La fritola venexiana. La regina del Carnevale che viene dal mare
24/02/2019 Archiviato in: LiguriaNautica
Dai porti d'oriente alla laguna di Venezia, facendo rotta per l'isola di Candia e la Morea. La storia della frittella e dei suoi ingredienti è la storia del Mediterraneo
Un pasticcere mostra i tre tipi di frittella più noti: alla crema, allo zabaione e alla venexiana
Ciacole, ombre, cicheti e fritole, si racconta in laguna, sono il respiro stesso della città. Per coloro che vivono al di là del lungo ponte che collega Venezia alla terraferma, stiamo parlando di chiacchiere, bicchieri di vino, stuzzichini e frittelle. Tutti prodotti da consumarsi preferibilmente in buona compagnia, seduti in un bacaro, in una furatola o in una malvasia, per ricordare solo tre delle tante categorie in cui a Venezia si classificano le osterie. E il carnevale, che neppure quest’anno siamo riusciti ad evitare, è il momento migliore per assaporare queste specialità. Una su tutte, la celebre fritola venexiana che nel Settecento, secolo d’oro della Serenissima, fu incoronata nientepopodimeno che dal Doge in persona, Regina del carnevale, nonché dolce ufficiale della Repubblica di San Marco.
Una concessione alla potente corporazione -oggi scriveremmo lobby- dei fritoleri, gli unici che in quegli anni avevano il permesso di friggere le frittelle e di venderle ai ghiotti clienti. Un’attività che si svolgeva esclusivamente all’aperto, dietro baracchini di legno sistemati tra calli e campielli. “Cuocitori e venditori a un tempo -scriveva lo storico Giovanni Marangoni– impastavano la farina sopra ampi tavolati per poi friggerle con olio, grasso di maiale o burro, entro grandi padelle sostenute da tripodi. A cottura ultimata le frittelle venivano esposte su piatti variamente e riccamente decorati, di stagno o di peltro. Su altri piatti, a dimostrazione della bontà del prodotto, venivano esibiti gli ingredienti usati: pinoli, uvette, cedrini”.
“Un bocon da siori e poareti”. Un bocconcino per ricchi signori e per povera gente. Un dolce per tutti, insomma. Stuzzicante ma anche poco costoso, che ben si addiceva ad un carnevale popolare come era quello della Serenissima. Un boccone che, come tutto in questa città, arrivava dal mare e che, per inalterabile divieto posto dalla corporazione dei fritoleri, non poteva superare il diametro dei 4 centimetri.
L’arte del friggere sull’olio sbarca a Venezia -e da qui sarà diffusa in Italia ed in Europa- dal lontano Oriente. Il primo a farne cenno è uno storico e scrittore di nome Jazla, un cristiano convertitosi all’Islam vissuto a Bagdad nell’undicesimo secolo. In uno dei suoi libri, lo studioso riportò alcune ricette persiane tra cui quella della “zelabia“, che consisteva nel realizzare una pastella a base di uova e farina per poi gettarla a cucchiaiate nell’olio bollente. Non è ancora la frittella veneziana ma ci siamo vicini.
Pietro Longhi, Ca’ Rezzonico, Venezia, La venditrice di frittelle
La ricetta di Jazla giunse a Venezia dal meridione, un secolo dopo, grazie alla traduzione in latino di uno studioso ebreo. Dal mare, intanto, le cocche della serenissima portavano altri tesori. Le navi salpate per accompagnare l’esercito di papa Innocenzo III alla Quarta Crociata, tornavano in patria con le stive colme di pinoli e di uva sultanina, oltre che di ori ed argenti depredati qua e là. Da Candia, come si chiamava la bella isola di Creta, non arrivarono solo i canditi con cui i milanesi impreziosirono il loro panettone, ma anche lo zucchero destinato a sostituire in tutta Europa il miele come dolcificante.
Gli ingredienti ora ci sono tutti. Siori e siore, la fritola venexjana è servita! Accompagnatela con un buon bicchiere del dolcissimo vino di malvasia che le cocche della Repubblica imbarcavano nel porto dell’omonima città situata all’estrema propaggine meridionale della Morea, la penisola che oggi chiamiamo Peloponneso.
Il primo libro che parla della “fritola” è un testo anonimo del 1300, scritto a Venezia ma costudito oggi a Roma negli scaffali della Biblioteca Nazionale Canatense, che rimane ancora uno dei più antichi trattati di gastronomia. Da questo secolo in poi, la fritola a Venezia diventa come uno di quei parenti che magari non vedi tutti i giorni, ma che non manca mai di farti visita nelle feste comandate. Ne parla il Goldoni nel suo Campiello, la dipinge il Longhi in una sua opera custodita a Ca’ Rezzonico. Fa capolino, insomma, di riffa o di raffa, in tutta la storia della città.
E come tutte le cose buone, oltre a fare a pugni con qualsiasi proposito di mantenere la propria dieta, la ricetta originale è stata arricchita nel tempo da moltissime varianti. Tante che è impossibile stabilire quale dolce possa fregiarsi oggi del titolo di “tradizionale fritola venexiana”. Gli ebrei di Venezia ne preparano una loro versione durante la festa del Purim. Altre versioni, piuttosto popolari durante il Carnevale, che potete trovare in abbondanza nei locali della città lagunare, sono quelle con il riempimento di crema o di zabaione.
Se volete cimentarvi a casa vostra nell’arte dei fritoleri, nel web trovate molte ricette tra cui quella proposta da Liguria Nautica. Se nell’impasto descritto aggiungete pure pinoli e uva passa, è proprio il dolce che negli spensierati giorni del Carnevale gustano le maschere che girano per la città e che chiamano fritola venexiana.
