Quell'universo sotto il mare
21/07/2010 Archiviato in: Altro
Tutto cominciò con una città che non esisteva e con dei lugubri rintocchi di campana che, nelle notti di luna piena, salivano dal fondo del mare terrorizzando gli increduli marinai.
Era l’estate di quarant’anni fa e tra i pescatori di Chioggia e di Pellestrina si vociferano cupi leggende di morti senza pace le cui anime dannate vagano nel fondo del mare. Sono le anime degli abitanti di Metamauco, sussurravano i pescatori, la città perduta e sprofondata nel mare tanti e tanti anni or sono, che ancora tormentano i vivi per testimoniare la loro tragedia.Da sempre, chi va in mare per pescare sa bene che proprio in quelle zone dove il pescato è più abbondante qualcosa di misterioso a volte trattiene le reti sino a romperle. Tegnue, le hanno chiamate i pescatori. Ma di che cosa si trattava nessuno lo poteva asserire di preciso. Il fondale adriatico -a quanto si poteva supporre all’epoca- doveva per forza di cose rispecchiare le peculiarità della nostra costa: piatto e sabbioso. Che cosa poteva lacerare le maglie delle reti a strascico se non le case diroccate o le mura abbattute dalla furia del mare di quella mitica Atlandide lagunare? Magari i resti di quello spettrale campanile, la cui campana ancora adesso dal fondo del mare, continuava imperterrita a scandire le ore notturne, come volesse numerare i peccati dell’umanità.
La superstiziosa paura della città fantasma suscitò all’epoca tanto scalpore che, come riportano le pagine di cronaca locale dei Gazzettini di 40 anni fa, il parroco di Malamocco dovette celebrare più di una messa e ad imbastire vari esorcismi per allontanare demoniaci timori dai fedeli.
Ma va anche detto che il mito della perduta Metamauco trovò credito soprattutto negli ambienti accademici, quando negli anni del Dopoguerra si ritornò a parlare dell’origine romana di Venezia. Qualcuno, come il professor Alessandro Marcello, in una conferenza di paleoecologia Lagunare, tenuta il 15 giugno 1960 nella Sala delle Colonne di Ca’ Giustinian, arrivò addirittura a congetturare una sorta di diluvio, se non proprio universale, quantomeno di proporzioni continentali, che, sommergendo Metamauco, avrebbe favorito l’ascesa della Città dei Dogi. Ma che in laguna, prima della Calata dei Barbari, sorgesse un importante insediamento portuale lo asserì lo stesso Plinio il Vecchio che scrisse di questa antica città al tempo del suo massimo splendore, quando dominava la regione che lo stesso che lo stesso storico e naturalista romano aveva battezzato “Septe Mària”, i Sette Mari.
Ma era davvero la perduta Metamauco a “trattenere” le reti dei pescatori? Naturalmente no. Così come l’Atlantide di Platone non è mai sprofondata nell’oceano semplicemente perché non è mai esistita (perlomeno nella sua versione... cinematografica, quella che doveva sorgere al di là delle Colonne d’Ercole), anche la Metamauco di Plinio non è mai sprofondata nell’Adriatico semplicemente perché ha continuato ad esistere cambiando il suo nome in Malamocco. Se vogliamo, Metamauco è sprofondata non nel mare ma nell’oblio della storia, perdendo di importanza a mano a mano che si illuminava la stella della, sin troppo vicina, Città dei Dogi.
I resti dell’antica città portuale romana sono comunque ancora visibili agli occhi di chi sa immergersi anche solo di pochi metri. Qualche metro di muro d’argine che doveva costituire il molo per le navi provenienti dal mare e che risalivano l’allora corso del Brenta dirette verso Patavium, l’antica Padova. La Metamauco sommersa è tutta qua. Ma anche questi pochi resti, non si trovano nel frontemare di Malamocco, ma, al contrario, ben all’interno della gronda lagunare, nei pressi di quello che oggi è conosciuto come l’Ottagono di Pellestrina.
Di resti di antiche città nel fondo dell’Adriatico, perlomeno sino ad oggi, non è mai stata trovata traccia.
Eppure, proprio come avvenne per Cristoforo Colombo che cercando una nuova rotta per le Indie trovò l’America, anche i primi subacquei scesi alla ricerca di Metamauco si imbatterono in qualcosa di altrettanto importante, pur se nulla aveva a che vedere con la città perduta. Non trovarono un tesoro archeologico ma un –non meno prezioso- tesoro biologico: le tegnue!
Quell’estate di quarant’anni fa, quando arrivarono a Venezia i primi erogatori targati “Jacques Costeau”, i subacquei veneziani che si erano riuniti in una sorta di club chiamato, per l’appunto, “Metamauco”, furono i primi esseri umani a posare lo sguardo stupefatto, dietro il vetro delle prime maschere Pinocchio appena messe in commercio dalla Cressi, su un giardino sommerso di indescrivibile bellezza.
Un mondo fino ad ora completamente inesplorato. Un mondo che non sorgeva al di là di chissà quale sperduto oceano ma che giaceva sul fondo del mare, a due passi da Venezia, ad appena una ventina di metri dalla superficie. Solo venti metri di acqua salata ma che, prima dell’invenzione di Costeau, lo rendevano più inaccessibile di un lontano pianeta.
L’esplorazione di quello che lo stesso subacqueo francese chiamo l’Ultimo Continente costò la vita a più di uno di quei primi subacquei. Avete idea di come ci si immergeva 40 anni fa?
