laterale.
Tra questi subacquei che, attraverso la ricerca dei relitti sommersi, cercano di leggere anche la loro storia, troviamo la giornalista e blogger, oltre che esperta subacquea, Tara Roberts. Se masticate un po’ l’inglese non perdetevi il suo appassionante podcast Into the Depths. Tara ha scritto un emozionante articolo, pure questo reperibile solo in inglese, per il prestigioso National Geographic.
“Sul fondale dell’oceano Atlantico – scrive Tara nel suo reportage – sono stati trascinati i corpi di persone dimenticate, spiriti di uomini, donne e bambini senza più nome. Anime che non sono mai state riconosciute o piante. Erano più che semplici merci o corpi imballati in una stiva. Più che statistiche senza volto. Più di persone destinate alla schiavitù. Recuperando queste storie che si sono perse nel profondo, possiamo iniziare a raccogliere e tessere quei fili perduti che ci aiutano a capire meglio il nostro obbligo verso il passato. E magari anche a cambiare il modo in cui pensiamo. A capire meglio chi siamo e come siamo arrivati dove siamo oggi”.
Foto tratte da National Geographic