Un pasticcere mostra i tre tipi di frittella più noti: alla crema, allo zabaione e alla venexiana
Ciacole, ombre, cicheti e fritole, si racconta in laguna, sono il respiro stesso della città. Per coloro che vivono al di là del lungo ponte che collega Venezia alla terraferma, stiamo parlando di chiacchiere, bicchieri di vino, stuzzichini e frittelle. Tutti prodotti da consumarsi preferibilmente in buona compagnia, seduti in un bacaro, in una furatola o in una malvasia, per ricordare solo tre delle tante categorie in cui a Venezia si classificano le osterie. E il carnevale, che neppure quest’anno siamo riusciti ad evitare, è il momento migliore per assaporare queste specialità. Una su tutte, la celebre fritola venexiana che nel Settecento, secolo d’oro della Serenissima, fu incoronata nientepopodimeno che dal Doge in persona, Regina del carnevale, nonché dolce ufficiale della Repubblica di San Marco.
Una concessione alla potente corporazione -oggi scriveremmo lobby- dei fritoleri, gli unici che in quegli anni avevano il permesso di friggere le frittelle e di venderle ai ghiotti clienti. Un’attività che si svolgeva esclusivamente all’aperto, dietro baracchini di legno sistemati tra calli e campielli. “Cuocitori e venditori a un tempo -scriveva lo storico Giovanni Marangoni– impastavano la farina sopra ampi tavolati per poi friggerle con olio, grasso di maiale o burro, entro grandi padelle sostenute da tripodi. A cottura ultimata le frittelle venivano esposte su piatti variamente e riccamente decorati, di stagno o di peltro. Su altri piatti, a dimostrazione della bontà del prodotto, venivano esibiti gli ingredienti usati: pinoli, uvette, cedrini”.
“Un bocon da siori e poareti”. Un bocconcino per ricchi signori e per povera gente. Un dolce per tutti, insomma. Stuzzicante ma anche poco costoso, che ben si addiceva ad un carnevale popolare come era quello della Serenissima. Un boccone che, come tutto in questa città, arrivava dal mare e che, per inalterabile divieto posto dalla corporazione dei fritoleri, non poteva superare il diametro dei 4 centimetri.
L’arte del friggere sull’olio sbarca a Venezia -e da qui sarà diffusa in Italia ed in Europa- dal lontano Oriente. Il primo a farne cenno è uno storico e scrittore di nome Jazla, un cristiano convertitosi all’Islam vissuto a Bagdad nell’undicesimo secolo. In uno dei suoi libri, lo studioso riportò alcune ricette persiane tra cui quella della “zelabia“, che consisteva nel realizzare una pastella a base di uova e farina per poi gettarla a cucchiaiate nell’olio bollente. Non è ancora la frittella veneziana ma ci siamo vicini.
Pietro Longhi, Ca’ Rezzonico, Venezia, La venditrice di frittelle
La ricetta di Jazla giunse a Venezia dal meridione, un secolo dopo, grazie alla traduzione in latino di uno studioso ebreo. Dal mare, intanto, le cocche della serenissima portavano altri tesori. Le navi salpate per accompagnare l’esercito di papa Innocenzo III alla Quarta Crociata, tornavano in patria con le stive colme di pinoli e di uva sultanina, oltre che di ori ed argenti depredati qua e là. Da Candia, come si chiamava la bella isola di Creta, non arrivarono solo i canditi con cui i milanesi impreziosirono il loro panettone, ma anche lo zucchero destinato a sostituire in tutta Europa il miele come dolcificante.
Gli ingredienti ora ci sono tutti. Siori e siore, la fritola venexjana è servita! Accompagnatela con un buon bicchiere del dolcissimo vino di malvasia che le cocche della Repubblica imbarcavano nel porto dell’omonima città situata all’estrema propaggine meridionale della Morea, la penisola che oggi chiamiamo Peloponneso.
Il primo libro che parla della “fritola” è un testo anonimo del 1300, scritto a Venezia ma costudito oggi a Roma negli scaffali della Biblioteca Nazionale Canatense, che rimane ancora uno dei più antichi trattati di gastronomia. Da questo secolo in poi, la fritola a Venezia diventa come uno di quei parenti che magari non vedi tutti i giorni, ma che non manca mai di farti visita nelle feste comandate. Ne parla il Goldoni nel suo Campiello, la dipinge il Longhi in una sua opera custodita a Ca’ Rezzonico. Fa capolino, insomma, di riffa o di raffa, in tutta la storia della città.
E come tutte le cose buone, oltre a fare a pugni con qualsiasi proposito di mantenere la propria dieta, la ricetta originale è stata arricchita nel tempo da moltissime varianti. Tante che è impossibile stabilire quale dolce possa fregiarsi oggi del titolo di “tradizionale fritola venexiana”. Gli ebrei di Venezia ne preparano una loro versione durante la festa del Purim. Altre versioni, piuttosto popolari durante il Carnevale, che potete trovare in abbondanza nei locali della città lagunare, sono quelle con il riempimento di crema o di zabaione.
Se volete cimentarvi a casa vostra nell’arte dei fritoleri, nel web trovate molte ricette tra cui quella proposta da Liguria Nautica. Se nell’impasto descritto aggiungete pure pinoli e uva passa, è proprio il dolce che negli spensierati giorni del Carnevale gustano le maschere che girano per la città e che chiamano fritola venexiana.