Altro che muta in neoprene a cellule rotte, maschera in silicone anallergico, pinne a coda di rondine per evitare la fatica e giubbotto equilibratore con tre valvole di sicurezza! Si andava sotto con i mutandoni di lana del nonno bersagliere, con in bocca un erogatore monostadio non bilanciato che se solo ti azzardavi a guardare in su ti trovavi la bocca piena d’acqua salata invece che d’aria. Per l’assetto, doveva bastarti la cintura dei pantaloni con agganciati dei piombi fusi in casa. Arrivati sul fondo, la si lasciava accanto all’ancora e la si riprendeva in risalita.
Computer subacqueo manco a parlarne. Si andava giù con le tabelle di decompressione ricopiate a penna su un foglio di plastica. Tabelle che, 40 anni fa, erano ancora tutte da sperimentare. Delle specie di “cartelle della tombola” dove il premio, quando andava bene, era solo quello di evitare la patologia da decompressione (impropriamente conosciuta tra i profani come embolia).
In qualche caso, i primi subacquei usavano addirittura l’Aro (un tipo di respiratore che utilizza ossigeno puro al posto dell’aria). A Venezia questo dispositivo era facilmente recuperabile grazie agli ex incursori della marina che lo avevano utilizzato nelle azioni di guerra. Chiunque abbia un brevetto subacqueo oggi, anche di primo grado, sa bene che l’ossigeno diventa pericolosissimo se respirato sotto i 5 metri. Eppure è con l’Aro sulle spalle i primi sub esplorarono le tegnue, si immersero a meno 20 metri!
Fu questa probabilmente il principale motivo per il quale troppi subacquei non riemersero più da quel mare che avevano voluto esplorare a tutti i costi.
Ma fu grazie a loro che la biologia marina, scienza che 40 anni fa muoveva i primi passi, conobbe le tegnue adriatiche. Il primo scienziato che le studiò sul campo fu Umberto d’Ancona. Il suo nome è stato data alla nave laboratorio del Cnr a bordo della quale tutt’ora i moderni biologi marini studiano le tegnue. D’Ancona fu il padre di una generazione di studiosi tra cui ricordiamo Luca Mizzan, Massimo Ponti, Antonio Stefanon, Otello Giovanardi e altri ancora. E se di Umberto D’Ancona si racconta che non sapesse neppure nuotare, va detto che la nuova generazione di biologi abbina ad una indiscussa competenza scientifica anche le notevoli doti sportive di subacquei esperti!
Il primo studioso ad ipotizzare l’esistenza di formazioni rocciose nel fondo dell’Adriatico fu però il grande naturalista ed abate Giuseppe Olivi che già nel 1792 scrisse nella sua Zoologia Adriatica: “... questo mare deve presentare una dimora opportuna alle produzioni sì vegetabili che animali amanti d'abitazione d'indole disparata... e per conseguenza vi abbondano gli animali coperti d'integumenti duri per lo più calcarei, i quali decomponendosi contribuiscono di nuovo a formare concrezioni parimenti calcaree, che rendono quei letti ineguali ed aspri…” Parole davvero profetiche!
Oggi le tegnue adriatiche sono essenzialmente un ecosistema da proteggere. I loro nemici sono l’inquinamento, le grosse navi che, sempre più numerose, le incrociano nella loro rotta, la pesca con le turbosoffianti e la pesca di frodo, gli oramai troppi subacquei che le visitano senza il dovuto rispetto quando addirittura non le distruggono volontariamente per raccogliere i prelibati tartufi di mare.
E’ proprio per difendere questo ambiente unico al mondo che nel dicembre del 2002, il fotografo subacqueo Piero Mescalchin ha costituito l’Associazione Tegnue. A Mescalchin va il merito di aver fatto conoscere al mondo, con i suoi spettacolari e pluripremiati documentari, la bellezza delle tegnue adriatiche.
Un primo risultato, l’associazione ambientalista lo mise a segno lo stesso anno con l’istituzione, sancita da un decreto ministeriale, di una ztb, zona di tutela biologica, che riguarda però sole le tegnue antistanti Chioggia.
Una vittoria che è costata all’Associazione pesanti ritorsioni da parte dei pescatori abusivi che, in più occasioni, hanno tranciato e distrutto le grosse (e costose) boe di segnalazione poste dagli ambientalisti sopra le ztb.
Ma è questa la strada da seguire per difendere le tegnue.
Il prossimo obiettivo sarà quello di arrivare ad una legge volta a tutelare in maniera intelligente tutte le tegnue adriatiche, consentendo con moderazione sia una pesca razionale nelle loro vicinanze che le immersioni regolamentate.
Una strada ben diversa da quanto prospettato dalla Regione Veneto. E’ notizia di questi giorni che il Consiglio ha rispedito in commissione una proposta di legge del presidente Galan volta ad autorizzare il deposito in mare di enormi barriere in cemento armato per creare delle, così chiamate, “tegnue artificiali” e favorire la pesca sportiva!
Ma non è di questi luna park sommersi che il nostro mare ha bisogno, quanto di un vero disciplinare di tutela, come lo è ad esempio quello del Parco delle Cinque Terre in Liguria. Un vero disciplinare di parco che –cosa che non è mai stata fatta sino ad oggi- tenga conto del lavoro di tutti quei biologi marini che più di tutti gli altri possono dire di conoscere, e anche di amare, le nostre belle ed uniche tegnue adriatiche.